Tradizioni. Capirsi un po’, in mezzo agli altri

La Varia di Palmi, la ritualità ritrovata. Una descrizione tra antropologia culturale e storia delle tradizioni popolari

Non deve essere semplice avere un padre che dialoga da pari a pari con Bentham e Ricardo. Comporta inevitabilmente un carico di responsabilità e aspettative quasi insostenibili, tra le quali essere un genio. Determinare una genialità, certificarla con bollinatura, non è affatto affar mio; e rimane un gioco del tutto irrilevante. So però che dopo un secolo e mezzo John Stuart Mill ancora cambia delle vite, o quantomeno ha cambiato la mia. Nell’istante in cui mi è capitato in mano il suo saggio On Liberty, non sono stato più in grado di ragionare come prima. Concetti impalpabili hanno assunto una concretezza inimmaginata, da vederseli camminare davanti. La tentazione di zittire un’opinione sgradita – si capisce, sgradita solo per il fatto d’essere diversa dalla mia – si è tramutata quasi in un peccato.

L’ho comprato in una edizione Bompiani con testo originale a fronte, con la copertina bianca nella parte inferiore e arancione nella parte superiore. L’ho ripreso in mano qualche giorno fa, per provare ancora una volta a capire ciò che mi stava succedendo dentro. Mi ricordavo di aver lasciato un segnalibro: una banconota da ventimila dinari jugoslavi, raffigurante un minatore dallo sguardo austero, le labbra serrate, il profilo del naso fiero e gli occhi che guardano verso un avvenire a sfondo marrone, emessa per la prima volta nel 1987 e pervenutami non ricordo più come.

La pagina è la 135, il titolo del paragrafo è grassettatto e tra parentesi quadre. Rileggo dunque distrattamente sino a che non trovo queste parole sottolineate con un tratto tenue di matita“In assenza di dibattito non vengono dimenticati solamente i fondamenti di un’opinione, ma viene dimenticato sovente il significato dell’opinione stessa. Le parole che la esprimono cessano di suggerire idee, o suggeriscono solo una piccola parte di quelle idee che in origine comunicavano”.

Ricordo immediatamente di che parla la pagina e perché ho lasciato un attento minatore a sorvegliarla: è il capitolo dedicato alla ritualità e a come, appena conclusasi la lotta tesa all’emersione e all’affermazione, del principio stesso non rimanga che uno stanco e smunto simulacro. La faccenda mi affascina, mi sto avvicinando a ciò che cerco. Proseguo. Ancora con Mill: “Non appena gli oppositori spariscono dal campo, sia i maestri sia i discepoli si addormentano nella loro posizione”

Parla di religioni e lingue, ritualità e tradizioni morali. Parla di tutto ciò che ha terminato un processo iniziale per inoltrarsi nel campo scivoloso della replica, della continuazione. Ed essendo noi tutti provenienti da un luogo, da delle persone e – nei casi più lieti – da delle comunità, la cosa ci tocca da vicino. Infatti, accogliamo con ineluttabile acquiescenza precetti tanto veri quanto ripetuti fiaccamente, massime di vita (come affrontare un dolore, una perdita, il tempo che passa, l’esperienza che si forma, la vita che ti lascia). Ma, afferma ancora J.S. Mill, solo nel momento che si ha l’esperienza diretta gli scaffali della nostra percezione dei formulari vuoti iniziano a riempirsi.

Ecco una premessa, forse un po’ troppo lunga ma forse non inutile,  per dire: il 25 agosto m’è capitata un’esperienza diretta.

Il pensiero simbolico mi è familiare, ma ho sempre rifiutato di ragionare in termini spirituali. Sono nato mentre la Democrazia Cristiana moriva e i movimenti sociali a essa collegati perdevano terreno. Non ho frequentato oratori e catechismi. Le cose di Chiesa non mi hanno mai investito. Non me ne sono mai fatto troppo un cruccio; in fondo la mia è forse la prima generazione della storia vastamente secolarizzata.

Alcuni dati statistici

Ne abbiamo tutti la percezione, ma penso sia utile sottolineare l’entità di questo fenomeno. Da quando l’Istat raccoglie questo dato, la percentuale di individui che hanno presenziato a una funzione religiosa almeno una volta a settimana è passata dal 36,4% del 2001 al 17,9% del 2023. Discorso speculare per chi non è mai entrato in un luogo di culto: si passa dal 15,9% del 2001 al 31,5% del 2023. Non volendosi fermare al fatto concreto e analizzando una dimensione più interiorizzata, si possono riportare dei dati di un sondaggio recente. A una domanda riguardo il ruolo dell’insegnamento della Chiesa rispetto a questioni morali e di vita delle persone (intendendo con ciò valori, famiglia, sessualità), il 41% ha risposto “Utile, ma poi ciascuno si deve regolare secondo coscienza”, mentre la classe “Mi è indifferente” è stata scelta dal 15% degli intervistati. Il 29% risponde che è o improprio o negativo. Il dato più interessante resta però uno: solamente il 15% si rispecchia nel modo di vivere prescritto dalla Chiesa.

Se poi si segmenta il macrofenomeno in classi di età, si nota come abbia colpito in misura enormemente maggiore gli adolescenti cresciuti nel periodo suddetto. E io sono parte di questi. Ma mi pare che sia vero anche il contrario.

Vengo anche da una generazione di emigrati dal Sud, i cui nonni appoggiavano (o appoggiano) le chiavi di casa a un portachiavi di legno, con una frase che invita al sacro amore casalingo e un’immagine bonaria di Padre Pio o della Madonna della Montagna. Nella camera in cui dormivo da bambino quando andavo a passare l’estate al paese c’erano: sopra al lettino a una piazza, con la rete a molle scricchiolante a ogni sussulto, un’immagine formato A5 di Sant’Antonio da Padova; sul mobile marrone stile Arte Povera ai piedi del letto, due santini incorniciati in simili-argento della Madonna di Lourdes; accanto alla porta, un quadretto formato A4 del Sacro Cuore di Gesù. Le giornate erano scandite ancora dal suono delle campane, mia nonna partecipava a due messe al giorno e, nelle sere in cui non uscivo, ci teneva recitassi con lei un rosario. E io la accontentavo di buon grado.

La festa al Paese

Nei mesi che passavo giù cadeva anche la festa del mio Paese, dedicata alla Madonna di Lourdes: gli organizzatori passavano casa per casa a chiedere un’offerta e anche nelle case in cui non c’era molto, si trovava comunque un modo per contribuire. Vedevo queste nuove banconote colorate di blu o di arancione strette tra le mani di mio nonno e mi parevano un’esagerazione, uno sproposito. Ammiravo la maestria con cui gente mai vista prima si issava su scale di legno a pioli appoggiate su pali di fortuna e trovava un modo per riempire il Corso Onorevole Alessio e il Corso Onorevole Vito Nunziante e via Padre Francesco Zagari di luminarie sfavillanti, sino a su al Convento. Guardavo affiggere i manifesti con il programma delle festa, diviso in verticale da una linea imperscrutabile ma presentissima: sul lato sinistro le Funzioni religiose, a destra invece le funzioni civili. E noi ragazzi non ci preoccupavamo di null’altro se non della colonna a destra.

L’ultima domenica d’agosto a Palmi

Ecco, sebbene circondato da tutto questo carico di elementi significanti, il significato mi rimaneva puramente ludico, ornamentale. Tutto questo si è fermato a Palmi, in un’ultima domenica di agosto in cui faceva un caldo soffocante. La luce guizzava contro l’asfalto rovente, generando un miraggio che era al contempo ammonimento e presagio; pareva dirmi: stai per vedere cose che non hai mai visto, ma avrai da faticare.

Tutta la cittadinanza era da mesi preparata all’apoteosi mentre curiosi visitatori – io tra questi – si spingevano, un metro alla volta, verso il paese, affaccendandosi impertinenti per non arrendersi a un’ovvietà: la macchina era da parcheggiare all’uscita dell’autostrada. Sulle sedie di vimini intrecciato, posizionate alla ricerca di un po’ d’aria giusto al di fuori delle porte delle case popolari, non si parlava d’altro: come si comporterà l’Animella? Avrà paura? Ti ricordi quella dell’anno passato, che teneva gli occhi fuori dalle orbite dallo spavento? Commare, speriamo che stavolta non sia così, che porta male.

Della Varia di Palmi sapevo poche e raffazzonate informazioni, ma erano previste 200mila persone partecipanti ed ero curioso. Ho chiesto a una delle persone che erano lì con me le ragioni dell’eccitazione collettiva.

La sua risposta mi ha spiazzato: «Ormai di riti non se ne costruiscono più, quindi ci teniamo quelli che ci hanno dato. E ci piacciono».

Quel giorno ho scoperto che la Varia, a Palmi è: processo di ritualità molto complesso accompagnato da prove di coraggio, un mese di celebrazioni tra le più diverse, argomento di cui parlare, orgoglio per la città, patrimonio immateriale dell’Unesco, coreografie e cori provati e riprovati da diversi gruppi sociali (corporazioni, nell’ordine: Artigiani, Bovari, Carrettieri, Contadini e Marinai), un nugolo di persone (mbuttaturi) schiacciate sotto una struttura (Varia) alta qualcosa come 16 metri e pesante 20 tonnellate.

Per darvi un metro di paragone, quanto un autobus a due piani. La Varia porta in cima una ragazzina tra i 10 e i 12 anni raffigurante la Vergine Maria (Animella), incoraggiata e sostenuta da un uomo barbuto, coraggioso e avveduto (Padreterno). Il carro è coronato da trenta angioletti a forma di bambini e bambine e da dodici giovani apostoli.

Semplifichiamo così il processo di selezione dell’Animella: si passa prima da una selezione, chiamiamola così, tra esperti, per poi passare a uno scrutinio popolare; partecipatissimo, da ciò che mi hanno riferito. Stesso meccanismo adottato per l’elezione del Padreterno.

Le origini della Varia

Le origini della celebrazione della Varia sono datate tra fine Cinquecento e inizio Seicento e hanno a che fare con la peste, la pietà e la riconoscenza. La peste è quella di Messina del 1575, che decimò la città (40mila morti); la pietà è quella dei palmesi, che inviarono viveri e accolsero messinesi; la riconoscenza è dei messinesi: il Senato della Città donò a Palmi ciò che aveva di più sacro: uno dei capelli appartenuto, secondo la tradizione, alla Madonna, inviati e corredati da una lettera di benedizione da parte Maria stessa a Messina nel 42 d.C. (da qui l’appellativo Madonna della Sacra Lettera).

Qualche anno dopo si organizzò dunque una spedizione capitanata dal palmese Giuseppe Tigano che, partendo dalla e tornando alla Marina di Palmi, portò con gran seguito di imbarcazioni ed entusiasmi, il capello della Vergine Maria.

Così iniziò la venerazione della Madonna della Sacra Lettera a Palmi; fatto coronato altresì dalla realizzazione di un carro votivo sul modello di quello già presente a Messina, rappresentante l’Assunzione.

Varia, nella variante messinese Vara, è la traduzione dialettale di bara; termine scelto poiché dentro il grosso ceppo di legno che fa da base alla Varia “giace il corpo della Madonna e, da essa, si eleva la Madre di Cristo per essere assunta in cielo in anima e in corpo”.

Come ogni bara che si rispetti, per secoli la Varia è stata portata a spalle dagli ‘mbuttaturi. A fine Ottocento, dopo una serie di processioni funestate da incidenti, si è però deciso di sospendere la celebrazione, sino a che non si è trovata una soluzione tecnica, ossia trascinare la Varia.

Siamo arrivati presto di fronte al mausoleo che la città di Palmi ha dedicato a Francesco Cilea, compositore e orgoglio culturale cittadino assieme a Leonida Repaci. La Varia giaceva di fronte, timida e coperta da un candido manto alto venti metri.

Poco prima, Valentina Bisti, inviata per il TG1, ha intervistato l’Animella. La si vede raggiante, baciata delicatamente sulla guancia da Antonio, il Padreterno. Sognava questo momento sin da piccola, dichiara l’Animella, mentre il Padreterno vuole adempiere diligentemente al suo compito; accompagnando, sostenendo e supportando a parole.

Sotto la Varia, rimango intontito. La testa comincia ad andare per conto suo, sento un calore partire dalle piante dei piedi e salire senza alcun rimedio. I pensieri si offuscano e mi viene il fiato corto. Penso di aver mangiato troppo o forse non ho bevuto a sufficienza. Cerco con lo sguardo uno spazio libero all’ombra, ma non se ne trova. Annaspo alla ricerca di un filo d’aria ma i polmoni sembrano una busta di plastica trascinata dal vento. Sono le 15:30 e la scasata (il momento in cui la Varia partirà, prevista per le 19) è drammaticamente lontana. Devo trovare un modo per arrivarci. Nel momento in cui l’ansia è al suo picco, in cui temo di non poter più stare in piedi, arrivano gli Artigiani. Galoppano giù da via Francesco Salerno, e mi danno l’impressione di essere davanti all’anima del mondo: risoluti e vestiti di bianco, festanti e pronti, pur canzonando le altre corporazioni, a sottomettersi congiuntamente a una forza ben più grande, irresistibile. Mi distraggo, lo stomaco mi si decomprime, ricomincio fiaccamente a respirare. Sfilano tutte le corporazioni, tutti salutano e ringraziano le maestranze che la Varia l’hanno costruita, tutte esprimono un orgoglio partigiano incontenibile.

Intanto, ci avviamo alla ricerca di un posto comodo per fermarci. Corso Giuseppe Garibaldi è invaso di ventaglietti di carta blu, gettati un po’ qua e un po’ là o sventolanti in mani sudaticce, distribuiti da una nota catena di negozi di accessori per la casa. Il palco in piazza Primo Maggio attende i discorsi delle personalità politiche locali, gli spalti in tubi innocenti montati ai margini sono ancora semivuoti. Continuiamo verso Villa Mazzini, sino a che non troviamo un posto sufficiente, di quelli che nelle corride verrebbero venduti come sol y sombra. Bevo tre bottigliette d’acqua da mezzo litro filate mentre aspettiamo e ci guardiamo attorno: una signora anziana siede dietro una persiana semichiusa, un nipote suona insistentemente un campanello per chiedere di farlo salire su un balcone, uno zio vagheggia un gelato (con un bell’aspetto, non c’è che dire). Siamo tutti lì, in attesa da ore.

Mi chiedo cosa realmente mi abbia spinto a sfidare l’aria rovente e la folla vociante. Non posso accontentarmi di una generica volontà di zittire una curiosità; il mio corpo me lo sta comunicando, qui c’è qualcosa di più profondo. L’unica soluzione rimane quella di attendere che un cannone spari, le funi si tendano, gli mbuttaturi spingano, l’Animella ci benedica e la Madonna della Lettera inizi a redimere anche i miei peccati. Le 19 scoccano ma nulla cambia, il tono delle voci si fa più concitato, qualcuno inizia a spazientirsi e a gridare alla truffa. Altri li quietano: la Varia partirà quando sarà pronta, la sua venuta non può essere forzata ma solo accolta.

Il tumulto interiore, infuocato dalle ore d’attesa, pare esplodere assieme alla polvere da sparo del cannone a salve. Una reazione pressoché contemporanea, come se ciascuno di noi fosse accucciato sui blocchi e non attendesse altro se non lo sparo dello starter, ci ha investiti. Sparo e grida; un groppo in gola pazientemente slegato, come se fosse un vecchio paio di auricolari con il filo lasciati in tasca per qualche tempo; i colli che si allungano e le forze dell’ordine che ordinano. La scasata è partita. E come è iniziata, si è conclusa.

Ho avuto solo per pochi secondi la Varia in vista; cinque, forse sei. Non sono riuscito a guardare in alto, rapito invece dal basso, dalle maestose travi di legno a supporto, dai polpacci in tensione nell’atto di spingere, e ancora spingere, dalle lacrime degli mbuttaturi, cinquanta uomini adulti che parevano uno come in alcuni bassorilievi che mi sembra d’aver visto da qualche parte. Cinquanta persone con la stessa espressione: la fatica di reggere il sacro, il sacro di reggere la fatica.

Corso Giuseppe Garibaldi è lastricato di granito. Lo stridere del ferro battuto posto sotto la base della Varia con quest’ultimo lascia nell’aria un odore dolciastro, rugginoso. Lo sentiamo mentre ci avviamo verso piazza Primo Maggio, dove si stanno svolgendo le operazioni di umanizzazione dell’Animella: due pompieri la stanno liberando dall’imbracatura che la sosteneva, aiutati da Antonio, liberato nello stesso momento dal ruolo insostenibile di Padreterno. Tra la folla, non pare esserci la confusione che può verificarsi, ad esempio in una strada trafficata. Tutti guardano dalla stessa parte, tutti hanno una stessa meta. Per questo, anche in mezzo a 200mila persone, ognuno trova la propria strada e nessuno perde i propri cari.

Su un palazzo all’inizio di Corso Garibaldi, gli Artigiani hanno appeso un drappo bianco e rosso, che ne occupa tutta la facciata; un fuoco stilizzato sullo sfondo e quattro quartine firmate da un’incudine e un martello ci stanno salutando e augurando una buona notte. La terza quartina è questa:

 

A Varia a Parmi avi e portari

gioia di populu e penseri boni,

cu a voli beni s’avi e ‘mpegnari

mi supera tutti i so divisioni

 

Quattro versi che raccontano perché il rito della Varia non è annuale: viene al bisogno, quando più necessità di gioia, pensieri buoni e impegno a superare le divisioni. E proprio per questa mancanza di formalizzazione rituale, la Varia di Palmi non corre il rischio di addormentarsi nella sua posizione. Una celebrazione che non ha a che fare con le parole, ma solo con il percepibile – da sempre misura dell’infinito – e con il corporeo. Ossia ciò che lascia meno spazio di interpretabilità esterna: anche per un singolo istante, è innegabile che quel corpo abbia occupato quello spazio. E quel corpo presente e lo spazio occupato fanno sì parte di un insieme di gesti ritualizzati, ma hanno l’enorme vantaggio dell’essere corpo: evocare, provocare emozione e immedesimazione. Gli mbuttaturi siamo noi in potenza.

L’ordine sociale è tornato e i ventagli rimarranno ancora solo per poche ore a riposarsi negli angoli dei marciapiedi.

Forse per questo, arrivato in piazza Primo Maggio, mi sono sentito pieno. La tensione di prima era quasi sparita, me ne rimanevano solamente alcuni brandelli alle estremità degli arti, insieme a un’enorme stanchezza. Mi sono fermato un secondo tra la calca, guardando il palco. L’autorità era arrivata, le funzioni civili potevano cominciare. E mentre sul palco saliva Nina Zilli, ho deciso che per me poteva bastare così per quel giorno. Di colpo la rimozione mi si è formulata più o meno così nella testa: puoi essere parte di quello che si è appena concluso e quello che si è appena concluso può essere parte di te.

Allora il bambino che guardava esclusivamente il lato destro del manifesto mi ha salutato dolcemente, aprendo e chiudendo una mano. Con queste parole ho voluto dargli una carezza

 

 

Lorenzo Iorianni

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