La trincea nordista della Lega è perduta da tempo, i Colonnelli, stretti e scomodi nella tenaglia tra il Generale che sgomita e il Capitano che si adegua, lo sanno. Pontida non è stato nemmeno il sigillo bensì il simulacro di un rito popolare in cui l’ampolla del Po è stata sostituita dalla X della Decima Mas, il federalismo dall’ultra-nazionalismo, il fondatore Umberto Bossi dal nuovo martire Maga Charlie Kirk. E come ha detto l’ex ministro fuoriuscito Roberto Castelli, anziché riparare i guasti dei ponti sull’Adda si pensa a quello, faraonico, sullo Stretto di Messina. Prima il lombardo-veneto? Non più.
Con buona pace dei governatori del Nord, la Lega si è già vannaccizzata e lo sanno tutti. Lo sa soprattutto Giorgia Meloni, che si è precipitata al raduno dei giovani di FdI, Fenix, per occupare la scena e pronunciare in contemporanea alla kermesse leghista un discorso intriso di “voi contro noi”, lodi di Kirk ancora più sperticate, e persino evocazioni degli Anni di Piombo. Lo sanno i giovani padani, molto compresi nello zeitgeist vista l’età, che hanno accolto Roberto Vannacci con urla di gaudio e grandi aspettative. Abbeverandosi, anziché alle sacre acque del fiume, al verbo militaresco: “Non ci rassegniamo alla società meticcia né all’islamizzazione delle città”.
E lo sanno, appunto, anche i malmostosi e riottosi governatori nordisti. Il presidente del Trentino Maurizio Fugatti ha ricordato che la Lega bossiana era “anticomunista e antifascista”. Il ministro degli Affari regionali Roberto Calderoli ha dovuto mettere la sordina all’autonomia differenziata, che peraltro, dopo essere stata approvata giace nei meandri della burocrazia, perché tra poco si vota in Campania, Puglia, Marche, dove la riforma non è popolarissima. Al Sud conta molto la sanità, che già non funziona molto bene, e i timori che con l’autonomia la situazione peggiori sono diffusi. Il governatore lombardo Attilio Fontana ha ribadito dal palco che “il federalismo resta la prospettiva del futuro” e già si era espresso con cristallina chiarezza sull’opposta prospettiva di un partito vannaccizzato: “Col ca**o”. Luca Zaia, in stand-by sul futuro del Veneto e sul proprio, emana gelo. Critici anche i capigruppo parlamentari. Riccardo Molinari (Camera): “La Lega non ha bisogno di cambiamenti né di rifarsi a ideologie che non c’entrano con la nostra storia”. Max Romeo (Senato) insiste sulle “radici”.
E tuttavia, “alea iacta est”: Salvini ha ipotecato casa (il partito) perché ha bisogno di contante (il consenso elettorale). Le 563mila preferenze del Generale alle scorse Europee oggi valgono, secondo i sondaggisti, un paio di punti, forse sfiorano i tre. Quasi un terzo della Lega: per questo il segretario ha accettato il “patto col diavolo”, stroncando ogni dissenso interno e silenziando pure l’ex fedelissima Susanna Ceccardi che sulle liste in Toscana si era ribellata: “Non ci sono truppe, solo militanti”.
Ma quella contro la svolta è una battaglia di retroguardia. Lo sa Giancarlo Giorgetti, che pure sul pratone chiede garbatamente di “rispettare le gerarchie”. Come si fa se il Generale è diventato vice-segretario senza passare per la gavetta, nominato direttamente dal segretario-Capitano? Se in parallelo alle strutture leghiste porta avanti i “team Vannacci” dove è obbligo portare in dote l’acquisto del libro del suddetto? Se il neo-vicesegretario non perde occasione di incrociare gli indici nella controversa terzultima lettera dell’alfabeto? La trincea padana però non si è sgretolata ieri: il dualismo fra “Lega di governo” giorgettiana e “Lega di opposizione” salviniana ha fatto da contrappunto a tutto l’esecutivo di Mario Draghi: con la seconda che alla fine ha sfiduciato la prima. La competizione sempre più feroce con FdI ha fatto il resto: Vannacci è il salvagente di Salvini, che ha scelto di galleggiare per non affogare.