Siamo una “società della conversazione” o una “società del silenzio”?

Forse c’è una terza via. "Siamo social ma non socievoli". La lezione di Le Bon: nella massa il singolo si deresponsabilizza e fa emergere il peggio di sé. Così nel social media. La creatività si sviluppa nel dialogo, nella conversazione. Ma se questi languono?

Lo storico siciliano Virgilio Titone distingueva tra le “società della conversazione” e le “società del silenzio”.

Le prime sono aperte al dialogo, al confronto e, in genere, alle relazioni espansive: ci si incontra e ci si parla anche tra sconosciuti senza remore, ci si scambiano opinioni sui fatti di maggiore e minore rilievo della quotidianità. Le seconde sono chiuse, segnate da diffidenza e ostilità: ci si guarda gli uni con gli altri quasi in cagnesco, è assente la fiducia nel prossimo, si hanno rare frequentazioni circoscritte ai nuclei familiari o ai pochi intimi.

Nelle “società della conversazione” – quali sono state quelle dell’impero romano o dell’età illuministica – prosperano le attività economiche e, con esse, quelle artistiche e culturali, al contrario che nelle “società del silenzio” dove tutto ristagna. Le comunità mafiose sono un esempio tipico di “società del silenzio”: i centri dove è più avvertita la presenza di “Cosa nostra” o della “Ndrangheta” sono soffocati da una cappa di taciturna diffusa sospettività.

Riassunte le osservazioni di uno studioso oggi colpevolmente dimenticato, ci si chiede: la nostra è una “società della conversazione” o una “società del silenzio”? Domanda da mille punti perché non è per nulla facile rispondervi.

La risposta più immediata appella i social. Si moltiplicano gli strumenti di comunicazione, e perciò, verrebbe da dire, viviamo in una “società della conversazione”. Tramite Facebook, i più giovani Instagram, i professionisti Linkedin, si fanno tantissime conoscenze prima inimmaginabili. Internet inoltre amplia gli orizzonti del sapere. Con Google e altri motori di ricerca si ha accesso a una miriade di informazioni, anche le più capillari.

Se pensiamo alla musica oggi, con un colpo di clic, ascoltiamo brani di classica, jazz, pop che una volta si trovavano, quando si trovavano, con tempo e fatica nel mercato del vinile, dei cd e dei dvd. Navigando sul web si visitano tutti i musei del mondo. Per limitarci a pochi esempi esplicativi di quanti limiti abbiano superato le frontiere del sapere grazie all’innovazione tecnologica.

Anche l’economia, e tutto ciò che vi gira attorno, si giova dall’azzeramento delle distanze, o comunque dal loro significativo ridimensionamento, in un mondo governato dalla tecnologia più avanzata che galoppa verso la più estesa globalizzazione.

Conoscere l’inglese è diventato necessario perché lingua universale per comunicare intrecciandosi relazioni, non solo economiche, che valicano i confini del proprio Paese. Negli studi universitari tutte le facoltà impongono la lingua di Skakespeare la cui padronanza un tempo costituiva prerogativa delle élites culturali.

Detto ciò, sopravvengono altre riflessioni.

I social ampliano le sfere relazionali sotto un profilo che non esiteremmo a definire meramente quantitativo. In altri termini, Facebook, Instagram, Linkedin, ci consentono di entrare in contatto con innumerevoli persone senza però farne effettiva conoscenza, se non in limitatissimi casi. Di contro, la vita sui social limita quella reale: spariscono nei paesi i circoli ricreativi, le associazioni ovunque si riducono, si preferisce rimanere a casa dinanzi a un pc piuttosto che uscire.

I giovani soprattutto s’incontrano sempre di meno, più in chat che nei luoghi fisici. Fenomeno aggravato dalla pandemia. Accade perfino che persone che solitamente interagiscono sui social quando s’incontrano per strada si salutano appena o non si salutano affatto, come se i due mondi – quello virtuale e quello reale – si ponessero su due livelli distinti e paralleli.

Altro aspetto riguarda l’utilizzo (frequente) dei social per rimostranze, polemiche, sfoghi, litigi. Trattandosi di una piazza, seppure virtuale, i toni si amplificano, si allentano i freni inibitori, si abbassano i livelli – talvolta fino ad azzerarli – dell’autocontrollo.

È questo però un discorso vecchio che chiama in causa un pensatore messo da parte, quel Gustave Le Bon con cui sul finire del XIX secolo è nata la psicologia sociale. L’uomo-folla – diceva Le Bon – esprime il peggio di sé: è l’uomo ridotto nei suoi minimi comuni denominatori. Sentendosi garantito dalla presenza degli altri – della loro massa informe -, si deresponsabilizza, e la presenza della moltitudine aggregata dalle più becere inclinazioni induce fenomeni imitativi. Il che spiega i cori razzisti negli stadi ai quali partecipano anche chi razzista non è. Qualcosa di simile si verifica nei social.

Pertanto, alla luce di ciò, oggi la comunicazione e, con essa, la vita di relazione, crescono quantitativamente ma decrescono qualitativamente. Siamo  social ma assai poco socievoli e anzi ci riveliamo scorbutici e poco predisposti a rapportarci con gli altri.

La globalizzazione e il progresso tecnologico disegnano un quadro internazionale in cui predomina la cooperazione tra i popoli con benefici per un’economia che moltiplica le ricchezze e le distribuisce equamente?

Non pare, e ce lo dimostrano, oltre i tanti conflitti che ancora insanguinano il mondo, l’invasione russa dell’Ucraina che ci ricorda, agli albori del Terzo Millennio, come la guerra non costituisca in Europa un ricordo del secolo scorso ma una prospettiva presente e futura. Il progresso si arresta dinanzi a invalicabili ostacoli e non è accompagnato da quel processo di civilizzazione in cui Freud riponeva le speranze – seppure con molte riserve – di un futuro senza guerra, come si legge nel suo carteggio con Einstein del 1933.

Di distribuzione equa della ricchezza neanche a parlarne: al contrario, la ricchezza tende ad accumularsi in pochi e i poveri aumentano.

Tutto ciò non favorisce la produzione letteraria e artistica e nemmeno la scienza. D’altra parte è tangibile come in letteratura, musica, architettura, arti figurative la creatività langue, non solo in Italia. Tali discipline fioriscono in un contesto universale dialogante, che evidentemente manca malgrado le innovazioni tecnologiche e digitali, nonostante la rete che connette da un estremo all’altro dei continenti.

“Società della conversazione” o “società del silenzio” dunque quella in cui stiamo vivendo? Forse nell’una né l’altra, ma società del frastuono. Un frastuono che devia i flussi di comunicazione a dispetto della loro molteplicità e della potenziale ricchezza dei suoi canali.

 

Antonino Cangemi – Giornalista, scrittore

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