Michele Boldrin, classe 1956, da Campolongo Maggiore (Padova), lo conosciamo un po’ tutti, anche perché tempesta con linguaggio chiaro (e un po’ provocatorio) dal suo seguitissimo canale YouTube. É un economista che fa ricerca e dirige il Dipartimento di Economia alla Washington University di St Louis, negli Stati Uniti, è un protagonista vivace (per usare un eufemismo) del dibattito di politica economica nel nostro paese, e qualche anno fa è stato protagonista di una meteora della politica, il partito liberal-liberista FARE per fermare il declino fondato insieme a Oscar Giannino. Da qualche mese, insieme ad Alberto Forchielli, Boldrin ha dato vita a un’associazione politica chiamata Movimento Drin Drin. E in questa intervista sui dazi decisi da Donald Trump, ci spiega che la strada da seguire per reagire alle tariffe non è sparare controtariffe. Ma fare piuttosto accordi economici e industriali a tutto campo con la Cina. Che non è un mostro comunista, ma una potenza politica ed economica che potrebbe essere il perfetto partner d’affari per le nostre imprese.
Professor Boldrin, lei è anche cittadino americano. Com’è andata la prima giornata di “liberazione” dell’economia USA, come dice Trump?
Un disastro.
Per caso importa vino?
Ma no, è fuori strada. Tutti pensano al vino, alla moda e ai prodotti alimentari, ma in realtà il grosso dell’export italiano verso gli Stati Uniti è un altro: farmaci, macchinari, vaccini e consimili. I medicinali da soli rappresentano oltre il 7,7% del totale, seguiti dalle macchine industriali col 7,19%, e dai prodotti biomedicali. È su questi settori che l’impatto economico si fa sentire davvero. Vino e scarpe arrivano dopo. Detto questo, guardando all’Italia saranno questi i settori più colpiti dai dazi. Ma i più danneggiati siano noi americani, e l’impatto è immediato, basta vedere il mercato azionario: solo oggi ho perso una cifra MOLTO significativa.
Wall Street ha ceduto il 5 per cento, una caduta record…
Il danno è generalizzato. L’unica magra consolazione, per così dire, è che avendo qualche investimento in euro sono riuscito a compensare un po’ la perdita sul dollaro. Ma è davvero poca cosa. Gli americani sono i primi a pagare il prezzo di questi dazi, tra il crollo del mercato di Borsa e un futuro in cui le merci costeranno molto di più. La loro grande fortuna, finora, è stata poter acquistare prodotti dal resto del mondo a costi competitivi, approfittando dei vantaggi comparati. Hanno delegato la manifattura tradizionale a chi ha imparato a fare quello che loro inventarono tra le due guerre mondiali.
Magliette, scarpe da ginnastica…
… ma anche i monitor, il telefono che ho in mano, il cavo con cui lo collego al caricatore. Tutto arriva da quel mondo globalizzato che gli americani hanno costruito. È vero, la globalizzazione ha impoverito alcuni americani, specie in aree come il Midwest, dove vivo io, che ho scelto anche per il suo essere l’America più autentica. Ma il peggio è passato: le cicatrici sono visibili, con città come St. Louis che combattono il problema del fentanyl, ma molte altre come Pittsburgh, Cleveland e Chicago stanno risorgendo grazie alla ricerca e all’innovazione. Oggi la maggioranza degli americani lavora nei servizi, guadagnando tanto quanto o più di quanto guadagnavano quando stavano in fabbrica. Sono lavori molto migliori e, cosa fondamentale, permettono di acquistare beni a prezzo basso. La vita qui è più economica rispetto all’Italia, soprattutto per i beni di consumo. È vero che in America mancano i medici, ma per il resto ci sono tantissimi servizi disponibili. Ecco. Quindi il prezzo che gli americani pagheranno nei prossimi anni per i dazi di Trump sarà non una semplice inflazione, ma un aumento radicale del costo della vita. A meno che, ovviamente, l’uomo non cambi idea. E se dovessi fare una previsione, credo che alla fine dovrà smontare tutta questa storia delle tariffe.

Trump dirà che è stata una grande vittoria, e che dopo si dopo si potà rinunciare ai dazi?
Può essere. Però l’impatto di tutto questo sarà devastante per l’economia americana. E paradossalmente potrebbe invece portare dei benefici agli europei.
Ci spieghi bene…
Per tre ragioni. La prima, un po’ ironica, riguarda i prodotti “di lusso” europei che sono diventati estremamente costosi negli Stati Uniti, dove vengono venduti a prezzi esorbitanti. Un esempio: un Prosecco di bassa qualità che a Milano costa 4-5 euro a bottiglia, qui negli Stati Uniti lo trovo a 18. E tra poco potrebbe arrivare a 25. E questo varrà anche per le giacche di Armani, i gioielli, e le borse di Bottega Veneta, che potrebbero costare 200 euro in più per le signore americane che se le vogliono comprare.
Il secondo beneficio?
Il secondo vantaggio, che è già evidente nei mercati, è la fuga dei capitali dagli USA. Stiamo assistendo a una fuga di capitali finanziari e capitale umano, perché nessuno vuole investire in un paese dove le regole cambiano continuamente, dove un trend consolidato da 80 anni può essere capovolto da un giorno all’altro. Questo sta creando un’enorme instabilità, e le cose potrebbero andare anche peggio. Non è un caso che l’euro si sia apprezzato sul dollaro. C’è una fuga verso la sicurezza, e improvvisamente l’euro appare come una valuta più stabile e sicura. E c’è anche la fuga delle competenze e dei cervelli: l’immigrazione scientifica negli USA si è bloccata, e in tanti stanno cominciando a interrogarsi se vale la pena di restare in America. Anche a me non piace tanto l’aria che tira in questo momento. C’è Londra, c’è la Francia, c’è la Spagna…
Chiaramente dovremmo fare qualcosa per attirarli, capitali e cervelli.
Finché questa situazione durerà, l’Europa ha una grande opportunità, ma deve mettere in campo iniziative concrete. Deve prendere l’iniziativa, dire chiaramente agli americani che “queste innovazioni, questi investimenti che volevate fare negli Stati Uniti, potete farli qui”. Dobbiamo seguire i giusti suggerimenti di Mario Draghi, agire velocemente, eliminando gli enormi ostacoli che l’Europa pone all’innovazione e all’attività industriale. I capitali che escono dagli Stati Uniti sono benvenuti, e lo sono anche gli esseri umani: scienziati, imprenditori, tutti quelli che vogliono contribuire alla crescita.
E andiamo al terzo beneficio dei dazi di Trump.
È un vantaggio di lungo periodo, che purtroppo vedo essere già stato notato da Xi Jinping, che è un uomo astuto. La grande forza degli Stati Uniti è stata quella di convincere, dopo la fine della seconda guerra mondiale, sempre più paesi a adottare il libero commercio, la cooperazione industriale e a introdurre un minimo di proprietà privata e mercato. Adesso stanno rinunciando a questa leadership, ed è un peccato. Ma, come si suol dire, facciamo di necessità virtù. Il leader cinese Xi Jinping ha già preso in mano la situazione: sta cercando di costruire una cooperazione internazionale stabile, basata su leggi e patti rispettati. Non sarebbe bello se fosse l’Europa a puntare su una rinascita globale? Una rinascita anche meno imperialista, con meno prepotenze di quel che facevano gli Stati Uniti, con accordi più equi. Per questo penso che invece di perdere tempo con controdazi, divisioni e piccole vendette, l’Europa dovrebbe agire con astuzia.

Lei però dice anche che dovremmo fare degli accordi economici con la Cina. Ma non è il mostro comunista e antidemocratico?
Ma quale mostro… la Cina è una dittatura molto soft. Paragonare il regime cinese a quello di Putin è un errore. Putin, gli avversari politici li elimina, in Cina quelli che sono contro il sistema vengono esiliati, o messi da parte se sono all’interno del partito. E bisogna capire una cosa: il Partito Comunista cinese è enorme, con circa 100 milioni di iscritti. È lì che si svolgono la maggior parte degli scontri politici, dentro il partito. Lì ci sono litigi, intrighi, alleanze, e alla fine uno emerge come vincitore, e decide. Non è un sistema che mi piaccia, per carità; le minoranze sono maltrattate, lo sappiamo. Ma guardiamo la realtà: facciamo affari con l’Iran, che è infinitamente peggio. Abbiamo fatto affari con l’Arabia Saudita e con la Libia di Gheddafi, anche loro molto più repressivi. Il problema con la Cina è che vuole un posto al sole nel mondo. Con i cinesi si va molto d’accordo, a patto di essere sinceri e diretti, chiari e decisi.
Nel senso?
Ai cinesi piace fare affari, e se li rispetti, loro sono disposti a fare affari seri. Bisogna dirgli chiaramente che noi siamo italiani, e i trucchi commerciali li abbiamo inventati noi prima di loro secoli fa. Vogliamo fare affari? Bene, ma ci dobbiamo guadagnare tutti e due. Vogliono vendere macchine qui? Bene, ma allora noi dobbiamo poter vendere le nostre in Cina. Vogliono fare joint venture sui porti, vogliamo rifare la Via della Seta? Va bene, ma vogliamo avere il controllo maggioritario. Vogliamo investire insieme in Africa? Benissimo. Volete investire in Italia? Ottimo, ma noi vogliamo tenere il controllo in mano nostra, perché vogliamo stare tranquilli sul discorso della sicurezza.
Boldrin, quindi, dobbiamo incrementare il business con la Cina…
La Cina è perfettamente consapevole di essere in ritardo su tanti fronti tecnologici e di know how. È riuscita a raggiungere livelli altissimi nel campo dell’informatica, è praticamente pari a noi, ma non lo è in tanti altri settori. Non è alla pari nella medicina, nell’ingegneria civile, nelle tecnologie robotiche, e in molti altri campi, non è ancora alla pari. E ancora, negli ultimi anni la Cina ha avuto la possibilità di formare il suo capitale umano nelle università americane, cosa che adesso sta diventando sempre più difficile. In Europa e in Italia, nelle nostre università, ci sarebbe un enorme potenziale non sfruttato, da gestire con un po’ di mentalità imprenditoriale. Qui all’università dove lavoro io a St. Louis è pieno di studenti cinesi disposti a pagare 80.000 dollari all’anno per imparare. E potrebbero tranquillamente studiare in Italia, in Francia o in Spagna. Le università italiane potrebbero davvero approfittare di questa grande domanda, soprattutto dalle élite cinesi, che hanno un bisogno enorme di educazione di alto livello e adorerebbero venire da noi.
L’Impero di Mezzo dunque non è un mostro…
C’è ancora un blocco ideologico che ha radici in una campagna degli Stati Uniti, in particolare di Obama, che ha convinto molti europei che la Cina fosse il grande nemico. Ma non è così. Stati Uniti e Cina sono in competizione per essere la potenza dominante, per contendersi il primato globale. È successo per tutte le grandi civiltà nel passato. Nella cultura cinese c’è un concetto molto radicato e che per loro ha un valore enorme: il benessere economico, certo, ma anche la percezione di uno status mondiale. Questa è la vera ossessione che guida la Cina, più di ogni altra cosa. Non sono interessati solo alla ricchezza materiale, ma a posizionarsi come una potenza globale, riconosciuta a livello internazionale. Questo è ciò che stanno cercando di ottenere, ed è visibile nelle loro azioni diplomatiche e politiche degli ultimi anni. Con il ritorno di Trump si è visto subito che Xi Jinping si sarebbe mosso immediatamente.