Il caso di Linda Conchetto, la liceale veneziana che ha rinunciato a sostenere il colloquio agli orali della maturità classica come forma di protesta per i voti ritenuti troppo bassi assegnati da una commissaria esterna nella versione di greco, costituisce un singolare precedente nel contenzioso dell’esame di Stato.
Sino a oggi esposti, ricorsi e richieste di accesso agli atti non erano mancati fra i maturandi: non soltanto fra quelli bocciati – oggi per altro una specie quasi in via di estinzione, – ma fra quanti ritenevano di avere ottenuto un voto inferiore alle aspettative. Ricorsi dettati da amor proprio degli studenti, e spesso dei loro genitori, delusi magari per aver visto sfumare l’opportunità di una borsa di studio, o per avere vista messa in dubbio, per dirla con Don Milani, la potenza dei loro cromosomi.
Non era mai accaduto però che la protesta contro una presunta ingiustizia si traducesse in una contestazione silente, con la maturanda che per altro ha fatto precedere la sua scena muta da una dichiarazione in cui motivava la scelta come rifiuto di “accettare il vostro giudizio che non rispecchia il mio lavoro” e come protesta per “la mancanza di rispetto nei miei confronti”. Alla Conchetto, che aveva comunque conosciuto nella versione una valutazione sufficiente, anche se inferiore alle aspettative, si sono aggiunte altre due studentesse, le cui versioni erano state però bollate con un 3,5 e un 5.
La contestazione delle maturande ha suscitato reazioni diverse anche all’interno dello stesso centrodestra. L’assessore all’Istruzione della Regione Veneto ha espresso l’opinione che sarebbe stato giusto punire le tre ragazze per quella provocazione. Il ministro Valditara, che non può essere certo accusato di voler minare il prestigio degli insegnanti, ha voluto vederci chiaro e il direttore scolastico regionale del Veneto, che per altro è l’ex titolare del Miur nel governo giallo-verde, ha avviato accertamenti per verificare eventuali irregolarità. Una scelta dettata probabilmente anche dal desiderio di tagliare corto sui pettegolezzi che hanno accompagnato il numero anomalo di insufficienze (10 su 14 elaborati) inflitte dalla commissaria esterna. Insufficienze dettate secondo voci di corridoio da un passato contrasto col professore di lettere della classe dei maturandi.
È onesto osservare come tali illazioni siano la conseguenza di un primo snaturamento dell’esame di Stato, avvenuto, per motivi di bilancio, nel 1994, quando Francesco D’Onofrio, ministro della Pubblica Istruzione del primo governo Berlusconi, stabilì che presidenti e membri esterni della commissione fossero scelti fra docenti dello stesso Comune in cui si svolgevano le prove, o almeno della stessa provincia o regione. La scelta era dettata da preoccupazioni di carattere economico: pagare agli esaminatori per una ventina di giorni, oltre al viaggio in prima classe, alloggio in hotel a tre o a quattro stelle e due pasti al ristorante, costava troppo e qualche anno prima alcuni articoli sul “Giornale” di Montanelli della preside Elisabetta Fiorentini avevano denunciato l’abitudine di alcuni insegnanti di farsi sovra fatturare le spese, in modo magari da far rientrare nella trasferta anche il soggiorno del o della consorte.
L’innovazione comportava però un netto snaturamento della maturità come l’aveva concepita Giovanni Gentile, trasformando l’esame di Stato, che avrebbe dovuto appunto assicurare omogeneità di valutazione in tutto il territorio dello Stato, da Lampedusa al Brennero, in un esame di provincia, di municipio o addirittura di quartiere. Questa nuova impostazione, oltre a rendere poco attendibili i voti dei maturandi, vista la presunta maggior larghezza di maniche dei docenti del Sud, può comportare un alto tasso di litigiosità fra esaminatori, con picche e ripicche personali fra docenti di istituti che si trovano a pochi chilometri di distanza, come quella che intercorre nella fattispecie fra il cuore di Venezia, dove si trova il liceo Foscarini in cui si sono svolti gli esami, e Mestre, da cui proveniva la commissaria. Naturalmente non è detto che in questo caso sia andata così: il compito di verificarlo spetta nei limiti del possibile agli ispettori; resta il fatto che la “de-statalizzazione” dell’esame di Stato fa risparmiare sulle diarie, ma non sulle chiacchiere.
Occorre aggiungere che la valutazione di una versione si presta sempre a un certo margine di discrezionalità, per l’eterna disputa fra chi vuole che l’alunno dimostri alla perfezione di avere compreso i nessi grammaticali e chi vorrebbe vedere nella traduzione una trasposizione in buon italiano del testo. È l’eterna disputa fra la traduzione letterale o a senso, croce e delizia (ma soprattutto croce) di generazioni di studenti, che, magari abituati ad assecondare le preferenze del loro professore, si trovano spaesati dinanzi a un diverso criterio di valutazione. Del resto, con buona pace degli esperti di docimologia, un certo grado di opinabilità è fatale nelle discipline umanistiche in ogni valutazione, a meno di non voler ridurre l’esame a una semplice successione di quiz a risposta chiusa. Compito dell’esaminatore – o meglio degli esaminatori, visto che la valutazione dovrebbe essere collegiale – è tenersi fuori nell’assegnazione del voto da fattori umorali o da risentimenti personali.
Un discorso a parte meritano però le motivazioni che possono avere spinto le tre studentesse a questa forma di contestazione, per altro solo all’apparenza autolesionistica, in quanto per la logica ragionieristica dell’odierno esame di Stato i crediti maturati e i voti nelle altre prove hanno evitato loro una bocciatura. Linda Conchetto, che poi è stata l’iniziatrice della protesta, sembrerebbe poter vantare un curriculum scolastico di tutto rispetto (è un anno avanti) e un retroterra culturale prestigioso: sua madre è laureata in lettere classiche e può vantare un dottorato di ricerca.
Promessa dell’atletica leggera, la candidata sperava di poter ottenere una borsa di studio per un’università statunitense, opportunità forse compromessa dalla scarsa votazione conseguita alla maturità: 71, il “sette più” dei vecchi sketch di Cochi e Renato. Sul silenzioso clamore (ci si perdoni l’ossimoro) della sua protesta potrebbe aver influito l’abitudine a ottenere risultati elevati, per orgoglio personale e magari per non deludere le aspettative della famiglia, che potrebbe avere suscitato in lei un eccesso di autostima.
Un’interpretazione meno benevola potrebbe indurre a collegare la sua scelta a una smania di protagonismo, a quella ricerca di un quarto d’ora di celebrità di andywarholiana memoria sempre più diffusa nel mondo giovanile, e non solo giovanile. Certo – ma per quanto? – è divenuta per una parte dell’opinione pubblica un’eroina, molto più che se all’esame avesse ottenuto il 90 cui aspirava.
Resta il fatto che, se il suo esempio venisse seguito e magari premiato, si avallerebbe un precedente pericoloso. A differenza che in passato, quando il verbo del docente era sacro (e nemmeno questo era corretto), la giustizia scolastica offre molte opportunità per reagire a un abuso, vero o presunto. Ed è difficile immaginarsi che cosa succederebbe se, per analogia, l’imputato si rifiutasse di rispondere al giudice ritenendo le accuse rivoltegli ingiuste, o il contribuente messo in mora facesse scena muta con l’ispettore delle imposte. Comportamenti di questo genere presenterebbero effetti devastanti sulla convivenza civile. Qualcuno, riguardo alla protesta delle tre studentesse, ha parlato di una scelta “gandhiana”. Ma Gandhi lottava per l’indipendenza del suo popolo da un dominio coloniale, e non aveva alternative, a parte la rivolta armata. Linda e le sue compagne vivono in un Paese libero, che offre vie legali alla protesta, e infatti hanno finito per ricorrervi anche loro, chiedendo con una Pec l’accesso agli atti, ovvero di poter visionare la loro prova.
Il caso del liceo Foscarini induce però soprattutto a un serio interrogativo sull’utilità e il senso di un esame che per consuetudine ci ostiniamo a chiamare di maturità, ma che nel lessico ufficiale si chiama esame di Stato. Che senso ha, e in che misura è ancora oggi in grado di accertare la maturazione e le competenze di un candidato? La maturità, quella maturità che nella vita è necessaria pure a chi non ha fatto il liceo, dovrebbe essere anche saper dominare il proprio ego, non considerare un voto inappagante una mancanza di rispetto da punire con un gesto clamoroso, perché la vita è fatta di vittorie come di sconfitte e sapere superare le delusioni che inevitabilmente verranno – nello studio, nel lavoro, nello sport, magari nell’amore – è più importante che riuscire a evitarle.
Inoltre, se una candidata che fa scena muta agli orali viene promossa solo sulla base dei risultati pregressi, senza che venga accertata la sua conoscenza della maggior parte delle discipline, l’esame di Stato lascia all’opinione pubblica la convinzione che sia rimasto in vita solo in ottemperanza al quinto comma dell’articolo 33 della Costituzione, e ai candidati la convinzione che si possa essere promossi senza studiare, riservando magari l’impegno alla preparazione per i test d’accesso all’università. Si accresceranno le richieste di sopprimerlo o di limitarlo a una burocratica ratifica degli scrutini dell’ultimo trimestre, rispolverando la critica di Luigi Einaudi al valore legale del titolo di studio.
È un’ipotesi rispettabile, proveniente da un grande liberale, ma che lascerebbe un grande vuoto, perché nella vita saper affrontare gli esami è più importante che superarli. Tanto più che nella vita le prove non finiscono mai, e, come amava ripetere, scherzando ma non troppo, un vecchio docente universitario, quando finiscono gli esami per la libera docenza o per i concorsi a cattedra, incominciano quelli clinici.
Enrico Nistri – Saggista