La leva tornerà davvero? Dubbi, costi e problemi a confronto

Mentre il mondo osserva con apprensione l’escalation tra Iran, Stati Uniti e Israele, e l’Europa si prepara a un aumento degli investimenti nella Difesa in vista del vertice Nato, in Italia riaffiora il dibattito sul ripristino della leva obbligatoria

Le recenti escalation nei teatri di crisi internazionali – con lo scontro sempre più aperto tra Iran, Stati Uniti e Israele – e alla vigilia del vertice Nato a L’Aia che vedrà l’Alleanza chiedere ai propri membri di innalzare ulteriormente le spese per la Difesa, è tornata a circolare, nel discorso pubblico e politico, l’idea di un ripristino del servizio militare obbligatorio. Le crescenti preoccupazioni per una possibile estensione dei conflitti stanno alimentando una riflessione più ampia sulla capacità di risposta degli Stati europei, Italia inclusa. In questo contesto, la leva viene evocata come possibile strumento di rafforzamento delle difese, ma non senza controversie e forti perplessità, anche da parte delle stesse Forze armate.

L’idea di un ripristino del servizio militare obbligatorio è un argomento che torna ciclicamente nel dibattito pubblico e privato degli italiani. Anche prima della guerra in Ucraina, che ha spinto tutti i Paesi d’Europa – e non solo – a riflettere sulla propria organizzazione militare, l’ipotesi di reintrodurre la cosiddetta “naja” è stata più volte evocata da diversi esponenti politici, ministri compresi. Tuttavia, i primi a schierarsi contro il ritorno della leva sono state proprio le alte gerarchie militari.

La storia

Come numerosi altri Paesi europei, dopo la fine della Guerra fredda l’Italia ha impostato le proprie Forze armate secondo un modello professionale, sospendendo il servizio militare obbligatorio a partire dal gennaio 2005. Una tendenza che ha caratterizzato tutto il Vecchio continente, a eccezione di pochi Paesi (Austria, Grecia, Finlandia e Svizzera). Su questa scelta hanno pesato diversi fattori, dall’ostilità crescente della popolazione alla coscrizione, al mutato scenario globale causato dalla fine della contrapposizione bipolare. Ma tra le ragioni ci sono state anche considerazioni di tipo prettamente tecnico. Soprattutto a fare la differenza è stato il livello sempre più tecnologicamente elevato degli strumenti militari, che ha reso necessario disporre di personale altamente qualificato. Secondo gli stessi generali, le Forze armate hanno raggiunto un livello di complessità tale per cui non sarebbe possibile preparare nel poco tempo della ferma quelle specializzazioni richieste per un utile inserimento delle reclute nello strumento militare.

La difesa si fa con la specializzazione

Questa specializzazione raggiunta da tutte le Forze armate, in particolare Marina e Aeronautica. Queste necessitano di personale esperto a tutti i livelli, rischia di trasformare l’Esercito di leva in una massa di fanti poco motivati, assegnati a compiti marginali. C’è chi sostiene che si creerebbe addirittura uno squilibrio tattico, con enormi formazioni di fanteria esposte alle minacce avversarie senza un adeguato supporto dalle altre componenti militari più tecniche, che non riuscirebbero a tenere il passo con questo aumento di personale non specializzato.

La stessa guerra in Ucraina, se da un lato ha spinto i Paesi a riflettere sulle proprie architetture militari, dall’altro ha confermato alcune valutazioni sulla maggiore efficienza del modello militare professionale. Sia gli ucraini, costretti a mobilitare l’intera popolazione per far fronte all’invasione, sia i russi, le cui forze sono composte per lo più da coscritti, hanno sofferto numerose perdite, causate, secondo gli analisti, dalla scarsa preparazione delle truppe di leva, con le unità più professionali che hanno in genere ottenuto risultati migliori sul campo.

I costi

Ma a preoccupare in particolare i vertici militari sono soprattutto i costi enormi che il ritorno della leva comporterebbe. Andrebbero riattivate, infatti, le organizzazioni e gli enti preposti, oltre a prevedere una professionalizzazione specifica per il personale addetto al reclutamento, all’inquadramento e alla formazione dei coscritti. Insomma, andrebbe rimessa in piedi tutta quella organizzazione che oggi non esiste più. Anche gli stipendi dei richiamati, per quanto limitati, e dei professionisti dedicati alla loro gestione andrebbero a rappresentare un ulteriore peso al bilancio. In un momento in cui, dicono i generali, c’è bisogno di investire in piattaforme sempre più avanzate e, quindi, costose. Già oggi il 60% del budget della Difesa è assorbito dai costi per il personale. Una proporzione che il servizio militare obbligatorio non farebbe che aumentare. Anche al netto di un eventuale incremento del budget militare al 5% del Pil, come richiesto dall’attuale segretario generale dell’Alleanza, Mark Rutte, e dal presidente Usa, Donald Trump.

In uno scenario strategico globale in cui la deterrenza è basata soprattutto sulle tecnologie all’avanguardia. Destinare fondi alla leva significherebbe penalizzare l’ammodernamento e la preparazione delle forze esistenti. Sia i vertici militari, sia tutti i ministri della Difesa che si sono susseguiti nel tempo, hanno più volte ribadito l’impraticabilità e, soprattutto, l’inutilità di questa soluzione.

I primi a dire “no” sono i generali

Tuttavia, generali e ammiragli concordano sulla necessità di avere organici più numerosi per le Forze armate, necessari, a loro avviso, per affrontare le nuove sfide alla sicurezza globali. Alternativa alla reintroduzione della leva più praticabile per avere un bacino di personale motivato e sufficientemente formato è, allora, la creazione di una Riserva, sul modello di analoghe formazioni tipiche dei Paesi anglosassoni. Un esempio su tutti, la Guardia nazionale statunitense. Questa riserva, formata da volontari part-time, disponibili a indossare l’uniforme in caso di emergenza, è stata inserita nella legge 119 del 2022, ma ancora deve essere strutturata nei tempi e nei modi.

Al netto delle soluzioni adottate, però, restano aperte numerose considerazioni di natura non prettamente militare. A decidere della reintroduzione della leva, per esempio, non sarebbero coloro sui quali impatterebbe maggiormente la misura: tutti quei ragazzi che, non essendo ancora diciottenni, non possono votare ma che sarebbero i primi a venire richiamati. Inoltre, il servizio militare obbligatorio, così com’è ancora formulato, prevede la coscrizione solo maschile, nonostante nel frattempo il servizio militare si sia aperto alle donne. Una discriminazione che si scontrerebbe con altri dettati costituzionali e con la mutata percezione sulla presenza femminile in uniforme, ormai non più in discussione. Ostacoli e resistenze che, unite alla contrarietà dei vertici militari, rende qualunque esternazione sulla possibile reintroduzione della naja pura retorica.

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