Questione anche di colori. Come il Rosatellum ha stinto anche la Toscana rossa

“Ma è da almeno dieci anni che il rosso toscano è andato sbiadendo”.

La battuta di Federico Palmaroli, anima e voce delle “Più belle frasi di Osho” e protagonista della satira politica italiana, è fulminante e senza appello: una foto di Dario Franceschini ed Enrico Letta in un sito archeologico commentata dalla frase “Qui ‘na vorta era tutto Pd”.

Ma per i palati fini l’ambientazione migliore di quella foto sarebbe stata in un qualsiasi luogo della Toscana. La ex regione “rossa” che adesso il voto del 25 settembre ha ridotto ad una macchietta vermiglia solo in coincidenza con l’area del suo capoluogo sulla mappa dei risultati elettorali: ora è quasi “tutto centrodestra”. La sorpresa uscita dalle urne è tuttavia relativa.

Con l’ultima e recente tornata di voto amministrativo sono infatti saliti a sette su dieci i capoluoghi di provincia governati dall’alleanza tra FdI, Lega e FI. Gli unici tre guidati dal centrosinistra sono Firenze, Prato e Livorno.  Ed i segnali non erano mancati neanche per almeno due dei tre superstiti. Livorno ha eletto nel 2019 il sindaco Pd Luca Salvetti dopo l’intervallo del governo cittadino a Cinque stelle che aveva interrotto una continuità del centrosinistra dal 1946, producendo incrostazioni di potere e di controllo economico e sociale impossibili da sostenere oltre.

L’esempio più plastico è stata l’impossibilità per il Gruppo Esselunga di aprire un negozio nella città dei Quattro Mori fino a pochi mesi fa, e solo dopo che una modifica urbanistica da parte della giunta guidata dal grillino Filippo Nogarin aveva messo fine ad un braccio di ferro che durava da 20 anni e del quale anche il patron del gruppo italiano della grande distribuzione, Bernardo Caprotti, aveva parlato diffusamente nel suo libro “Falce e carrello”.

Prato, sempre nel 2019, si addormentò leghista e si svegliò con la conferma del sindaco di centrosinistra, il Pd Matteo Biffoni: nello stesso giorno lo stesso corpo elettorale aveva premiato in modo massiccio la Lega di Matteo Salvini alle elezioni europee e scelto contemporaneamente di affidarsi ancora al primo cittadino di centrosinistra nelle votazioni di maggiore prossimità per gli amministrati pratesi.

Ma la riconquista o il mantenimento del primato comunale del centrosinistra non è servito granché: alle elezioni politiche del 25 settembre nei rispettivi collegi di cui fanno parte i due capoluoghi, il centrodestra ha fatto man bassa nei duelli in cui sono caduti candidati di peso del Pd come Andrea Romano, Stefano Ceccanti, Andrea Marcucci e Tommaso Nannicini.

Per Firenze, capoluogo regionale ormai assediato dall’onda blu del centrodestra, il ragionamento si presenta molto più complesso e per ora è possibile individuarne qualche frammento, tra cui la capacità del Pd cittadino e della giunta guidata da Dario Nardella di riuscire a tenere salda la mano su ceti sociali importanti come quelli di commercianti ed albergatori, strategici in una città la cui la vulgata (ma soltanto quella) attribuisce al solo turismo la possibilità di sopravvivenza della città. E poi la “fedeltà” di un blocco sociale omogeneo ed in gran parte legato alla pubblica amministrazione e alle sue diramazioni, infine una tradizione che solo sbrigativamente si può definire ideologica che incrocia il cattolicesimo del dissenso, la tradizione azionista e le istanze più radicali della sinistra: queste ultime hanno aggiunto nella sola Firenze la loro percentuale che sfiora l’8% al 30% del Pd.

Ma il profilo del radicamento del centrosinistra riguarda tutta la città metropolitana, che si estende fino all’Empolese-Valdelsa, e soprattutto quella che gli economisti chiamano area del “sistema del lavoro” e cioè i comuni più vicini al capoluogo, come Sesto Fiorentino che ha, già al suo secondo mandato, il sindaco di sinistra-sinistra Lorenzo Falchi.

In questo quadro non hanno avuto problemi a prevalere i candidati della coalizione di centrosinistra, tra cui Ilaria Cucchi. Tuttavia qualche scricchiolio si sente anche in questa apparentemente solida impalcatura: il sindaco Pd di Campi Bisenzio Emiliano Fossi, dimessosi per candidarsi alle politiche, è stato eletto alla Camera, ma nel Comune che ha guidato per quasi due mandati il voto ha incoronato FdI come primo partito. Neanche Matteo Renzi è stato profeta in patria: a Firenze Italia Viva e Azione hanno raggiunto il 10%, con un successo personale dell’assessora regionale Stefania Saccardi che ha ottenuto il 15%, di fatto ponendo un’ipoteca anche sulla candidatura per chi tra due anni dovrà sostituire il sindaco Nardella.

Ma in Toscana l’alleanza con Carlo Calenda è rimasta ad una percentuale sotto le due cifre, il 9%, ma soprattutto due punti sotto il risultato raggiunto dal M5s: un l’11% che lo posiziona davvero come “terzo polo” anche in Toscana dove le percentuali non sono mai stati vicine a quelle ottenute dal movimento a livello nazionale. Ma il vero “tesoro” elettorale del centrodestra a trazione meloniana è, ormai consolidato, nelle aree finora considerate più periferiche della regione, quelle che hanno consentito il sorpasso sul centrosinistra sia nel numero dei collegi uninominali vinti, 10 su 13, sia in termini percentuali inimmaginabili prima, con il 38,5% ad un centrodestra che ha staccato di quattro punti il centrosinistra nel voto per la Camera (al Senato la forbice è più larga): una percentuale vicinissima a quel 40% che in Toscana consente di eleggere il governatore senza ricorrere al ballottaggio previsto dalla legge elettorale regionale.

Il record di consensi ottenuto dal centrodestra alle regionali toscane resta comunque quello del 2000, quando Altero Matteoli superò di qualche decimale il 40%, ma allora la norma del ballottaggio non era stata ancora introdotta e a Claudio Martini del Pd fu più che sufficiente il suo quasi 50% per accedere direttamente alla guida della Regione.

La storia del successo del centrodestra alle politiche è dunque cominciata da lontano, ma è nell’ultimo decennio che la conquista progressiva dei capoluoghi e di altre importanti realtà ha posto le basi per cambiare una situazione che pareva immutabile. Ad Arezzo e Grosseto da ben due mandati guidano le città i sindaci civici sostenuti dalla coalizione, Antonfrancesco Vivarelli Colonna e Alessandro Ghinelli.

A Siena e a Pisa, due città storicamente governate dalla sinistra e dove tuttavia qualche segno di ripresa del Pd si è registrato il 25 settembre, sono insediati rispettivamente Luigi De Mossi e Michele Conti, il cui esordio nella politica cittadina avvenne con Alleanza Nazionale. A Pistoia, per il secondo mandato, è sindaco Alessandro Tomasi di FdI, possibile candidato alla presidenza della Regione nel 2025. Massa e Lucca sono le ultime conquiste del centrodestra con Francesco Persiani e Mario Pardini, eletti al ballottaggio.

In tutte queste città, fino a poco più di un decennio fa, “era tutto Pd”. Anche i motivi di quello che ha il sapore di un cambio epocale ha una storia lunga. Il buongoverno, il modello-Toscana, una visione solidale ma minata da una distanza percepita come incolmabile dalle altre Province rispetto ad una Firenze spesso considerata matrigna, ma soprattutto un forte deficit infrastrutturale ed i processi di deindustralizzazione che hanno attraversato la Toscana da nord a sud (pur non risparmiando il capoluogo regionale) senza che il Pd sia riuscito a dare soluzioni e prospettive concrete: sono questi gli ingredienti principali di un cocktail che per il partito di Enrico Letta ha il sapore di cicuta.

Il caso di Piombino è stato un significativo campanello d’allarme che il Pd non è parso udire in tempo: prima l’agonia delle acciaierie poi la vicenda del rigassificatore hanno creato un dissenso non più gestibile da un partito che ha allentato da tempo i legami con il suo blocco sociale di riferimento: anche in questo affonda le radici la clamorosa elezione di Francesco Ferrari di FdI a sindaco e poi il sostegno trasversale alla sua battaglia contro la nave rigassificatrice.

Il tramonto dell’ idea di una Toscana felix, dove era possibile gestire anche notevoli contraddizioni ed assicurare un benessere diffuso, del benvivere in piccoli centri o in città che, pur importanti, sono di medie dimensioni, è cominciato fin dagli anni Novanta in coincidenza con la progressiva perdita di presenze significative nel mondo del credito, delle assicurazioni e della finanza: un processo che, ad esempio, successivamente ha tolto dallo skyline economico toscano La Fondiaria e la Cassa di Risparmio di Firenze e che ha fortemente ridimensionato il Monte dei Paschi di Siena.

Non a caso si tratta di un percorso che si è snodato, solo apparentemente come parallelo, a quella di una crisi industriale a base di delocalizzazioni di importanti realtà e di difficoltà del sistema delle piccole e medie imprese a misurarsi con l’internazionalizzazione, costringendo così la Toscana da un lato ad accentuare la sua terziarizzazione e dall’altro a fare i conti con l’impoverimento di quelle classi medie che a queste latitudini è stata più repentino e sofferto rispetto ad altre aree del Paese, soprattutto in considerazione dell’alto livello di qualità della vita che ha costituito il punto di partenza di questa curva discendente.

Se poi il condimento di questa amara pietanza è la crescita di una percezione che ha identificato il Pd – ed i suoi “antenati” Pci, Pds, Ds – con la casta tout court a causa della prolungata permanenza al potere, difficilmente l’esito poteva essere diverso da quello ora emerso. Ma solo le tappe successive di una stagione politica ora all’inizio potranno dire se si tratta di un processo irreversibile. Anche se, molto difficilmente, tornerà ad essere “tutto Pd”.

 

Stefano FabbriGiornalista

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