Due episodi in questi giorni hanno raccontato una postura, come dire, psicologica, dell’Italia al cospetto dell’Europa ma, più in generale, delle relazioni internazionali.
Il primo, che forse rappresenta anche l’origine del secondo, almeno come premessa maggiore, è stata la lettera “risentita” della nostra presidente Meloni all’Europa, contenente l’inusitata replica alla “Relazione annuale sullo stato di diritto dell’Unione Europea”, in particolare con riferimento alla libertà d’informazione che viene ritenuta nel report europeo in deficit soprattutto sul versante della tv di Stato.
Il secondo episodio, invece, riguarda le Olimpiadi e la performance italiana che viene probabilmente percepita inferiore alle aspettative e perciò stesso giustificata con ragioni alquanto perplesse.
Partiamo dall’atteggiamento del governo nei confronti della relazione sullo stato di diritto pubblicata dalla Commissione Europea, che, in verità, non appare un inedito negli ultimi mesi, a partire dal dopo G7 di giugno.
La presidente del Consiglio, infatti, che aveva commesso l’errore di scambiare la consueta cortesia diplomatica degli ospiti nel resort pugliese in una conquista della legittimazione politica mondiale, senza tener conto del fatto che i rapporti tra governi si reggono su altre e diverse ragioni che non una gradevole ospitata e qualche pacca sulla spalla, ci rimase malissimo quando trovò la porta chiusa nelle trattative per il nuovo assetto degli equilibri politici europei.
La reazione fu dura e stizzita: il rifiuto di sostenere la nuova governance europea e il mancato voto ad Ursula Von der Leyen, non solo rese manifesta un’esclusione dai giochi che, a fronte della riproposizione di un format ( Ppe, Socialisti e Liberali ) consolidato da più legislature, stava in piedi-in teoria- senza bisogno di nuovi apporti, ma aprì varchi al gruppo dei Verdi, giudicato più agibile della destra conservatrice capitanata dalla Meloni, persino agli occhi dei popolari europei, notoriamente non amici intimi della ideologia ambientalista alla Greta Thunberg.
Naturalmente l’Italia avrà il suo Commissario Europeo nel nuovo governo della Von der Leyen bis, e sarà una delega proporzionata al peso demografico, economico e politico di un Paese fondatore. E allora perché quelle uscite fuori misura, che adesso, quale che possa essere l’esito finale, racconteranno ancora di una rincorsa dell’esclusa? Perché, appunto, la sindrome dell’esclusione sembra vincere su tutto.
Siamo in un tempo in cui la categoria del “politico” s’implica molto più del “personale” piuttosto che dell’ “Ideologico” e così ogni leader- sempre più egemone e sempre più insofferente alla collegialità- porta con sé nell’azione politica i suoi tic e i suoi tabù.
Nel caso di specie siamo di fronte ad una “sindrome da esclusione” di un polo, quello della destra post-almirantiana, che è stato sempre minoranza e sempre opposizione. Almeno fino alla discesa in campo di Berlusconi. Quella vita da oppositore senza rimedi, ha costruito un impianto politico e culturale, una modalità diventata elemento costitutivo della weltanschauung di Giorgia Meloni che, pur essendo il Primo Ministro di uno dei primi sette paesi del mondo, continua a restituire con la sua prosa, con le sue dichiarazioni informali ma anche ufficiali, col suo continuo polemizzare e rintuzzare ( dai conflitti verbali con Chiara Ferragni alla celeberrime cadute di gusto con De Luca), un che di stizzito che non si addice ad un capo di governo.
Certo: ognuno ha il suo stile, ma c’è uno standard che dovrebbe superare il “personale” per attestarsi all’interno di un canone attento agli interessi del Paese che si rappresenta, piuttosto che assecondare l’effimera soddisfazione di una battuta. Che non cambierà certamente in meglio la capacità negoziale del Paese rappresentato.
Di notevole c’è la contaminazione della sindrome dell’assedio: abbiamo ascoltato i cronisti sportivi della Rai alle Olimpiadi di Parigi che si lamentavano degli arbitraggi contro l’Italia, come fosse un passaparola di cospiratori contro gli azzurri, contando ben otto direzioni di gara condotte in danno dei nostri atleti.
In fondo condividere la stessa sindrome della premier da parte della Rai rappresenterebbe una conferma delle accuse mosse nel report della Commissione alla sottomissione della tv di Stato al governo. Eppure una bella lezione di stile e di diplomazia ci viene proprio da Filippo Macchi, il fiorettista che ha perso l’oro in finale per un arbitraggio incriminato, che ha detto: “Ci sarà tempo per tornarci sopra per capire gli errori che ho fatto e cercare di migliorare ancora di più”, chiarendo al mondo che la medaglia d’argento comunque “ si merita gioia e felicità e quindi smaltiamo la delusione, che è tanta, e godiamoci ciò che è stato”.
Non male per un ragazzo di 22 anni che ha vissuto gli ultimi quattro chiuso nelle palestre a prepararsi per quella finale.
Pino Pisicchio – Professore di Diritto pubblico comparato. Deputato in varie legislature, presidente di commissione e capogruppo. Già sottosegretario. Saggista