Scordamaglia: sovranità alimentare non significa autarchia

Intervista al consigliere delegato di Filiera Italia su vari temi: approvvigionamento alimentare, sui prezzi dal produttore alla grande distribuzione, sui flussi migratori, carne sintetica

“L’Italia deve aumentare il proprio livello di autosufficienza alimentare. Difendere la produzione significa tutelare tipicità e territorio rispetto all’alimentazione omologata globale che spesso proviene da multinazionali travestite da start up. Non è una visione di sinistra o di destra, ma di buon senso. E il primo campo di battaglia è l’Europa”.

Luigi Scordamaglia, calabrese, manager di lungo corso con incarichi nel settore agroalimentare (Inalca Spa, Assocarni, Consorzi Agrari, Agroenergy etc), oggi è anche consigliere delegato di Filiera Italia, associazione che unisce la produzione agricola di Coldiretti (la maggiore realtà europea con 1,6 milioni di iscritti) alle principali industrie alimentari italiane ad alcune più significative catene di distribuzione organizzata.

Un’alleanza recente e finora inedita volta a difendere le eccellenze del Made in Italy e a combattere le distorsioni del mercato. Scordamaglia si sofferma sui fronti più importanti, dal Nutriscore alla lotta contro la carne sintetica: “Io dico: dobbiamo contrastare la disinformazione, non chiamiamolo cibo pulito e smettiamo di ingannare i cittadini”. E in merito alla recente manovra commenta: “Oggi il problema principale per la filiera produttiva è trovare il personale. Bene quindi le misure specifiche in manovra sul lavoro in agricoltura ottenute, così come la modifica del reddito di cittadinanza che tutela chi non può lavorare ma non mantiene invece coloro per i quali è possibile far incrociare domanda/offerta, ma anche la riflessione avviata su un decreto flussi che consenta la pianificazione e la formazione dell’immigrazione di cui abbiamo assoluta necessità”.

Tra le novità di questo governo c’è il ministero della Sovranità Alimentare. È la scelta giusta? E al di là della formula cosa deve cambiare nella politica agroalimentare?

Intanto chi associa la sovranità alimentare all’autarchia non conosce la genesi di questa formula, che nasce come proposta alla Fao negli anni Sessanta per difendere la tipicità alimentare ed è stata poi rilanciata da Carlin Petrini. Oggi si tratta di sottolineare la deriva della crisi di un modello di globalizzazione senza regole che ha fatto pensare di poter smantellare sistemi di beni essenziali, alimenti di prima necessità, energia. Credere di poter comprare à la carte in giro per il mondo ha generato rischi di dipendenza da Paesi poco democratici.

Le crepe in questo modello sono state causate dal covid o dalla guerra?

Prima dall’uno e poi dall’altra. Soltanto quest’anno 73 Paesi hanno introdotto misure restrittive all’export – penso al grano – creando una situazione di insicurezza alimentare globale. Il risultato è che nei Paesi poveri il numero di chi ha fame è salito a un miliardo di persone mentre in quelli evoluti sono esplosi i prezzi e di conseguenza le diseguaglianze.

Esiste davvero uno schema alternativo?

Bisogna aumentare l’autoapprovvigionamento alimentare. Per l’Italia difendere la produzione significa tutelare tipicità e territorio rispetto all’alimentazione omologata globale. Non è una visione di sinistra o di destra. Non si tratta di autarchia bensì di un’apertura al commercio internazionale equo con regole uguali per tutti. Cito un dato: al mondo oggi ci sono scorte di grano per soli 130 giorni, e quelle per 100 giorni sono detenute dalla Cina, dove l’ultimo documento del partito di Xi ha fissato la food security tra le priorità.

Insomma, bisogna difendersi. Ma la prima linea del fronte è l’Italia o l’Europa?

Assolutamente l’Europa. Dall’avvento dell’Ue il settore agroalimentare è quello più armonizzato e regolamentato da regole comuni. L’inversione di tendenza deve per forza avvenire lì. Mentre una transizione verde ideologica invece che concreta e competitiva potrebbe portare a smantellare una filiera agroalimentare che per fatturato e dipendenti rappresenta il primo settore produttivo europeo. Attenzione perché l’Europa rischia di trasformarsi in un giardino improduttivo con danni all’economia ma anche a consumatori e all’ambiente.

Cosa c’è di male nella tensione verso un’alimentazione più sostenibile per il pianeta e magari anche per le tasche dei cittadini?

Niente, ma bisogna essere pragmatici. Se smetti di produrre in Europa non si smette di mangiare: semplicemente la produzione si sposta in Paesi più inquinati e soggetti a minori standard di sicurezza alimentare ed ambientale, che esportano i prodotti di qualità e sicurezza più bassa. Il rischio è che le famiglie meno abbienti mettano in tavola molte schifezze.

Una battaglia aspra si è combattuta sul Nutriscore, il sistema di etichette a semaforo che penalizzerebbe prodotti come olio d’oliva e formaggi freschi. L’Italia ha ottenuto un importante rinvio dell’entrata in vigore. Diciamoci però le cose come stanno: le regole Ue sono frutto del gioco di interessi contrapposti, chi è più forte vince?

Ovviamente anche in Europa, come ovunque, si negozia. Sul Nutriscore l’Italia ha avuto due avversari. Da un lato Paesi del Nord Europa che non colgono a pieno la distintività e il valore culturale del cibo. Penso in particolare alla proposta di penalizzazione del vino che mette sullo stesso piano l’uso e l’abuso. Ma a cavalcare strumentalmente questa visione è un pugno di multinazionali che vuole immettere in commercio prodotti pieni di chimica, iper-trasformati ed ora anche sintetici.

Si riferisce a barrette proteiche e beveroni dietetici?

Invito i consumatori a guardare le etichette prima di mettere un prodotto nel carrello, che sia uno yogurt magro o una merendina o gelato o altro: se ci sono decine di ingredienti artificiali, non è vero che si tratta di un cibo healthy solo perché magari è senza zucchero… Oggi si è aperta un’altra frontiera, quella della carne e dei cibi sintetici. Negli Usa sono già stati autorizzati pollo e formaggi totalmente fatti in laboratorio mentre è in arrivo il via libera per pesce, uova e persino olio.

D’istinto fa paura, è vero. Però gli allevamenti intensivi di bovini rilasciano milioni di litri di gas metano nell’atmosfera, contribuendo all’aumento del buco dell’ozono. La carne sintetica non può giovare a un pianeta che ha toccato la soglia degli 8 miliardi di abitanti?

McKinsey ha stimato in 25 miliardi di dollari gli investimenti nel settore di queste multinazionali che vogliono spacciarsi per start up. Buona parte di questi soldi va in una capillare opera di disinformazione che tende a omettere i dati scientifici sugli effetti negativi di questi prodotti sintetici per l’organismo umano e per l’ambiente, ben maggiori rispetto ai prodotti naturali. Intanto, le cellule indifferenziate della carne sintetica vengono cresciute in un brodo di ormoni e antibiotici con un mix di cui nessuno conosce gli effetti a lungo termine. In secondo luogo, i bioreattori in cui le cellule vengono coltivate son altamente energivori ed emettono Co2 che a differenza del metano animale non permane nell’atmosfera 15 anni bensì migliaia. Io dico: comunichiamo tutto questo al consumatore, rendiamolo consapevole, non chiamiamolo cibo pulito e vedremo se i cittadini saranno favorevoli.

È stato chiaro. C’è un’altra obiezione però: non ci si può svenare per la spesa di qualità. È notizia recente che gli agrumi marciscono sugli alberi, perché dal fruttivendolo costano 2,50 euro al kilo ma agli agricoltori rendono 20 centesimi. Quanto incide e come si combatte la speculazione?

L’eccessivo ricarico dei prezzi nel passaggio dagli agricoltori alla grande distribuzione è legato a più fattori. Difficoltà logistiche tutte italiane: penso alle inefficienze del sistema di trasporti per nave, treno, tir, ma anche a filiere con troppi intermediari. Per questo noi incentiviamo i contratti di filiera lungo tutta la supply chain tra produttori agricoli e distributori con prezzi trasparenti e un margine garantito per tutti che con committment di lungo termine aiuta a combattere la speculazione. A livello globale poi servono impegni contro chi specula finanziariamente, per esempio con i derivati su beni alimentari. Mi lasci sottolineare però un principio: per chi acquista il cibo deve avere il giusto valore, non può essere sottovalutato.

Ultima domanda. Alle aziende agroalimentari serve più un decreto flussi sull’immigrazione o una stretta al reddito di cittadinanza?

Sarebbe assurdo dover scegliere. Servono allo stesso modo un intervento sui flussi che consenta una migliore pianificazione dell’immigrazione ordinata da formare e una modifica del reddito di cittadinanza nella parte in cui regola l’occupabilità. Si tratta di obbligare ad accettare la prima offerta, coinvolgendo nel matching domanda offerta anche i privati, disciplinando la formazione e magari supportando per chi deve gli spostamenti geografici. E le misure della manovra sembrano andare proprio in tal senso.

 

Federica FantozziGiornalista

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