Triglie tropicali, granchi blu e altre specie aliene. Un fenomeno che interessa il Mediterraneo e avanza verso nord

L’avanzata delle specie alloctone che stanno colonizzando il nostro ecosistema grazie al cambiamento climatico e la ricaduta sulla filiera alimentare. Pubblichiamo la prima parte di una ricerca condotta da un giornalista scientifico

Che gli alieni fossero tra noi lo hanno pensato in tanti, non da ora. Ed è vero. Solo che non si tratta di extraterrestri, ma di abitanti del nostro stesso Pianeta, che partiti anche da molto distante, ritroviamo d’un tratto accanto a noi. L’ultimo avvistamento è di queste ore: nelle reti salpate dai bassi fondali del canale di Sicilia sono comparsi i primi esemplari di triglia tropicale. E’ un organismo che i biologi chiamami ‘lessepsiano’, perché, come tanti che ormai affollano il Mare Nostrum, arriva dal Mar Rosso attraverso il canale di Suez. In attesa di sapere che gusto ha, non è molto diversa dalla nostra, solo con un po’ più tozza e con qualche lieve differenza nella livrea. Una specie aliena che probabilmente c’era da tempo nell’ecosistema del Mediterraneo, ma è proprio questa facile clandestinità a confermare che intorno a noi sta accadendo qualcosa di molto vasto e complesso da capire: perché, e le due cose si tengono ben strette, non è solo il clima che è cambiato. Anche la natura non è più quella, poniamo, di vent’anni fa. Gli scoiattoli non sono più rossi e timidi, come una volta, ma bigi e sfrontati. 

Le specie alloctone

Le cimici verdi sono state quasi soppiantate da quelle beige, che paiono immortali come la loro puzza e capaci dl nutrirsi di qualsiasi parte vegetale e di forare addirittura il guscio delle nocciole per arrivare al seme. E le tartarughe d’acqua? Prima, quelle nostrane, schive e rare, quasi nessuno  le aveva mai viste. Ora sono molto più grandi, e ti scrutano affamate anche dai laghetti urbani. In realtà – occhio alla macchia rossa sul collo! – appartengono a un’altra specie, made in Lousiana. Aliene, appunto, proprio come le nutrie, i pesci siluri, i pappagalli e i granchi blu, per citare solo i casi più vistosi – e perniciosi – di un’Arca sconosciuta che si va riempiendo di giorno in giorno.

Le variazioni della fauna selvatica

Gli esperti li chiamano anche alloctoni, e distinguono. Se sono venuti contando solo sulle loro forze e risorse, come lo sciacallo, che partito dai Balcani si sta ‘allargando’ in Italia e in tutta l’Europa mediterranea, è un fatto naturale: si possono ritenere davvero alieni solo se è stato l’uomo a prelevarli, anche senza volere, nei territori d’origine, e a immetterli là dove, privi di nemici naturali, possono moltiplicarsi a volontà e causare danni enormi agli ambienti, all’economia, e anche alla salute, diffondendo nuovi patogeni. Come i virus trasmessi dalla Aedes Albopictus, o zanzara tigre, la cui esemplare vicenda Piero Genovesi, ricercatore dell’ispra e tra i nostri massimi esperti di fauna selvatica, riassume così, nel suo ‘Specie Aliene’, edito da Laterza: “Arrivata in un carico di pneumatici, ha portato con sè venti microrganismi responsabili di febbri epidemiche come Chikungunia e Dengue”. Anche gli invasori più grandi, però, possono essere ottimi veicoli di gravi malattie: la nutria, ad esempio, è associata alla temibile leptospirosi, tanto per chiarire che, al di là della simpatia che possono ispirarci questi grandi viaggiatori, siamo di fronte a un fenomeno gravissimo, al quale gli esperti addebitano, direttamente, o indirettamente, il 60 per cento di tutte le estinzioni degli ultimi decenni. Eppure, lo stiamo trascurando, prima di tutto perché non ci rendiamo conto di esserne responsabili, poi, perché è difficile da risolvere, infine, perché è talmente ambiguo da sfuggire alla definizione. In ogni caso, la distinzione tra esotico e alieno non è sempre così netta. Basta pensare al castoro, che sta arrivando naturalmente in nord Italia dal centro Europa, ma nel centro-sud è stato senza dubbio introdotto da una misteriosa associazione di animalisti inglesi, autori della medesima operazione clandestina in Gran Bretagna e in Belgio. 

La prevalenza del granchio blu

Ad aumentare l’imbarazzo dei biologi nel trattare la questione, c’è anche la scarsa conoscenza di queste specie straniere, confermata, ad esempio, dai dati più recenti sul famigerato granchio blu, specializzato nel cibarsi di molluschi bivalvi e dunque predestinato a infilare le potenti chele nell’economia alieutica. Dopo anni di allarme e di studio, s’è scoperto che questo crostaceo arrivato già un secolo fa dall’Atlantico americano, quindi non ‘lessepsiano’, ma esploso demograficamente tre anni fa nell’alto Adriatico, prospera benissimo non solo negli ambienti eurialini, quelli a ridotta salinità tipici degli estuarii, ma anche in un’acqua che più dolce non si può. Lo stanno trovando in quantità perfino nel Mantovano, quasi a metà del corso del Po. Paolo Varrella, biologo e allevatore di cozze e ostriche a Porto Venere, ne parla con la stizza dell’imprenditore danneggiato, ma anche con l’ammirazione del darwinista di fronte alla capacità di adattamento della specie: “Avevamo notato che, subito dopo le piogge, i nostri vivai brulicavano di granchi blu. Abbiamo indagato e ci siamo accorti che torrenti e canali dello Spezzino brulicano di femmine. Approfittano delle piene per farsi portare fino al mare, si accoppiano con i maschi, che preferiscono l’acqua salsa, poi depongono e se ne ritornano nell’entroterra”. Sulle uova deposte, altro mistero. Chi dice un milione e mezzo, chi fino a otto, oltrettutto anche due volte l’anno. Da uno a sedici, cambia molto…Tra le conseguenze biologiche negative di questa imprevista espansione ecologica, la più banale da prevedere è l’impatto sul suo omologo nostrano: il granchio d’acqua dolce mediterraneo, potamon fluviatilis, che ha eletto proprio queste acque tra Liguria e Toscana, i bacini del Magra e del Vara, tra i suoi ultimi rifugi nella Penisola. Quella che invece è già diventata una vera e propria emergenza, è la strage di vongole negli allevamenti del delta del Po veneto-emiliano, che fino al 2021 facevano dell’Italia il primo produttore europeo di questi bivalvi. A Porto Tolle, in provincia di Rovigo, nel 2024 il granchio blu ha divorato tutto il novellame, per un valore di circa 60 milioni di euro. Nella vicina Sacca di Scardovari il raccolto è passato da 10.762 quintali nel dicembre 2022 a 163 nel dicembre 2023 e non si è più ripreso. 

Il commissario per proteggere la filiera alimentare

Da qualche mese, il governo e le due regioni hanno nominato un commissario straordinario, il prefetto Enrico Caterino, e creato un fondo di dieci milioni di euro per risarcire gli allevatori, proteggere i vivai con barriere e reti, intercettare le femmine quando scendono verso il mare e smaltirle.  Ma la soluzione più promettente per liberarsi dal flagello sembrava indicarla il nome scientifico del granchio, Callinectes Sapidus: trasformarlo, cioè, in risorsa culinaria, sull’esempio della Tunisia che qualche anno fa lo lavora, lo confeziona e lo esporta in grandi volumi. Christian Maretti, presidente di Legacoop alimentare, fa il punto dei progetti: “Imprenditori turchi, greci e tunisini si sono fatti avanti per industrializzare la pesca del decapode”. Però non è tutto così semplice. “Lavorarlo meccanicamente, con il carapace duro e spesso che si ritrova, è impossibile: bisogna farlo a mano, e costa Quindi ci stiamo indirizzando per commercializzarlo semilavorato”. Insomma, si compra a pezzi, poi ognuno lo spadella come vuole. L’esempio lo hanno dato a reti, anzi, cucine unificate, il ministro competente – absit ironia verbis! – Francesco Lollobrigida e la stessa Giorgia Meloni. Maretti non sembra esplodere di entusiasmo per le grazie organolettiche di questo Elon Musk dei crostacei, ma tocca all’Ispra, la massima autorità nazionale sui temi ambientali, diluire di molto le speranze di trasformarlo in opportunità gastronomica. Dice Piero Genovesi: “La polpa anche negli esemplari più grandi – in media due su dieci – è poca, gli scarti inadatti alle farine animali, il sapore imparagonabile alle vongole, che oltretutto sono anche loro una specie aliena. Si tratta, infatti, della vongola filippina, che oramai ha soppiantato la nostra ‘verace’ in quasi tutto il Mediterraneo, e che a questa è quasi identica, se non per essere più grande e quindi più redditizia”.

I danni alla pesca

Redditizio, invece, il ‘blu’, per ora non è, puntualizza Valentina Tepedino, Medico Veterinario specializzata in prodotti ittici e direttore del periodico Eurofishmarket: “Il prezzo medio al dettaglio è di 6-7 euro al chilo. Per i pescatori è basso, rispetto a quanto guadagnavano dalle vongole, ma è molto maggiore degli analoghi prodotti tunisini”. Inoltre, mangiare il granchio blu è un’arma spuntata contro la sua mostruosa prolificità. Genovesi: “Nonostante ne peschino sempre di più, i danni aumentano e il problema si estende: ovunque si è cercato di sfruttare un alloctono a fini alimentari industriali, la sua presenza si è impennata, perché dagli allevamenti finiscono sempre per sfuggire degli esemplari, anche nelle minuscole fasi larvali, che poi colonizzano nuovi territori. E cita il caso di un altro crostaceo, il gambero della Louisiana. Il suo impatto sugli ecosistemi è molto pesante: preda molte specie d’acqua dolce, comprese i gamberi nostrani, e compromette le sponde con le le sue tane. 

Come integrare le nuove specie

Ma siccome è piuttosto buono al palato, si allevava sempre di più, e la mappa degli impianti coincideva con la sua comparsa in natura. Così, Bruxelles ne ha vietata la commercializzazione e ora i paesi partner dovranno chiudere i vivai”. Per il granchio blu lo stop europeo è stato rimandato, su richiesta italiana, ma intanto il decapode alieno colonizzando sempre nuovi litorali: alla stato attuale, la sua presenza preoccupa Puglia, Sicilia, Toscana e Sardegna. Se il piano di gestione si rivelerà utile nell’alto Adriatico, sarà esteso anche a loro, sebbene dall’università di Cagliari il biologo marino Piero Addis inviti alla calma, reclamando alla Scienza l’ultima parola: “Molto spesso le specie aliene esplodono subito, poi trovano anche loro dei fattori limitanti. Il più delle volte, si tratta gli stessi parassiti che li insidiavano nei territori originari e che li hanno seguiti a ruota”. 

Nel frattempo, il Veneto accarezza per il ‘C. sapidus’ un’altra destinazione gastronomica: quella di ‘moleca’, o ‘moeca’, come si chiama nel dialetto del Ruzante lo stadio in cui il granchio fa la ‘muta’, ossia si libera del carapace e resta nudo e tenero finché la nuova corazza non finisce di solidificarsi. E’ una prelibatezza della tradizione veneziana, che lo consuma fritto e a caro prezzo nella breve finestra del ricambio. Ovviamente, la ricetta riguarda il granchio di sabbia mediterraneo, ma il fenomeno è comune a tutti i crostacei, quindi anche al blu. “Ci stiamo pensando e studiando – ammette Maretti – ma è un piatto molto locale, quindi dovremmo prima farlo conoscere al grande mercato’’.

Continua

Maurizio Menicucci – Giornalista

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