Assassinio di un filosofo, Giovanni Gentile

L'agguato fatale di un commando dei gap vicino al cancello della sua casa fiorentina. Una dotta riflessione sul filosofo, la sua opera, la sua fine

È triste che un filosofo venga ricordato più per la sua morte che per la sua vita, e magari più per la sua vita che per le sue opere. Dal tempo di Socrate non accadeva. È vero che la filosofia, come diceva Ernest Renan, non è mai stata così grande come nelle grandi ore della storia, e le grandi ore della storia sono state spesso le più tragiche. Ma il caso Gentile fa ugualmente male e si rinnova, decennio dopo decennio, nell’anniversario di quel 15 aprile 1944 in cui un commando di partigiani comunisti dei Gap (acronimo di Gruppi di azione patriottica) pose fine alla sua esistenza uccidendolo davanti al cancello della sua residenza fiorentina, la villa Montalto al Salviatino messagli a disposizione dal bibliofilo Tammaro de Marinis.

Quest’anno l’ottantesimo anniversario della morte del filosofo è stato l’occasione per tre iniziative di rilievo nazionale promosse dal governo: “Scendere per strada. Giovanni Gentile tra cultura, istituzioni e politica”, aperta sino al 7 luglio a Roma presso l’Istituto Centrale per la Grafica, il convegno “Politica e filosofia. I due mondi in uno di Giovanni Gentile”, tenutosi il 16 aprile presso la Camera Alta su iniziativa del Presidente della Commissione per la Biblioteca e l’Archivio storico del Senato, Marcello Pera, e l’emissione di un francobollo a cura del ministero delle Imprese e del Made in Italy.

Un francobollo per Gentile non costituisce una novità: già nel 1994 l’allora ministero delle Poste di cui era titolare Pinuccio Tatarella era stato attore di un’analoga iniziativa. Poteva sembrare una rivincita degli eredi del Movimento Sociale arrivato al governo dopo essere stati per mezzo secolo “esuli in patria”, ma in realtà il primo a promuovere l’iniziativa era stato, in pieno crepuscolo della Prima Repubblica, il liberale Alfredo Biondi. Nel febbraio del 1993, allora vicepresidente del Senato, aveva sollecitato, in un’interrogazione parlamentare, il governo a prendere “iniziative idonee” a commemorare il semicentenario dell’uccisione del filosofo. Come prevedibile, l’iniziativa del deputato e galantuomo garantista, che da ministro della Giustizia nel primo gabinetto Berlusconi sarebbe stato linciato dal “popolo dei fax” per il suo decreto impropriamente definito “salva ladri”, suscitò reazioni contrastanti anche nell’ambiente accademico, come documentato fra l’altro da un dispaccio dell’AdnKronos del 20 febbraio 1993.

Se Tullio Gregory, insigne docente di storia della filosofia alla Sapienza, si espresse a favore, l’iniziativa fu giudicata inopportuna da Eugenio Garin; eppure il grande storico dell’umanesimo civile fiorentino era stato collaboratore del pensatore, con cui aveva iniziato la stesura di un manuale di storia della filosofia e del quale aveva tenuto al Lyceum fiorentino, “a caldo”, la commemorazione.

Questioni filateliche a parte, il confronto sull’opportunità o meno di commemorare il pensatore di Castelvetrano e persino sulla liceità e “moralità” del suo assassinio non ha registrato molti progressi, anzi, sotto un certo profilo, si è registrata una sorta di regressione, legata a una strumentale radicalizzazione del confronto sulle tematiche dell’antifascismo seguita alla caduta della Prima Repubblica e all’ingresso nell’area di governo (anzi, oggi, nella leadership di governo) di un partito erede della fiamma tricolore.

Non sono mancati momenti alti, come il convegno dedicato al filosofo nel maggio 1994 da Gianni Borgna, poliedrico assessore alla Cultura del Comune di Roma nella giunta Rutelli, con la partecipazione di relatori di spicco come lo stesso Garin, Giacomo Marramao, Massimo Cacciari, Vittorio Mathieu, Emanuele Severino. Al tempo stesso si sono dovute purtroppo registrare tristi cadute di stile, come l’intitolazione nel 1993 a Firenze di una strada, anzi, di un “largo”, al presunto uccisore del filosofo, il gappista Bruno Fanciullacci, o l’infelice episodio della lapide che nel 1999 l’ateneo pisano avrebbe voluto dedicare al pensatore accusandolo di connivenza col razzismo fascista, lui che in realtà aveva cercato di proteggere in ogni modo gli ebrei profughi dalle persecuzioni antisemite, da Karl Löwith a Paul Oskar Kristeller. E dire che proprio quest’ultimo gliene restò sempre grato, tanto da definire in un’intervista al “Giornale” di Montanelli pubblicata il 3 marzo 1993 la sua uccisione un atto che “gettò un’ombra sinistra su tutta la Resistenza” perché con esso “fu uccisa l’espressione più pura e disinteressata di una Nazione: l’amore per il sapere e per la civiltà”.

Il fatto è che sino a oggi la fortuna di Giovanni Gentile, al di là della comprensibile ma strumentale cooptazione del filosofo nel pantheon dei martiri fascisti, è rimasta confinata nel confronto fra quanti lo condannano in quanto “cattivo maestro” e coloro che invece cercano di riabilitarne la memoria dimostrando come egli sia stato del fascismo più una vittima che un complice. Neppure quest’ultima interpretazione rende però giustizia a Gentile, facendo di lui nel migliore dei casi uno sprovveduto idealista, grande filosofo, magari, ma politicamente inetto.

Certo, è difficile non riscontrare nell’atteggiamento del pensatore nei confronti del fascismo evidenti contraddizioni. Gentile entrò nel primo gabinetto Mussolini come titolare del dicastero della Pubblica Istruzione da indipendente, oggi si direbbe da “ministro tecnico”, per attuare quella riforma della scuola che il suo antico sodale Croce non era riuscito a realizzare nella sua breve permanenza in viale Trastevere.

Anche se aveva già pronunciato il famigerato discorso sul “bivacco di manipoli” nell’aula “sorda e grigia”, Mussolini godeva ancora del consenso di larga parte dell’opinione pubblica cattolica e liberale, e a favore del suo governo votarono futuri esponenti di spicco della classe dirigente repubblicana, fra cui, nelle vesti di presidente della Camera, il futuro capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola. Nel 1923 Gentile scelse di prendere la tessera del Partito nazionale fascista, per “blindare”, come fu detto, la sua riforma, malvista già allora da molti esponenti dell’intransigentismo littorio perché troppo liberale, nonostante che Mussolini l’avesse definita “la più fascista delle riforme”.

Dopo la crisi seguita al delitto Matteotti, però, rassegnò le dimissioni da ministro, per evitare  che il discredito in cui stava cadendo il fascismo coinvolgesse con la sua persona il nuovo assetto che era riuscito a dare alla pubblica istruzione. Ma il suo fu un divorzio dal governo, non da Mussolini, tanto che nel 1925 fu l’autore del Manifesto degli intellettuali fascisti, cui replicò Benedetto Croce con un contromanifesto scritto per altro in uno stile molto più brillante e scorrevole di quello gentiliano.

Essere fuori dal governo non vuol dire però essere fuori dai giochi. E Giovanni Gentile esercitò un durevole potere nell’ambito accademico e culturale, con la presidenza dell’Enciclopedia Italiana, la direzione della Scuola Normale Superiore, che sotto la sua guida tornò agli antichi splendori dopo un periodo di crisi economica, la cattedra all’Università di Roma, il controllo di una casa editrice, la Sansoni, il Centro manzoniano di Milano, la guida dell’Ismeo, l’Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente da lui fondato e in cui si valse della collaborazione di quel grande orientalista, esploratore, storico delle religioni che fu Giuseppe Tucci.

A questa pervasiva presenza nella cultura italiana non corrispose però una pari influenza sugli sviluppi politici del regime. Ostile nel suo liberalismo risorgimentale al Concordato, subì a sua volta l’ostilità della Santa Sede e vide i suoi libri messi all’Indice dall’allora Sant’Uffizio, assieme  a quelli dell’ex amico Benedetto Croce. Come qualcuno ironizzò, alludendo alla definizione corrente della sua filosofia, Gentile fu punito dal Vaticano per la colpa di avere commesso “atti puri”. In ogni modo, si trattò di un destino ingrato per l’uomo che aveva riportato il Crocifisso nelle aule.

Nel frattempo, con la Carta della Scuola e la nascita della nuova scuola media, la riforma Gentile subiva un attacco solo in parte riuscito da parte dal ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai, che l’accusava di non essere “abbastanza fascista”. Uno dei tanti paradossi di cui non è avara la storia avrebbe voluto che il gerarca pochi anni dopo rischiasse la vita combattendo contro il fascismo nella Legione Straniera, mentre Gentile la perdesse per essere rimasto a suo modo fedele all’ultimo fascismo repubblicano.

Come spesso succede, alla capillarità della presenza gentiliana negli istituti di alta cultura non corrispose una sua pari influenza fra le giovani generazioni. Franco Catalano, studioso dell’età contemporanea autore di pregevoli antologie di critica storica, confidò tanti anni fa a chi scrive che, come quasi tutti gli studenti della Normale diretta da Giovanni Gentile, era stato antigentiliano e di riflesso antifascista. Il filosofo probabilmente se ne rendeva conto ma, fedele alla sua concezione di una cultura superiore alle divisioni politiche, lasciava correre, suscitando le reazioni dei fascisti oltranzisti. Così si vide esautorare dalla direzione del prestigioso istituto dal ministro dell’Educazione Nazionale Cesare Maria de Vecchi, salvo essere ripristinato dal successore. E fino all’ultimo rimase al suo posto, blandamente tollerato, come del resto lo storico Gioacchino Volpe, da un Mussolini che per altro – almeno a quanto si legge nei “taccuini” curati da Yvon de Begnac – considerava la Normale un “nido di vipere”.

C’erano, è onesto riconoscerlo, molte contraddizioni nell’atteggiamento del filosofo nei confronti del fascismo, e in certo qual modo anche del fascismo nei suoi confronti. Fu lui a perorare, per esempio, l’imposizione nel 1931 del giuramento di fedeltà al regime ai docenti universitari: un successo trionfale, vista l’adesione della stragrande maggioranza dei professori, ma in realtà un provvedimento controproducente, visto che giurando con riserva gli antifascisti continuarono a insegnare con la benedizione delle gerarchie ecclesiastiche e dello stesso Togliatti, mentre il fascismo si macchiava di un atto liberticida.

Fu lui stesso però, alla guida della Treccani, a dare lavoro agli studiosi che erano rimasti fuori dell’università per il loro antifascismo. Quando scoppiò la guerra, Gentile fu tutt’altro che favorevole al conflitto; ma nel 1942 pubblicò un articolo – “Giappone guerriero” – in cui dopo Pearl Harbor esaltava l’intervento giapponese, cogliendo però l’occasione per celebrare la “muta intelligenza e la collaborazione fraterna delle razze diverse, nessuna delle quali è nata a servire”. Era un modo molto ambiguo di esaltare l’Asse, facendo al tempo stesso professione di antirazzismo.

Compromesso, certo, con il regime, anche per avere dato la firma alla voce “Fascismo” sulla Treccani, Gentile non era comunque fra gli intellettuali il personaggio più politicamente esposto all’approssimarsi della disfatta. Eppure, proprio mentre tutti si defilavano e fra i giornalisti correva il noto calembour “chi si firma è perduto”, quando ormai l’invasione della Sicilia era imminente, il 24 giugno del 1943, Gentile pronunciava in Campidoglio il Discorso agli Italiani, che sarebbe sbagliato interpretare come un retorico appello alla concordia contro la minaccia incombente. Il filosofo, certo, aveva accettato di impegnarsi pubblicamente dietro sollecitazione del segretario del Pnf Carlo Scorza, che aveva senza successo cercato di coinvolgere nell’iniziativa altre personalità di spicco, rivolgendosi persino, e invano, a Benedetto Croce, ormai giunto, dopo una sofferta riflessione, a sperare in una sconfitta dell’Italia che ponesse fine al regime.

Ma le argomentazioni di Gentile erano molto più ampie. Il filosofo invitava a una sorta di union sacrée tutti gli italiani, compresi gli stessi comunisti, cui si rivolge come “corporativisti impazienti”. Al tempo stesso, nel presentare le prospettive di un conflitto sempre meno sostenibile per l’Italia, faceva presente che “ognuna delle due parti in contrasto è complessa e risulta da una convergenza transitoria di interessi”. Come ha acutamente osservato Luciano Canfora, non è da escludere che tale impostazione fosse in linea con gli sforzi della diplomazia segreta italiana, proprio in quei giorni volti a una pace separata con l’Urss d’intesa con la Germania.

Tali sforzi rimasero com’è noto senza seguito e, dopo l’incontro di Feltre, in cui Mussolini dinanzi al wagneriano e nibelungico soliloquio di Hitler non riuscì nemmeno a porre sul tappeto la proposta di una pace separata, le sorti del regime precipitarono. Sarebbe però un errore pensare che l’adesione del filosofo alla Repubblica Sociale Italiana, accettando la presidenza dell’Accademia d’Italia, costituisse una scelta obbligata.

Gioacchino Volpe, storico ufficiale del fascismo, come Gentile ne era stato il filosofo ufficiale, non vi aderì per fedeltà al re, il che non gli risparmiò l’epurazione postbellica. E il pensatore di Castelvetrano non aveva certo speciali debiti di riconoscenza con Mussolini. A differenza di molti gerarchi e intellettuali di regime, Giovanni Gentile era Giovanni Gentile già prima del 28 ottobre 1922 e dal regime aveva avuto molto, ma aveva dato assai di più, in tutti i sensi.

Un ruolo forse non indifferente nelle sue scelte fu giocato dall’imperdonabile scorrettezza di Leonardo Severi, un suo ex sottoposto al ministero della Pubblica Istruzione, divenuto ministro dell’Educazione Nazionale nel governo Badoglio. Gentile gli aveva scritto privatamente non per piatire incarichi, ma per caldeggiare provvedimenti relativi alla Normale pisana, dalla cui direzione era stato esautorato. Non un’avance nei confronti del nuovo potere nato col 25 luglio, ma un gesto di riguardo nei confronti dei suoi discepoli, del cui futuro si preoccupava. Per acquisire meriti con il nuovo potere, Severi pubblicò il carteggio, che uscì sulla “Nazione” e sul “Giornale d’Italia”, accompagnandolo con un’intemerata contro il suo ex superiore.

La scorrettezza suscitò lo scandalo anche di antifascisti galantuomini come Adolfo Omodeo, ma, dopo l’8 settembre, fornì il destro all’ala estremista del fascismo per attaccare Gentile come un opportunista e un “traditore”. Non è da escludere che il desiderio di “lavare l’onta”, insieme a un sentimento di fedeltà personale, molto siciliano, a un Mussolini abbandonato da tutti, abbia pesato sulle sue scelte, insieme a una dolorosa circostanza di indole familiare. Il figlio secondogenito di Giovanni Gentile, Federico, arruolatosi volontario come capitano di artiglieria e poi fatto prigioniero dei tedeschi dopo l’8 settembre, si era rifiutato di entrare nell’Esercito della Rsi e viveva in un lager polacco in condizioni ancora più pesanti degli altri internati militari italiani. In pratica, i nazisti lo tenevano come ostaggio e lo liberarono solo dopo la morte del filosofo, che anche per ingraziarseli aveva tenuto il 19 marzo 1944 un discorso elogiativo del “condottiero della grande Germania” alla presenza del console di Berlino a Firenze, Wolf.

Si può discutere sulla correttezza etica di quella scelta, ci si può domandare se incasellarla nella categoria del “familismo amorale” o esaltarla come il nobile sacrificio di un padre per la salvezza del figlio; resta il fatto che anch’essa rientra senz’altro nella “sicilianità” del filosofo, nella visione patriarcale della famiglia: una grande famiglia, la sua, messa duramente a repentaglio dalla guerra. Né mancava, in Gentile, la speranza, comune ad altri intellettuali  che aderirono alla Rsi, di contrastare grazie alla loro influenza su Mussolini le efferatezze delle varie polizie private “repubblichine”: a Firenze quella Banda Carità che alla repressione delle attività partigiane associava azioni di criminalità comune, come la razzia dei beni ebraici e il sequestro di presunti oppositori per ottenere in cambio del rilascio un sostanzioso riscatto, magari sotto forma di cessione forzosa di beni immobili.

E qui si entra in un ambito molto delicato: quali furono i veri mandanti dell’uccisione di Gentile? Chi scrive, dinanzi a ricostruzioni più o meno recenti, ha l’impressione di trovarsi di fronte a uno di quei romanzi polizieschi in cui la difficoltà per il lettore non consiste nell’immaginarsi un colpevole, ma nell’individuare fra tanti sospettati e sospettabili chi sia stato davvero l’assassino.

Sul delitto Gentile sono stati pubblicati saggi di notevole spessore, ultimo fra i quali il lucido e documentatissimo La ghirlanda fiorentina di Luciano Mecacci (Adelphi), fondato su una accurata e approfondita documentazione. Ma rimane il sospetto che sia pressoché impossibile arrivare sia agli esecutori materiali (sullo stesso Bruno Fanciullacci non tutte le testimonianze concordano), sia soprattutto ai veri e unici mandanti.

È certo che a volere la condanna a morte del filosofo sia stato il partito comunista. Il Pci rivendicò all’intero Cln il “merito” dell’omicidio, suscitando le reazioni della componente “azionista”, e modificò divulgandolo sulla sua stampa clandestina un articolo di Concetto Marchesi, inserendovi nel finale l’invocazione della condanna a morte per Gentile. È indubbio che il maggiore Mario Carità, se non brindò col Chianti alla fine del filosofo, tirò un sospiro di sollievo perché questi era intenzionato a recarsi a Gragnano per denunciare a Mussolini i suoi metodi. Ed è noto che, a differenza degli statunitensi, favorevoli a un regolare processo contro i fascisti, almeno prima dello scoppio della guerra fredda, gli inglesi propendevano per l’eliminazione diretta e le trasmissioni di Radio Londra del colonnello Stevens erano ricche di attacchi personali al filosofo “inghirlandato di svastiche”.

Al tempo stesso però è impossibile ipotizzare una collusione fra tutte queste forze, immaginando un Pci che prende ordini da Churchill, o Carità che si mette d’accordo con Fanciullacci (tutt’al più avrebbe potuto assicurargli una scorta; ma nella Rsi la scorta non l’aveva nemmeno Pavolini, che si recò ai funerali del filosofo guidando lui la macchina di servizio, perché il suo autista-guardia del corpo Vincenzo De Benedictis era impegnato altrove).

Forse è più corretto parlare dell’uccisione di Gentile come una sorta di “parricidio rituale”, con la connivenza dei suoi discepoli passati a sinistra, con tutto il rispetto per chi, come Vittorio Messori, ipotizzò che fosse stato ucciso perché sapeva troppo o, come Renzo De Felice, in quanto sarebbe potuto essere propedeutico a una auspicabile riconciliazione nazionale.

Il fatto è che ancora oggi non sappiamo sulla fine del filosofo molto di più di quanto si evince dall’ottimo docufilm La morte di Giovanni Gentile realizzato nel lontano 1982 dalla Rai con la regia di Marco Leto, la consulenza storica di quel grande storico del pensiero che è stato Sergio Bertelli e con l’intervista a un non ancora quarantenne Massimo Cacciari che riconosce l’importanza del pensiero gentiliano seduto sotto un ritratto di Gramsci.

Ma forse è meglio così, perché Gentile è grande per la sua opera, anche se la sua morte necessaria e in certo qual modo volontaria ne ha fatto un Socrate del Novecento che bevve consapevolmente la cicuta. E pazienza se la filosofia italiana negli ultimi ottant’anni non ha trovato a raccoglierne l’eredità un nuovo Platone, e, purtroppo, forse nemmeno un Senofonte.

 

Enrico Nistri Saggista

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