Dov’è andata a finire l’etica pubblica?
È la domanda che – non solo io – ma molti si sono posta dopo aver appreso che il presidente statunitense, Joe Biden, ormai agli sgoccioli del suo mandato, forse per chiuderlo in bellezza (sic), ha ritenuto di accordare la grazia al proprio figlio Hunter.
Il presidente, infatti, smentendo quanto aveva sempre dichiarato, si è avvalso del potere di reprieves and pardon (sospendere la pena – il nostro equivalente della “grazia” – ed annullare tutti i processi pendenti) per tutti i reati commessi a livello federale, per i quali aveva già subito condanna e per quelli ancora sub iudice; potere che la Costituzione americana riconosce direttamente al presidente degli Stati Uniti, senza necessità di una complessa istruttoria, come accade invece in Italia.
La clemenza di Joe Trump
Eppure Biden aveva più volte promesso al suo partito e al Paese che non avrebbe concesso alcun perdono presidenziale al figlio per “non interferire con la giustizia” e, anzi, ne aveva approfittato per stigmatizzare preventivamente eventuali, possibili iniziative “perdoniste” di Trump nei confronti di coloro che si erano macchiati dell’assalto a Capitol Hill. Il quale Trump non ha perso l’occasione per criticare l’ormai ex presidente proprio per non aver accomunato al proprio figlio quelli che egli definisce gli “ostaggi del 6 gennaio”, omettendo di estendere anche a loro il provvedimento clemenziale (e, dunque, lasciando intendere che a tanto provvederà lui stesso una volta insediatosi alla Casa Bianca). D’altro canto il comportamento di Biden costituisce un assist perfetto per il suo successore, che potrà invocare proprio tale precedente.
Biden ha provato a giustificarsi, asserendo di essersi determinato a concedere la grazia al figlio, perché vittima di una persecuzione giudiziaria, “un tentativo di spezzare Hunter… [per cercare] di spezzare me”; tuttavia non ha fatto altro che ripetere, quasi, le stesse parole che Trump aveva più volte pronunciato nei confronti della giustizia americana, e che proprio Biden aveva aspramente stigmatizzato. Ma, si sa, “i figli so piezz’e core”, direbbero a Napoli. O forse, richiamando Leo Longanesi, anche per Biden vale il famoso detto, tutto italiano: “tengo famiglia”. E poco importa se, poi, in frantumi ci vanno lo Stato di diritto e la credibilità delle istituzioni.
Uno stipendio da cinquantasei miliardi
Sempre restando in America, è di questi giorni la notizia che un giudice del Delaware, Kathaleen McCormick, ha bloccato l’erogazione della maxi-retribuzione richiesta da Elon Musk alla Tesla, quale suo amministratore, pari a 56 miliardi di dollari. La giudice, accogliendo il ricorso di alcuni consiglieri d’amministrazione, ha rilevato “inesattezze materiali” ed il mancato rispetto “di molteplici norme di legge”, nella richiesta di Musk e l’ha rigettata, suscitando le ire del potentissimo magnate americano – qualcuno ormai lo considera “co-presidente” – il quale ha già annunciato, con una protervia pari alla sua ricchezza ed al nuovo potere che gli deriva dal rapporto col presidente Trump, ricorso alla Corte Suprema (la cui maggioranza – va ricordato – è di nomina trumpiana).
Ora, al di là della mera questione giuridica, è lecito chiedersi: ma cosa avrà mai fatto Musk per guadagnarsi un compenso di 56 miliardi di dollari, pari – se non superiore – al Pil di uno Stato del Centroamerica? E cosa avrà fatto mai – se non, pare, dei disastri – Carlos Tavares per pretendere (come si dice) 100 milioni di euro di buonuscita da Stellantis, dopo solo quattro anni di lavoro? Si possono considerare “etici” compensi del genere?
Reato scomodo, reato abolito
E veniamo alle cose di casa nostra, richiamando qualche tipologia di comportamento nella quale non è difficile imbattersi.
Un professore passa alla sua allieva le domande che le farà durante l’esame; il presidente di una commissione di concorso per l’incarico di docente universitario favorisce un suo assistente a scapito di un altro concorrente più bravo; il dirigente di un ufficio tecnico comunale rilascia un permesso di costruire in violazione della normativa urbanistica di quel comune; un Pm, geloso della sua ragazza, indaga e fa processare l’ex fidanzato della stessa. E si potrebbe continuare. Non si tratta di mere ipotesi, ma di fatti tratti dalla pratica giudiziaria.
Come giudicare questi comportamenti? Un tempo essi costituivano il reato di abuso d’ufficio, oggi sono perfettamente leciti, perché quel reato è stato abolito. E, con esso, sono state “abolite” anche più di 3.600 condanne intervenute negli ultimi anni. Mani libere anche per il pubblico funzionario che non si astiene in presenza di un conflitto di interessi e, magari, favorisce un proprio parente o congiunto: una situazione, mutatis mutandis, non molto dissimile da quella che ha riguardato il presidente Biden che, pure, ci scandalizza.
Ma – si dice – l’abrogazione era necessaria per non lasciare troppo spazio alla discrezionalità dei magistrati e per scongiurare la “paura di firma” dei pubblici funzionari; senza contare, poi, che circa l’80% delle denunce presentate veniva archiviato.
Questione di principio. Costituzionale
Mi paiono giustificazioni che convincono poco o affatto e che non giustificano l’eliminazione di un reato presente già nella legislazione del Regno delle due Sicilie e nei codici del Regno d’Italia, il quale trova tuttora la sua ragion d’essere in numerose disposizioni della nostra Costituzione, come, per esempio, l’art. 97, che prevede il principio del buon andamento della pubblica amministrazione o l’art. 117, in considerazione della possibile violazione di obblighi derivanti da trattati di diritto internazionale.
Tra l’altro, esiste anche una proposta di direttiva del parlamento europeo del 3 maggio 2023 che prevede sia punita come reato proprio l’intenzionale violazione di leggi da parte del funzionario pubblico. Vedremo cosa accadrà, se e quando sarà approvata. Per intanto ben sei tribunali hanno sollevato una questione di legittimità costituzionale sull’abrogazione dell’art 323 del c.p.
Ma, a parte questo, resta la domanda iniziale: dov’è finita l’etica pubblica? Una domanda senza risposta.
Anni fa il cardinale di Milano, Dionigi Tettamanzi, in un’intervista a Famiglia Cristiana, ebbe a dichiarare che gli anni di tangentopoli non avevano insegnato nulla e che “la questione morale è sempre d’attualità”. Dunque l’etica pubblica non è un’anticaglia. Norberto Bobbio nel “Dialogo intorno alla Repubblica”, richiamando i valori della Costituzione, ribadiva la necessità di praticare la “virtù civile”, necessaria, insieme alle buone leggi, “per frenare coloro che hanno le mani lunghe”.
Virtù civile è quella di chi ai propri diritti antepone i propri doveri, come fu per Giorgio Ambrosoli. Purtroppo la nostra vita pubblica pare avere oggi altri riferimenti, è sempre più pervasa dal dio denaro, questo Moloch moderno che – scriveva Emilio De Marchi – “se non è l’idea, serve a comprare i padroni dell’idea”!
Roberto Tanisi – Magistrato, già presidente di tribunale e di corte d’appello