Apriva le schede delle elezioni presidenziali e le passava al presidente della Camera, che leggeva il nome. Mauro Zampini è entrato alla Camera dei Deputati nel 1969, ne è diventato il Segretario Generale nel 1994 e lo è stato fino al 1999. Alla corsa al Quirinale ha assistito diverse volte. Ora nutre alcuni dubbi sull’eventualità che Draghi, attuale presidente del Consiglio, possa salire al Colle. Lo abbiamo intervistato.
Quali perplessità ha sull’ipotesi che Draghi venga eletto al Colle?
Draghi ha i titoli per fare sia il presidente della Repubblica sia il presidente del Consiglio. Le mie perplessità non nascono sulla persona di Draghi, ma sul motivo per cui si vorrebbe mandarlo al Quirinale. Che non è quello classico che caratterizza il presidente di una Repubblica parlamentare: ovvero la rappresentanza del Paese, la tutela della Costituzione, l’interesse nazionale. Chi lo vuole mandare al Quirinale lo fa perché continui la sua opera di Governo, ma ciò è una forzatura della Costituzione. Perché il capo dello Stato deve essere il supervisore della politica italiana e il tutore dei diritti delle minoranze. Trovo poi che i requisiti professionali di Draghi siano più vicini a quelli di un capo del Governo che non di un tutore della Costituzione.
Sabino Cassese potrebbe essere un candidato?
Vedo Sabino Cassese tutti i giorni indicato come costituzionalista. Lui non lo è mai stato, è un professore di diritto amministrativo: lo dico con tutto il rispetto per la persona e per i suoi innegabili meriti. Però, pur essendo convinto che l’età non è una variabile importante, se dobbiamo andare sulla competenza giuridica accompagnata da un’esperienza politica ci sono altre persone.
Ad esempio?
Una persona che somigli a Mattarella. Nel 2015 Renzi ne propose due: Mattarella e Giuliano Amato, che tra i due era favorito. Poi, per un motivo politico (Renzi immaginò che su Amato ci fosse un accordo politico tra Berlusconi e D’Alema), l’allora presidente del Consiglio scartò Amato e puntò su Mattarella. Ma sono due persone ugualmente idonee.
Quali ricordi ha delle elezioni presidenziali in cui è stato presente?
Alcune sono state molto brevi, altre, come quella di Leone, lunghe. Fu eletto il 24 di dicembre 1971, eravamo convinti di passare il Natale a contare i voti. Ma quello che ricordo di più – visto il contesto in cui si svolge questa elezione, in cui i partiti sembrano delle società segrete che non riescono a dire un nome e dove la trasparenza è totalmente assente – è Marco Pannella che, a ogni elezione, chiedeva che in Parlamento ci fosse un dibattito tra partiti sul chi sarebbe potuto essere capo dello Stato, presentando le loro candidature e discutendone. Sarebbe un esempio di trasparenza.
Momento più difficile?
È stato tutto abbastanza tranquillo. Non è come adesso dove non si capisce quale nome possa venir fuori. I candidati, un tempo, erano della Democrazia Cristiana (almeno fino a quando non è arrivato Pertini). I democristiani erano noti; la sorpresa, invece, era vedere la lotta tra le correnti: tanto è vero che i candidati favoriti quasi mai sono riusciti ad andare al Quirinale (come Fanfani, Andreotti, Forlani). Molti considerano le correnti un fatto negativo. Ma visti i partiti oggi, la monocraticità e la compattezza, allora dico: “viva le correnti”. Un partito che decide di non avere correnti non è democratico.
Sulle modalità di elezione per i positivi, con il drive in nel parcheggio di Montecitorio, cosa pensa
Si sarebbe potuto votare anche da luoghi remoti. La tecnologia è in grado di dare garanzie che quel voto l’ha espresso quella persona.
Per chi non può votare perché non ha il Green pass cosa pensa?
Dal punto di vista costituzionale, come non posso guidare la macchina senza la patente perché potrei essere un rischio per la comunità, allora anche una persona che può contagiare le altre va isolata.
Alessandro Rosi – Giornalista