Colpa, punizione e inferno: immagini nella fotografia contemporanea

Alcuni esempi dal sud del mondo

Honoré de Balzac (nel dittico Papà Goriot e Splendori e miserie delle cortigiane), Alexandre Dumas padre (in Il conte di Montecristo), Victor Hugo (ne I miserabili) hanno consegnato al realismo romantico ottocentesco un mito di lunga durata: quello dell’evaso da prigioni disumane caratterizzato da superiorità intellettiva, emotiva e fisica fuori dal comune, che una volta libero giustifica il male solo per vendetta e alla fine è vittima della propria innata inclinazione a provare amore.

Questo tipo di forzato, protagonista di evasioni prodigiose, è stato poi riversato nel cinema e in televisione e ha avuto un’evoluzione recente in film e serie biografici su delinquenti realmente esistiti, prevalentemente celebri per avere trafficato droga e per la loro inumana ferocia da cui si salvano solo alcuni degli affetti più cari. 

Naturalmente la realtà è diversa: non si prova simpatia per chi ha commesso reati gravi ed è in prigione per essere rieducato. Purtroppo in Italia chi commette reati, piccoli e gravissimi, in prigione non viene rieducato (come invece accade altrove, ad esempio in Norvegia). In Italia chi commette reati viene rinchiuso, privato della propria dignità, spesso dimenticato perfino se arriva a togliersi la vita. 

Chi ha letto i miei precedenti interventi su questa testata sa che sono una storica dell’arte, che lavoro all’università, che non mi occupo di politica. Perché, dunque, ho cominciato questo articolo parlando degli evasi dalle prigioni nei romanzi e delle condizioni delle prigioni italiane? Perché mi occupo di immagini della storia e interrogo le immagini e i testi che parlano di esse per accertare se rispondono alla verità dei fatti.

È questo il caso di un minuzioso reportage che mi ha fatto riflettere ancora una volta su quanto siano perniciosi i luoghi comuni sulla colpa e sulla punizione uniti alla metafora del sud.

Domenica 13 febbraio sul numero 533 La Lettura (pp. 45-47), il supplemento del Corriere della sera, Gianni Santucci ha pubblicato l’ultimo di una serie di lunghi resoconti militanti sull’emergenza crescente nella provincia di Foggia per la violenza della cosiddetta “quarta mafia”. 

L’articolo mette ripetutamente in rilievo il ruolo dello Stato e dell’Università di Foggia come baluardi di lotta, resistenza ed educazione civile. A p. 47 Santucci spiega con un caso esemplare di quali fatti storici contemporanei è anche fatta la “palude fangosa” (ibidem) in cui affonda la Capitanata:

“Il 9 marzo [2020], data che nella storia d’Italia rimarrà segnata per l’annuncio del coprifuoco contro la pandemia, nelle carceri montano le proteste per la sospensione dei colloqui causa Covid. L’iniziazione foggiana travalica l’immaginabile. La rivolta nel penitenziario sfonda i cancelli. Evadono 72 detenuti, molti di criminalità organizzata. I video amatoriali mostrano scene che non si vedono più neppure in Sud America. I reclusi escono correndo, scappano in strada, fermano automobilisti, assaltano un’officina alla ricerca di auto per la fuga. Lo Stato reagisce, e 69 detenuti su 72 sono di nuovo in carcere”.

L’uso di parole e di espressioni come “iniziazione”, “travalica l’immaginabile” e “scene che non si vedono più neppure in Sud America” mi ha incuriosito: l’ecfrasi dell’evasione descritta da Santucci corrispondeva alle immagini che mi erano rimaste in mente dopo averle viste nei media all’epoca grazie alle riprese delle videocamere di sorveglianza e da altre che dall’esterno del carcere riprendevano l’evolversi dell’evasione. 

Ma l’ecfrasi di Santucci e le immagini corrispondenti, ancora reperibili nelle edizioni online dei media, non avevano relazione con la premessa connotata da parole e da espressioni che facevano pensare a violenza efferata, a spargimento di sangue, a morti ammazzati, magari a compagni di detenzione e a polizia penitenziaria smembrati con seghe elettriche: “Scene che non si vedono più neppure in Sud America”, infatti, perché si vedono nei film e nelle serie televisive che della vita e delle evasioni dalle carceri sudamericane raccontano i dettagli narrando le biografie di capi di bande criminali come El Chapo e Pablo Escobar. Escobar. Il fascino del male (del 2017, con i coniugi Bardem e Cruz), e serie fruibili su Netflix come Pablo Escobar. El patrón del mal condizionano molto l’immaginario odierno in materia: un’evasione che fa iconograficamente al caso nostro è nell’episodio 30 Pablo Escobar. El patrón del mal (fig. 3). 

(In Italia ci eravamo già portati avanti con la spettacolare ricostruzione verosimilmente pulp della rivolta nella prigione di Poggioreale nel prison movie d’autore Il camorrista di Giuseppe Tornatore).

 

Fig. 3. Pablo Escobar. El patrón del mal, Caracol Televisión (Colombia 2012), stagione 1, episodio 30

 

Si tratta di evasioni risalenti a diversi decenni fa, eccezionali e cruente. In particolare, priva di legami con la situazione delle prigioni italiane, anche al sud, è la fuga più celebre: quella di Pablo Escobar dalla prigione Envigado detta “La Catedral”, dove il narcotrafficante non viveva nell’inferno del sovraffollamento delle altre prigioni del Sud America, poiché si era costruito a sue spese una galera di lusso, accordandosi con il governo colombiano. 

L’evasione di Escobar con altri nove narcotrafficanti dalla prigione su misura (22 luglio 1992) costò la vita ad almeno tre persone: per restare sempre e solo nel seminato delle immagini, chi ne fu testimone si trovò davanti una scena sicuramente più vicina a quella seguita alla rivolta del 9 marzo 2020 nel carcere di Modena (le cui dinamiche controverse, culminate nel danneggiamento degli spazi e nella morte di varie persone, sono ancora oggetto di attenzione da parte dei media e della giustizia).

Ho scelto una delle immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza e dai giornalisti a Foggia e ancora circolanti in rete: gli evasi si dirigono verso auto che intendono rubare per fuggire (la foto, fig. 4, sta a corredo dell’articolo di “la Repubblica” edizione di Bari, da cui prendo anche la didascalia: leggi cliccando qui).  

Fig. 4. La fuga dei detenuti dal carcere di Foggia ripresa dalle telecamere di videosorveglianza

 

Insomma, nel suo importante e documentato reportage Santucci descrive la fuga di un gruppo di detenuti che non ammazza né ferisce nessuno; quasi si stupisce che, per darsi alla macchia, i detenuti rubino delle auto. Santucci inoltre con “iniziazione” allude al fatto che l’evasione di massa a Foggia sarebbe stata la prima di una serie; ma di questa serie Santucci non parla e il reportage continua parlando delle caratteristiche della “palude” criminale del territorio più disgraziato eppure più orgogliosamente reattivo del Sud Italia, secondo per fama negativa solo alla Terra dei Fuochi.

Proprio la testata a cui fa capo il supplemento su cui è uscito il reportage di Santucci fornì un resoconto chiaro dell’evasione di massa, anche in relazione alla dinamica che a Foggia generò un solo ferito (un detenuto, non un poliziotto). Per il “Corriere della sera” Michelangelo Borrillo il 9 marzo di due anni fa scrisse che “è partita la rivolta nelle carceri, dopo quella di domenica di Modena, con i detenuti che protestano contro le restrizioni dovute all’emergenza coronavirus e la sospensione delle visite: oggi è accaduto a San Vittore a Milano, e poi a Foggia, a Napoli, a Frosinone, a Roma e a Palermo” (rivolte di considerevole peso sono partite anche a Bollate e a Pavia). “A Modena la situazione più grave”. 

“Negli scontri con le forze dell’ordine, un detenuto è rimasto ferito alla testa ed è stato portato via in barella”. Il “Corriere” precisava: “Nella casa circondariale di Foggia, attualmente, ci sono 608 detenuti, numero al di sopra della capienza ottimale che sarebbe di 365”: l’articolo, corredato di video e foto, è ancora qui. Difatti un detenuto foggiano ha denunciato affacciandosi al cancello: “Non possiamo stare così con il rischio del coronavirus. Noi viviamo peggio di voi, viviamo nell’inferno”.

Quindi a marzo 2020 l’”iniziazione” delle rivolte con tentativi di evasione non parte da Foggia ma da Modena e diverse altre prigioni settentrionali e non solo vivono situazioni simili; a Modena, non a Foggia, le conseguenze sono veramente tragiche: nove detenuti morti, vari agenti della penitenziaria feriti. “Travalica l’immaginabile”, dunque, la pur deprecabilissima evasione di massa a Foggia, o anche ciò che è accaduto nelle altre prigioni del Nord e Sud Italia prima menzionate e, soprattutto, l’esito atroce della rivolta a Modena (fig. 2)?

 

Fig. 2. L’esterno del carcere Sant’Anna a Modena un anno dopo la rivolta

Nella maggior parte dei casi, in prigione i detenuti vivono nell’”inferno” denunciato dal detenuto foggiano, in questo caso con uguaglianza implacabile in tutta Italia. Quale redenzione dalla colpa ci può essere all’inferno, se la prigione non si trasforma da un inferno di punizione in un pietoso purgatorio? Ripeto cose note se scrivo che le condizioni dei detenuti sono lo specchio di un Paese, soprattutto se i detenuti sono, nei fatti, prigionieri. Ricorro ancora una volta alla materia principale del mio lavoro, le immagini. Ne seleziono due di un fotografo con doti da artista, Valerio Bispuri, che ha pubblicato nel 2015 da Contrasto Encerrados. 10 anni 74 carceri (fig. 5).

 

Fig. 5. Valerio Bispuri, una delle immagini del libro Encerrados

 

Encerrados  è un pugno nello stomaco, forte come possono esserlo la poesia e La ronda dei carcerati di Vincent Van Gogh. Bispuri ha fotografato la vita nelle carceri che imprigionano i criminali più pericolosi in Sud America: in Ecuador, in Perù, in Bolivia, in Argentina, in Cile, in Uruguay, in Brasile, in Colombia, in Venezuela.

Lo sguardo referenziale ma pietoso e solidale di Bispuri ha avuto l’effetto che dovrebbero avere le opere d’arte: le foto di Encerrados, esposte anche a mostre internazionali, hanno suscitato un dibattito pubblico e il padiglione 5 del carcere di Mendoza in Argentina è stato chiuso. Encerrados ha un’introduzione di uno degli intellettuali più impegnati e seri dell’Italia contemporanea, Roberto Saviano, secondo cui “quelle di Bispuri sono fotografie di città, carceri formicai, carceri dove chiunque è condannato, poliziotti e detenuti”

Saviano non avrebbe potuto dire meglio: nessuno, neppure il criminale più feroce, merita di essere privato della dignità. Non esiste rieducazione né speranza per gli Encerrados in Sud America. Non esiste rieducazione né speranza per i Prigionieri fotografati da Bispuri nel suo libro fotografico successivo, dedicato alle condizioni nelle carceri in Italia: un’antologia che non lascia meno turbati.

L’attenzione dedicata al progetto di Bispuri da Roberto Saviano ha un valore aggiunto, perché egli è anche uno dei rarissimi intellettuali che abbia ripetutamente attirato l’attenzione dei media sull’emergenza della criminalità organizzata a Foggia (Saviano lo ha fatto anche di recente in occasione della presentazione al “Corriere della sera” della sua serie di inchieste sulla camorra attualmente in onda, Insider).

Fin dal 2010 Saviano è stato bersaglio di campagne di odio e di ignoranza per essere stato tra i primi a eludere il pregiudizio antimeridionale secondo cui si può parlare di mafia a condizione che ne si individuino radici e sviluppi solo al Sud; le analisi sulla mafia non devono riguardare il nord.

Proprio l’inestirpabile pregiudizio antimeridionale (su cu Antonino de Francesco ha scritto un libro edito da Feltrinelli: La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale, 2012) è il punto cruciale: se si parla delle prigioni, se si parla di università, se si parla di scuola, se si parla di imprese, si riscuote maggiore consenso constatando la negatività di luoghi e persone collocati ‘a sud’.

Il concetto di sud/meridione/mezzogiorno è sempre una metafora della negatività, perfino quando questa negatività è di certo innegabile al sud (come nel caso di cronaca da cui sono partita) ma è identica e ancora più complicata al Nord. Considerare tutto ciò che è ‘meridionale’ come ‘negativo’, ‘illegale’, ‘improduttivo’ non aiuta a estirpare le mafie esistenti, non aiuta i sud del mondo a migliorare, non aiuta a insegnare alle nuove generazioni come valutare con imparzialità ciò che accade a partire dalle immagini della storia contemporanea. 

Se il pregiudizio antimeridionale continua a considerare il Mezzogiorno la terra dei lazzaroni (nel Settecento), poi dei briganti (nell’Ottocento), poi dei camorristi e dei mafiosi (dal Novecento ad oggi), con le caratteristiche negative e criminali che giustamente competono a tali figure, i reati che gli stessi camorristi e mafiosi commettono nel Nord Italia e nel resto del mondo continueranno a restare quasi incredibili per maggior parte della gente, convinta dalla divulgazione mediatica che le scene e i reati “da Sud America” vengano commessi nell’inferno del Mezzogiorno da chi ci nasce. Naturalmente queste considerazioni valgono per chi crede che l’inferno in terra a cui condannano le prigioni sia un “sud” nel quale chi ha sbagliato non andrebbe crocifisso alla propria colpa. 

Una società che ammette l’inferno che punisce senza rieducare è altrettanto colpevole, a giudicare dalle immagini che riproducono le azioni di chi vi è rinchiuso e che, continuando a commettere errori, prova a sfuggirvi.

 

Valerio Bispuri, Regina Coeli 2016, immagine dal libro Prigionieri

 

Floriana Conte – Professoressa associata di Storia dell’arte e Socia corrispondente dell’Accademia dell’Arcadia

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