Da che mondo è mondo all’inizio dell’anno scolastico maestri e professori hanno sempre fatto progetti. Progetti ora prudenti, dettati da una senile rassegnazione, ora animati dal giovanile ardore di chi pensa di poter cambiare la scuola, gli alunni e con essi il mondo. C’era chi, sulle orme del professor Keating, pensava di poter divenire il “capitano” dei suoi studenti, infondendo in loro l’amore per l’arte e la poesia, e chi sperava di trascorrere in maniera indolore i mesi che lo separavano dall’agognata pensione. Fra l’uno e l’altro estremo, c’era la massa dei docenti che si poneva obiettivi minimalistici, ma non sempre di facile raggiungimento: insegnare agli alunni delle elementari a scrivere in corsivo e senza troppi errori di ortografia, familiarizzare in due anni alunni del ginnasio usciti dalle medie digiuni di latino con la morfologia e la sintassi di due lingue ingiustamente definite “morte”, o magari, come nel caso di certi insegnanti di istituti “di frontiera, fare uscire indenni gli studenti e possibilmente se stessi allo squillo dell’ultima campanella.
Si trattava di progetti maturati nel foro interiore della coscienza, o tutt’al più palesati a mezza voce nel corso delle riunioni di programmazione all’inizio dell’anno scolastico. Per il resto, la loro realizzazione era lasciata alla coscienza e alle capacità dell’insegnante. Da almeno una ventina di anni, però, la situazione è cambiata. Nelle sale insegnanti sono sempre più diffusi i virus di una nuova patologia didattica: la progettite. Fra presidenze, consigli d’istituto, collegi dei docenti, consigli di classe è tutta una fioritura di progetti volti ora a integrare, ora a condizionare l’attività didattica. In una scuola che fatica a raggiungere i suoi obiettivi essenziali, si tratti di insegnare a leggere, scrivere e far di conto alle elementari, o di mettere gli alunni dei licei in grado di leggere metricamente un distico elegiaco, dilaga la fiera dei buoni sentimenti, fatta di progetti interdisciplinari che comportano un’ulteriore erosione del tempo disponibile per il raggiungimento degli obiettivi primari.

Il proliferare di esperti esterni nella scuola
I motivi di questa proliferazione sono diversi, alcuni idealistici, altri decisamente pragmatici. Le grandi trasformazioni conosciute dalla scuola nel corso del nuovo secolo inducono molti insegnanti a chiedere soccorso a esperti esterni per affrontare problematiche un tempo assenti o sottovalutate. Occorre aggiungere che, anche se l’età media dei docenti italiani rimane elevata (51 anni, contro i 46 della Germania e i 43 della Francia), nel circuito dell’insegnamento sono entrati comunque molti giovani con una formazione diversa rispetto al passato. Sino all’alba del nuovo millennio chi insegnava alle medie o alle superiori – a parte il caso delle maestre laureate nelle facoltà di Magistero – non aveva una preparazione pedagogica specifica. I concorsi e gli esami di abilitazione valutavano essenzialmente la conoscenza delle materie che i candidati avrebbero dovuto insegnare. Era ancora in vigore l’antica massima rem tene, verba sequentur: sii padrone della materia, le parole verranno da sé. Si usciva da quattro o cinque anni di università e si finiva catapultati in una classe, dove si cercava in genere di insegnare prendendo a modello i professori che avevamo avuto al liceo, o almeno quelli che ricordavamo con simpatia.
Gli insegnanti entrati in ruolo più di recente hanno dovuto seguire dopo la laurea corsi aggiuntivi: prima le cosiddette Siss, scuole di specializzazione all’insegnamento secondario, ora i cosiddetti Cfu, crediti formativi universitari, in cui è presente una vasta componente pedagogica. La figura del vecchio professore geloso della propria autonomia e diffidente di ogni intromissione esterna è da tempo declinata. Lo stesso concetto costituzionale di libertà di insegnamento viene sempre più coniugato in forma collegiale, e non è detto che sia un bene: l’autonomia scolastica, rivendicata dai dirigenti scolastici, rischia di limitare la libertà d’insegnamento del singolo docente, sempre più condizionato dalle pressioni ambientali. I progetti, che prevedono la collaborazione fra insegnanti delle più diverse discipline, sono accettati da molti professori più per amor del quieto vivere che per intimo convincimento.
Chi organizza i progetti non lo fa gratis
A questo occorre aggiungere un aspetto meno nobile, ma tutt’altro che trascurabile, del fenomeno. Chi organizza e gestisce i progetti, non lo fa a titolo gratuito; i dirigenti scolastici tra l’altro hanno diritto a una percentuale sui fondi spesi. Paradossalmente, se l’amministrazione pubblica è spesso vergognosamente sparagnina nel finanziare le scuole, negando il buono pasto agli insegnanti costretti a rimanere fuori casa tutto il giorno per le riunioni pomeridiane, i progetti, finanziati da fondi statali ed europei, oltre che dalle risorse del Pnrr, sono relativamente ricchi e assicurano una remunerazione aggiuntiva a chi li promuove o comunque se ne fa coinvolgere.
Certo, i 70 euro orari lordi previsti per un formatore e i 30 per un tutor non sono molti; però sono ugualmente ambiti, visti i bassi stipendi del comparto scuola, e anzi la loro distribuzione è stata a volte oggetto di un contenzioso in taluni casi anche giudiziario. Intanto, la scuola ha superato l’Esercito nella capacità di partorire sigle di ardua decifrazione: al Pao (Picchetto Armato Ordinario), reso celebre da un romanzo di Pier Vittorio Tondelli, si è sostituito il Pon (Programma operativo nazionale), i Pof (Piani dell’offerta formativa), il Dsga (Direttore dei servizi generali amministrativi, ex segretario), il Pei (Piano educativo individualizzato), le Fs (Funzioni strumentali) i Bes (Bisogni educativi speciali), l’Ad (Animatore digitale), per non citare che gli acronimi più noti.
Ma tanti progetti servono davvero?
Questioni contabili e sigle ermetiche a parte, sarebbe interessante verificare l’effettiva utilità di molti progetti, che possono essere promossi da università, Regioni, enti locali, onlus, spesso ovviamente interessati anche da un punto di vista economico alla loro realizzazione. Analizzarli uno per uno sarebbe arduo; quello che colpisce, però, nella loro formulazione, è un reiterarsi di parole chiave, espressione di quella che i francesi chiamano “langue de bois”. Questa, come la definisce il dizionario Robert, equivalente gallico del nostro Zingarelli, è il “linguaggio stereotipato e consensuale della propaganda politica, un discorso un po’ vuoto che mira a piacere al maggior numero di persone possibile”. E in effetti, da un’analisi dei titoli di buona parte dei progetti scolastici, si avverte il ricorrere di una serie di espressioni, spesso calchi di altre lingue, che in pochi hanno il coraggio di contestare e che nella loro vaghezza si prestano alle più diverse interpretazioni: inclusività, resilienza, multiculturalità, sostenibilità, compatibilità ambientale, circolarità, educazione alla cittadinanza globale. Alcuni progetti propongono anche a studenti delle superiori attività da giovani marmotte, come il ricircolo del vetro, altri nutrono aspirazioni più ambiziose, in materia di cittadinanza digitale o di educazione finanziaria. Né mancano proposte stravaganti, come quella di introdurre l’insegnamento della filosofia sin dalle elementari, nell’età in cui la fantasia prevale sul pensiero razionale, trasformando gli scolaretti in tanti Socrate in erba…
Il caso emblematico, l’educazione sessuale
Nessuno nega che alcune tematiche sollevate possano presentare una loro validità; molti progetti, però, rischiano di rivelarsi una dispersione di denaro e anche di tempo, in una scuola dove i docenti coscienziosi stentano non per loro colpa a raggiungere gli obiettivi prefissi. In certi casi, poi, si rischia di non trovarsi di fronte solo a uno spreco di risorse economiche e umane, ma a qualcosa di più inquietante: il tentativo di aggirare il ruolo della famiglia in materie sensibili come l’educazione sessuale. Proprio il dilagare di questi progetti ha indotto il ministro Valditara non a una censura, ma a una limitazione abbastanza ovvia: l’obbligo del consenso scritto delle famiglie per consentire la partecipazione dei figli a “tutte le iniziative dove si afferma che non esisterebbe un codice binario uomo/donna”. Non si tratta, quindi, di lasciare i genitori liberi di far credere ai figli che i bambini li porta la cicogna: a spiegare come vanno le cose ci pensano già gli insegnanti di scienze. L’obiettivo è stato semmai consentire a chi non condivida le teorie del gender di sottrarre i figli a quella che considera una forma di indottrinamento. E che in certi casi effettivamente rischia di esserlo.