I miei idoli sono sempre andato a cercarli col lanternino, in orgogliosa e forse un po’ bastiancontraria solitudine, senza che mi venissero proposti dal catalogo dell’eroe del giorno o del re per una notte. Piccole grandi divinità non condivise e talvolta anche incondivisibili per la loro marginalità. Del resto è ben noto che alla simpatia e all’empatia umane non c’è rimedio, la storia e le storie sono lì a dimostrarlo.
Terminata la premessa, doveroso segnasentiero per il lettore, mi accingo all’esercizio annunciato. Ovverosia all’atto di ammirazione verso uno scrittore e poeta riservatissimo, piombato nella cronaca per sua sfortuna (o forse no…) sull’onda del duello non privo di asprezze tra due opposte tifoserie di un musicista e cantante. Quindi tirato suo malgrado nella diatriba sul prima e sul dopo dai supporter di Lucio Battisti.
In fondo nulla di nuovo sotto il sole: in Italia, Paese di guelfi e ghibellini, da sempre ci si divide su tutto… I più attenti avranno già compreso che “il prima” è il celebre e celebrato Mogol. Ma qui l’oggetto di devozione è “il dopo”: Pasquale Panella. Uno così schivo e così poco incline a parlare di sé che bisogna appunto andarlo a cercare col lanternino.
Lo conosco da un quarto di secolo anche se mai ci siamo incontrati di persona, benché le occasioni ci sarebbero state. Ne ho scritto, come giornalista, e lui mi ha scritto con gentilezza e pazienza sempre. Conosco a perfezione il suono della sua voce per via delle lunghe, anche se centellinate, chiacchierate al telefono in questi anni. Fui io, naturalmente, a contattarlo dopo anni in cui ascoltavo con delizia i suoi testi per Battisti, traendone godimento, idee e illuminazioni.
Fu proprio dopo la morte del cantante, mentre lui finiva nel tritacarne mediatico di critici miopi o nel dimenticatoio di celebrazioni a senso unico. Aveva risposto a tono, di persona, ad alcuni attacchi ridicoli. Ma apprezzai subito la sua assoluta mancanza di voglia di rivalsa, il suo accettare con distacco il giudizio altrui, la sua capacità di non piangersi addosso come artista incompreso o maltrattato. E la sua assoluta discrezione su fatti e persone. L’ho intervistato cinque o sei volte. Più alcune cose brevi, commenti a fatti del giorno per l’agenzia Ansa.
Una volta ha risposto ad alcune mie domande per iscritto. Donando una serie di stupende riflessioni sulla figura dell’eroe che vennero poi stampate a Gorizia per una edizione del Festival della storia e distribuite gratuitamente al pubblico come Libretto di sala. Lì dentro c’erano perle come queste (da qui incominciano le citazioni come confessione di ammirazione). “I poeti che dicono non dicono niente. Poesia non è dire ma fare. Mi piace l’espressione “fare versi”. Scrivere versi è una rogna oppure è una stanchezza, una resa a una presunzione o, addirittura, una presunzione di resa. Fare versi, sì, come le cornacchie… gli usignoli soli alle tre di notte… Li ascolto, cosa dicono?… La comprensione non c’entra nulla. Ciò che potremmo comprendere alle tre di notte potrebbe sciogliersi in ridicole colature alla luce del sole, quindi non comprendiamo… sentiamo fare il canto, sentiamo fare versi”…
E poco dopo, ad un quesito sul superomismo di D’Annunzio, scrive “…era consapevole di dover trovare, tra terra e cielo, una mediazione, la via di fuga nel mezzo… la trovò nel tramonto. D’Annunzio è all’altezza del tramonto, e a quell’altezza, tra terra e cielo, può essere letto… istiga lo stramazzare del sole e, nello stesso tempo, dispone un ottimo servizio in terrazza”…
Qualcuno può legittimamente chiedersi come ci sia finito uno così nel mondo della canzone. La risposta più facile è anche la più corretta. Panella non teme di sporcarsi le mani, di scendere dal presunto Olimpo della poesia o della letteratura fino al palcoscenico più popolare. Non è certo un cultore della filosofia che vuole mischiare “alto” e “basso”. Semplicemente gli piace fare cose emozionanti, vivendo e scrivendo, senza prendersi troppo sul serio.
Il giorno che morì Charles Trenet mi disse “si dovrebbero chiudere per un giorno tutti i teatri per onorarlo”. Qualche anno prima proprio per omaggiare il grande musicista francese aveva anche inciso con la propria voce una versione di “La mer“. Panella ha scritto romanzi, racconti e poesie, ha composto i testi di quel successo internazionale che è “Notre Dame de Paris” di Cocciante, ha fatto decine di canzoni per svariati artisti, compresa Mina, e tra loro spicca il musicalmente geniale Enzo Carella. Senza contare che donò a un cantante che più popolare e popolano non si può come Mino Reitano una perla di romantica ironia e profonda autoironia (La mia canzone) che naturalmente a Sanremo ebbe scarso successo. Come era prevedibile e previsto. Perché Panella è uno che si diverte nelle sfide allegre con spirito calcistico e non stravede per il risultato. Anzi.
Ma non è questo il luogo per ricordare tutto o tutti. Qui semmai si ammettono le debolezze dello scrivente. La sua grande invidia per versi come questi (e così si concludono gli esercizi, mnemonici, di ammirazione): “Si sopravvive a tutto per innamorarsi”; “Non penso quindi tu sei, questo mi conquista”; “Lei m’amò, tu l’amasti, io no, i verbi la tradirono, che c’entro io”; “Le tre e quarantacinque della notte, il sonno se n’è andato all’improvviso, le dolcezze sono come le amarezze: strette blande senza pietà. Nella notte, sonno sperso, ombra austera, caro il viso, con che garbo, con che umile sospiro: cosa non farà più, cosa farà di nuovo, cosa farà di meno”.
Una minuscola cavalcata tra versi emozionanti e stimolatori di immagini e pensieri. Qualche detrattore ha scritto che Panella ha reso incantabile Battisti. È una sciocchezza facilmente confutabile. Anche perché a distanza di trenta e più anni quelle canzoni sono classiche e cantabili, probabilmente oggi più di allora. Ecco, potremmo dire così: Panella ha saputo portare una cosa ostica e complessa come la poesia, ovvero il fare versi, ad un godimento popolare e diffuso. Entrando in punta di piedi in campi che sono alla portata di tutti. Superando il recinto di quanti lo vorrebbero elitario e astuto, nonché oscuro, manipolatore di parole e frasi.
La lingua italiana è piuttosto musicale, se la si sa usare. È capace di magnifici doni a chi la sa gestire. Ecco perché P.P. dovrebbe entrare di diritto nelle antologie scolastiche, anche solo per i testi di alcune canzoni. E per la capacità di fare diventare la canzonetta spunto di riflessione. Se davvero “è del poeta il fin la meraviglia”, Panella ha azzeccato il mestiere giusto. Muovendosi al contrario di troppi involuti sedicenti poeti che scambiano il proprio ombelico per il Colosseo e lì si esibiscono a spalti vuoti. Anche se lui, che di se stesso dice solo “scrivo”, potrebbe replicare ammiccando con un proprio verso: “Sul viso la sintassi non ha imperio, non ha nessun comando”.
P.S. Panella continua a scrivere, con parsimonia e senza grancassa, e a regalare ad altri idee ed emozioni. Naturalmente per trovarlo occorre cercarlo.
Maurizio Lucchi – Giornalista