Ugo Ojetti, maestro dimenticato del giornalismo culturale italiano. La guerra al punto esclamativo, un monito contro il giornalismo e i titoli urlati

I rapporti con Pirandello. I consigli di Montanelli a un aspirante giornalista. L’oblìo nel Dopoguerra

«Odio il punto esclamativo, questo gran pennacchio su una testa tanto piccola, questa spada di Damocle sospesa su una pulce, questo gran spiedo per un passero, questo palo per impalare il buon senso, questo trastullo delle bocche vuote, questo punteruolo da ciabattini, questa siringa da morfinomani, questa alabarda della retorica».

La requisitoria di Ugo Ojetti – uno dei maestri del nostro giornalismo – contro il punto esclamativo,  j’accuse implacabile che prende di mira il giornalismo “urlato”, è ai nostri giorni più che attuale. Ma chi l’ha scritta è oggi quasi del tutto dimenticato. Colpa dell’essere stato accademico d’Italia negli anni bui del fascismo e dell’avere diretto il Corriere della Sera, nel biennio 1926-1927, dopo l’allontanamento dei fratelli Luigi e Alberto Albertini – non graditi dal duce – e la breve parentesi di Pietro Croci, o dell’oblio che avvolge in Italia anche i migliori?

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Luigi Albertini

Montanelli propendeva decisamente per la seconda ipotesi: «È  un dimenticato, Ojetti, come in questo Paese lo sono quasi tutti coloro che valgono», e sulla sua adesione al fascismo precisava: «Col fascismo Ojetti convisse da gran signore che considerava la politica roba da portinaie, cercando di combatterne, nel campo dell’arte (che a Mussolini interessava poco), gli aspetti più volgari e pacchiani».

Giornalista e divulgatore dell'arte e della letteratura: chi era Ugo Ojetti

Ugo Ojetti

 

Già, si nutriva d’arte (e di letteratura), Ojetti, giornalista culturale di rara competenza e spiccato senso estetico che aveva nella Terza pagina il suo habitat naturale e nell’elzeviro la sua cifra di scrittura. Fondò tre riviste di critica d’arte e letteraria: nel 1920 Dedalo, nel 1929 Pegaso e nel 1933 Pan. «Fu per mezzo secolo l’arbitro dell’arte italiana» per Giovanni Comisso: «Ogni iniziativa per una celebrazione, per una commemorazione, per un monumento, per una esposizione doveva venire appoggiata dalla sua parola, da un suo articolo o da un suo discorso». Tanta autorevolezza non lo rese a tutti simpatico.

Mino Maccari, non pago di averlo definito «Sor Ugo Senzasugo», gli dedicò più di una vignetta satirica sul Selvaggio e una velenosa battuta: «Ogni secolo ha il suo Ojetti: al nostro è capitato il peggiore». Per Antonio Gramsci, la sua codardia superava «ogni misura normale»; per Piero Gobetti, il giornalista romano fu un «maestro raffinato delle belle maniere e dell’arte del successo, insuperabile nella magra arte dell’arrivare». Giudizi troppo severi da parte di due intellettuali, uomini di pensiero e d’azione, che ebbero il coraggio e una non comune tempra per opporsi al fascismo con severe conseguenze: il confino e il lungo carcere, per il primo; l’esilio a Parigi dove morì giovanissimo per le ferite mai sanate dell’aggressione subita in Italia dalle  camicie nere, il secondo.

Ojetti fu uno dei migliori amici di Luigi Pirandello, come testimonia la fitta corrispondenza tra i due, molta di essa riportata alla luce dalla studiosa catanese Sarah Zappulla Muscarà. Così un curioso carteggio, risalente al 1895, dal quale emerge il sospetto nutrito da Ojetti – peraltro infondato – che Pirandello, Luigi Capuana e Ugo Fleres, ancorché suoi intimi amici, congiurassero contro il suo romanzo Il vecchio per non averlo recensito con l’atteso favore.

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Luigi Pirandello

Ad Ojetti Pirandello svela le sue fatiche nell’elaborazione del saggio L’umorismo – pubblicato nel 1908 e poi divenuto un classico – per presentarlo a una Commissione di 5 professori d’Università che doveva esaminare i miei titoli per la promozione da professore straordinario a professore ordinario».

Nel 1914 Pirandello si sfoga con l’amico rivelandogli la pazzia della moglie: «Mio caro Ugo, forse da un pezzo ti sarà arrivata agli orecchi la notizia delle mie immeritatamente sciagurate condizioni familiari…Ho la moglie, caro Ugo, pazza. E la pazzia di mia moglie sono io». E lo stesso anno il drammaturgo siciliano lamenta il rifiuto da parte del supplemento letterario del Corriere, La lettura, del suo romanzo Si gira: «Non mi pare di meritarmi un siffatto trattamento. Sono stato umile e remissivo, tanto con il “Corriere” quanto con “La Lettura”…non mi son mai avuto a male, se mi hanno rimandato qualche novella…Ma che vogliano far questo con un romanzo, no per Dio».

Nel 1925, quando Ojetti è direttore del Corriere della Sera, il futuro premio Nobel gli si rivolge per “sistemare” il figlio Stefano: «Proponendotelo per la Redazione romana del Corriere, e fidando soprattutto nella tua vecchia amicizia, io non credo di venderti una delle merci comuni che si trovano sul mercato letterario e giornalistico italiano». La risposta di Ojetti è però pronta (gli scrive appena due giorni dopo) ma ferma: «Ho sempre pensato, da quando sono qui, al tuo Stefano; ma nel Corriere sono troppi i redattori, diremo, letterari».

A proposito della prole di Pirandello, Ojetti non fu tenero con Fausto: lo considerò uno «strambo inventore di soggetti›› senza ‹‹un minimo di logica». Il che ci fa capire almeno due cose: quanto Ojetti fosse avverso alle manifestazioni per lui troppo audaci dell’arte contemporanea (Fausto Pirandello seguì la Scuola romana) e come la loro amicizia escludeva gratuiti favoritismi.

Ojetti ci ha lasciato tanti scritti, soprattutto di critica e storia dell’arte prediligendo la classicità e la sobrietà, ma anche romanzi, racconti, memorie, testi teatrali e aforismi. Tra i suoi scritti, i più significativi restano quelli d’arte – non solo come espressione del gusto dell’epoca -, ma meriterebbero di essere ristampate le sue diverse raccolte di elzeviri: dei veri e propri classici di un giornalismo di alta levatura.

Montanelli in una sua Stanza, rispondendo al Corriere a un lettore che chiedeva di Ojetti, così scriveva: «Se io dirigessi una scuola di giornalismo, renderei obbligatori per i miei allievi i testi di tre Maestri: Barzini, per il grande reportage; Mussolini (non trasalire!), quello dell’Avanti! e del primo Popolo d’Italia, per l’editoriale politico; e Ojetti, per il ritratto e l’articolo d’arte e cultura».

Luigi Barzini (1874-1947) - Wikipedia

Luigi Barzini

Probabilmente Ojetti fu vittima della sua debolezza e per debolezza seguì il fascismo – di cui inizialmente era restio a prendere la tessera – anche nella sua coda della Repubblica di Salò; né, a volere fare i conti con quel passato, furono molti gli intellettuali che seppero dire di no fermamente al duce: tantissimi invece i voltagabbana per opportunismo.

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Benito Mussolini

Ma il prezzo pagato dal principe romano dell’elzeviro per i suoi errori fu troppo salato: l’indomani della sua scomparsa (1 gennaio 1946) il Corriere, dove spese i suoi anni migliori primeggiando per bravura, gli dedicò appena un trafiletto. A parte la sua filippica sul punto esclamativo – una condanna dell’enfasi che del fascismo fu la quinta essenza – Ojetti detestò ogni infatuazione estremistica come dimostra un suo aforisma: «La fede è d’oro, l’entusiasmo d’argento, il fanatismo è di piombo».

 

Antonino CangemiGiornalista, scrittore

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