Per il Sud il Pnrr è l’ultimo treno. Si allarga la forbice Nord-Sud. Fitto: è in atto un confronto costruttivo con l’Europa per far funzionare al meglio il Pnrr

Presentato il Rapporto Svimez2022: l’economia e la società del Mezzogiorno. Presidente Giannola: lavorare a un progetto euromediterraneo con l’Italia protagonista. Le autostrade del mare. L’autonomia differenziata: correggere i rischi del progetto ma prima il federalismo fiscale.

Svimez è da anni un osservatorio privilegiato e qualificato per capire dove va la società italiana, e soprattutto il destino del Mezzogiorno, in un’ottica che prima era nazionale e ora è necessariamente euorpea, internazionale.

Un Mezzogiorno che fin dai tempi di Cavour, secondo le stesse parole dello statista morente, è una questione nazionale, e si è andata declinando nel corso dei decenni di volta in volta secondo una prospettiva di promozione dello sviluppo, cadute in logiche assistenziali e clientelari, e poi in un rilancio degli investimenti, pur restando storicamente in una posizione di perenne inseguimento del Nord, senza mai raggiungerlo come nell’apologo di Achille e la tartaruga. Solo che il Sud, strutturalmente, non è stato mai Achille.

 

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Il Rapporto presentato a Roma, nell’Aula dei gruppi parlamentari a Montecitorio, presenti due ministri del governo – Fitto e Musumeci – è una specie di termometro dello stato di salute delle regioni meridionali. Non è una semplice radiografia che a volte lascia in ombra malattie e crisi, ma una sorta di risonanza magnetica di vaste aree del Paese, afflitte da mali secolari e aggravati dalla persistenza di organizzazioni criminali che si sono infiltrate come cellule pericolose nel tessuto sociale ed economico di quei territori.

Ne emerge uno stato di salute ovviamente precaria, sul piano economico, che sconta due anni di difficoltà per la crisi pandemica ed ora, mentre poteva finalmente risalire, si incrocia con i problemi causati dall’emergenza internazionale ( Ucraina e Russia) e da quella energetica con i noti contraccolpi su imprese e famiglie.

Il divario Nord Sud, lungi dal diminuire, aumenta, continua la fuga di meridionali verso il Centro Nord e l’Europa, e soprattutto dei laureati e degli stessi laureandi. Continuano le iscrizioni alle Università del Nord, non per sfiducia nella qualità didattica e scientifica degli Atenei del Sud, ma per un diverso aggancio di queste università del Nord alle realtà imprenditoriali di quelle Regioni, il che significa maggiori possibilità di lavorare.

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L’altro Mezzogiorno, quello che non si piange addosso

Il dibattito sul Rapporto Svimez però ha registrato interventi di grande orgoglio e rivendicazione della creatività meridionale: in un intervento vibrante e appassionato la sindaca di Andria, la quarta città della Puglia, si è presentata e illustrata come la rappresentante di un Mezzogiorno che non si piange addosso ma che vuole offrire occasioni e speranza. Però non ha potuto fare a meno di citare un esempio di come l’Italia resti un Paese non solo a due velocità  ma un Paese dove si procede a velocità differenti. E ha fatto un esempio: il ponte Morandi è stato ricostruito in due anni; la ferrovia Andria-Corato dove nel 2016 ci fu un cruento incidente ferroviario è da sei anni che aspetta di essere ricostruita. Questo – ha detto la sindaca Giovanna Bruno – è lo specchio di come (non) funzionano le cose in questo Paese.

Un altro esempio “visivo” di un Sud che sa anche reinventarsi, esprimere la propria creatività, anche on un necessario pizzico di follia, è un progetto di risanamento culturale del Rione Sanità di Napoli, a cui è ispirata una famosa commedia di Eduardo (il sindaco del Rione Sanità). In un quartiere degradato sono state inventate e realizzate tante iniziative di rinascita: recupero di chiese, di locali per farne teatro per i giovani, sale da concerto, luoghi di ritrovo e di socialità, corsi per guide turistiche, laboratori.

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Quelle “provocazioni” del presidente Svimez verso la politica e il governo

Il direttore generale della Svimez aveva illustrato per sommi capi le linee direttrici del Rapporto annuale, un volume di circa 550 pagine, corredato di grafici e tabelle.

Il presidente Adriano Giannola si è particolarmente soffermato sull’importanza della posizione dell’Italia nel Mediterraneo, un “bene posizionale”, così lo ha definito, che deve essere sfruttato per rendere il nostro Paese protagonista.

Il Mediterraneo non è una mare di passaggio ma un mare di scambio, e quindi si dovrebbe porre mano, subito, perché non abbiamo molto tempo, a un progetto euromediterraneo per il rilancio del sistema Paese. L’Europa in fondo ci ha dato 209 miliardi di euro non per nulla. L’Italia ha un enorme vantaggio che si rifiuta di considerare: le autostrade del mare; l’economia del mare, attrezzando i porti come quello di Rotterdam, e organizzando una parte del trasporto via mare. Sento rispondere quando faccio questi discorsi: non è cosa da Pnrr. E invece sì.  Ma questa prospettiva, ha osservato Giannola, sembra interessare poco o nulla alla politica.

Il divario Nord Sud sta aumentando, mentre dall’Europa viene il monito: riducete le distanze (tra le varie aree del Paese) aumentate la coesione sociale.

L’Italia è l’unico Paese europeo – a parte la Grecia – che non ha recuperato i danni della crisi del 2007. Dopo due anni di pandemia, noi siamo ancora lì. Di più la forbice si allarga ancora, Umbria e Marche sono diventate Mezzogiorno, rischia la Toscana e forse anche lo stesso Piemonte.

Per quanto riguarda il progetto di autonomia differenziata, chiesta da alcune regioni del nord, Giannola ha messo in guardia da un pericolo: l’autonomia differenziata può anche andare bene ma prima si deve attuare il federalismo fiscale, e mettere in chiaro che i servizi essenziali ( sanità scuola, assistenza ecc) debbono essere uniformi per tutti

Conclusione di Giannola: occorre programmare e invertire la rotta finora seguita, utilizzando in modo strategico il Pnrr. Altrimenti questo Pnrr si ridurrà a una manutenzione straordinaria di un motore fuso.

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Fitto, confrontiamoci ma intanto cominciamo a smontare alcuni dogmi

Tra questi dogmi, non da smontare letteralmente ma da depurare del crisma di intoccabilità, il ministro degli Affari europei, con delega per il Sud e il Pnrr, ha messo anche il Pnrr. Non si deve gridare alla lesa maestà se ci si permette di fare qualche rilievo sul Pnrr e sul modo di farlo funzionare. Intanto è stata un’idea vincente – ha sottolineato il ministro – mettere insieme gli affari europei con il Pnrr e il Mezzogiorno:  sono segni di una visione che può dare i suoi frutti, a patto che siano superate le contrapposizioni e gli approcci ideologici ai problemi. Bisogna invece stare ai dati, ai problemi reali. Questi problemi vanno affrontati con spirito pragmatico. Alcuni esempi: molti strumenti di programmazione scelti in un dato momento  quando vengono poi realizzati, si rivelano superati. Come rimediare?

Altro problema: il Pnrr è stato elaborato nella fase finale della pandemia e prima dello scoppio della guerra in Ucraina. è tutto rimasto attuale? O qualcosa va modificato?

Altro problema, i tempi e la governance. Per quanto riguarda i tempi del Pnrr in cinque anni dobbiamo spendere il triplo dei fondi del Fsc (fondo di sviluppo e coesione). I tempi stretti possono portare problemi:  Il governo, in carica da appena un mese, ha avuto solo 20 giorni per varare la legge di bilancio (caso unico nella storia d’Italia) e comunque ha fatto una manovra coerente.

Il governo ha avviato un confronto sereno e costruttivo con la commissione europea, e anche nella cabina di regia – con l’Anci, le Regioni ecc – intende avere un ruolo propositivo e concreto.

Ma è sul progetto di autonomia dfifferenziata che Fitto si è spinto a fare autocritica, non personale ma  “come mezzogiorno”, ha precisato, quando ha osservato che appena alcune regioni del Nord chiedono spazi di autonomia, scatta in automatico il riflesso condizionato di un Mezzogiorno che grida sempre al pericolo, alla discriminazione ecc..

Su questo, per come ha speso le risorse, per esempio sulla sanità, il Mezzogiorno deve fare autocritica. E Fitto non lo ha detto ma il pensiero certo gli è andato a quando, da presidente della Regione, varò una razionalizzazione della rete ospedaliera regionale, sopprrimendo o accorpando vari ospedali, scatenando proteste anche di piazza. E si giocò la rielezione a presidente della Puglia.

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Il Rapporto Svimez in cifre, illustrato da Luca Bianchi, direttore generale

Nel 2023 sud in recessione a -0,4% con pil italia a +0,5%. Un Mezzogiorno ‘sotto shock’ prova a resistere e a rimettersi in gioco. Covid, Ucraina, crisi energetica e inflazione impattano su famiglie e imprese e riaprono forbice tra nord e sud. Rafforzare interventi contro caro prezzi, rilanciare gli investimenti e le politiche industriali.

È quanto emerge dal Rapporto Svimez 2022, giunto alla sua 49esima edizione, presentato oggi alla Camera dei deputati.

Il nuovo shock ha cambiato il segno delle dinamiche globali (rallentamento della ripresa; comparsa di nuove emergenze sociali; nuovi rischi operativi per le imprese), interrompendo il percorso di ripresa nazionale coeso tra Nord e Sud. Gli effetti territorialmente asimmetrici dello shock energetico intervenuto in corso d’anno, penalizzando soprattutto le famiglie e le imprese meridionali, dovrebbero riaprire la forbice di crescita del PIL tra Nord e Sud. Secondo le stime SVIMEZ, il PIL dovrebbe crescere del +3,8% a scala nazionale nel 2022, con il Mezzogiorno (+2,9%) distanziato di oltre un punto percentuale dal Centro-Nord (+4,0%).

La Svimez valuta che a causa dei rincari dei beni energetici e alimentari l’incidenza delle famiglie in povertà assoluta potrebbe crescere di circa un punto percentuale salendo all’8,6%, con forti eterogeneità territoriali: + 2,8 punti percentuali nel Mezzogiorno, contro lo 0,3 del Nord e lo 0,4 del Centro. In valori assoluti si stimano 760 mila nuovi poveri causati dallo shock inflazionistico (287 mila nuclei familiari), di cui mezzo milione al Sud.

In base alle stime Svimez, l’aumento dei prezzi di energia elettrica e gas si traduce in un aumento in bolletta annuale di 42,9 miliardi di euro per le imprese industriali italiane; il 20% circa (8,2 miliardi) grava sull’industria del Mezzogiorno, il cui contributo al valore aggiunto industriale nazionale è tuttavia inferiore al 10%.

Le previsioni Svimez segnalano per il 2023 il rischio di una contrazione del PIL nel Mezzogiorno dello 0,4%, un peggioramento della congiuntura determinata soprattutto dalla contrazione della spesa delle famiglie in consumi, a fronte della continuazione del ciclo espansivo, sia pure in forte rallentamento nel Centro-Nord (+0,8%). Il 2024 dovrebbe essere un anno di ripresa sulla scia del generale miglioramento della congiuntura internazionale, unitamente alla continuazione del rientro dall’inflazione che scende al +2,5% e +3,2% nel Centro-Nord e nel Mezzogiorno nell’anno. Si stima che il PIL aumenti nel 2024 dell’1,5% a livello nazionale, per effetto del +1,7% nel Centro-Nord e dello +0,9% al Sud. Il dato del Sud, di per sé apprezzabile visto che dovrebbe tornare in territorio positivo dopo il calo del 2023, sarebbe comunque sensibilmente inferiore a quello del resto del Paese. Un aspetto strutturale che contribuisce a spiegare la debole ripartenza meridionale è rintracciabile sul lato dell’offerta: a seguito dei continui restringimenti di base produttiva sofferti dal Sud dal 2008, si è sensibilmente ridimensionata la capacità del sistema produttivo dell’area di agganciare le fasi espansive del ciclo economico.

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Questo quadro pone una duplice sfida alle politiche nazionali 

Da un lato va assicurata continuità alle misure contro il caro energia: per mitigare l’impatto sui bilanci di famiglie, soprattutto le più fragili per le quali i rischi di una nuova povertà energetica sono più concreti; a favore delle imprese, per salvaguardarne l'operatività, rinnovando lo sforzo profuso durante l’emergenza Covid.

Dall’altro, è essenziale accelerare sul fronte delle misure di rilancio degli investimenti pubblici e privati dando priorità alla politica industriale attiva per ampliare e ammodernare la base produttiva soprattutto meridionale, condizione imprescindibile per la creazione di buona occupazione. Mettere in sicurezza l’attuazione del PNRR è cruciale: consolidandone la finalità di coesione economica, sociale e territoriale; potenziando le misure di accompagnamento degli Enti territoriali nella realizzazione delle opere; rafforzando il coordinamento del Piano con la politica di coesione europea e nazionale e con la politica ordinaria.

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Gli Shock e la ripresa dimezzata

Dopo lo shock della pandemia, l’Italia ha conosciuto una ripartenza pressoché uniforme tra macro-aree. Il “rimbalzo” del PIL nel 2021, +6,6% a livello Paese, è stato sostenuto dalla ripresa degli investimenti, soprattutto quelli in costruzioni, e dalla domanda estera, interessando tutte le aree del Paese, ma è stata più rapida nel Nord (+7,5% nel Nord-Est; +7% nel Nord-Ovest), dove più pronunciata era stata la recessione del 2020. Il Mezzogiorno ha però partecipato alla ripartenza nel 2021: il PIL meridionale è cresciuto infatti del 5,9%, superando la media dell’Ue-27 (+5,4%), beneficiando dell’inedita intonazione espansiva delle politiche a sostegno dei redditi delle famiglie e della liquidità delle imprese che hanno contribuito a sostenere i consumi e a preservare condizioni favorevoli di continuità operativa per le attività economiche. I sistemi produttivi delle regioni meridionali si sono mostrati meno pronti ad agganciare la domanda globale in risalita, registrando un ritmo di crescita dell’export più contenuto del resto del Paese. Gli investimenti delle imprese orientati all’ampliamento della capacità produttiva, inoltre, sono stati meno reattivi nel Mezzogiorno. Sono stati soprattutto quelli in costruzioni a crescere nel Sud, grazie allo stimolo pubblico (Ecobonus 110% e interventi finanziati dal PNRR). Le dinamiche globali avverse, compreso il trauma della guerra, hanno esposto l’economia italiana a nuove turbolenze, allontanandola dal sentiero di una ripartenza relativamente coesa tra Nord e Sud del Paese. Nel corso del 2022 la Svimez ipotizza una crescita media dei prezzi al consumo dell’8,5%; dato che racchiude una significativa differenziazione territoriale: + 8,3% al Centro-Nord e +9,9% nel Mezzogiorno, con un differenziale sfavorevole al Sud dovuto in larga parte a un effetto composizione.

Nel “carrello della spesa” del consumatore medio del Sud è, infatti, prevalente l’acquisto di beni di consumo, più colpiti dal rincaro delle materie prime; viceversa, al Centro-Nord assume un peso rilevante l’acquisto dei servizi, interessati da una crescita dei prezzi significativamente minore. La differenza nel “carrello della spesa” delle famiglie tra le due circoscrizioni si deve, a sua volta, all’ampia difformità nella distribuzione dei redditi a livello territoriale.

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Nuova povertà energetica, lavoro di bassa qualità e una scuola ‘diseguale’

Gli interventi di salvaguardia varati dal Governo nel pieno della pandemia, dal blocco dei licenziamenti, agli ammortizzatori sociali in deroga fino al Rem che si è andato ad aggiungere al Reddito di cittadinanza, hanno tamponato emergenze sociali e occupazionali che altrimenti avrebbero assunto proporzioni drammatiche. Al netto del peggioramento delle condizioni rilevate nel corso del 2020, l’insieme di queste misure ha avuto effetti significativi nel contrastare la povertà. Nel 2020, dunque, i corposi trasferimenti governativi hanno preservato le condizioni economiche delle famiglie, limitando fortemente la contrazione dei redditi. Gli effetti delle misure per contrastare gli effetti della pandemia sono stati positivi anche nel mitigare le disuguaglianze.

Senza questi interventi le famiglie povere sarebbero state quasi 2,5 milioni, quasi 450 mila in più rispetto al valore registrato nel 2020 (poco più di 2 milioni), cui corrispondono oltre un milione di persone in meno in condizione di povertà assoluta (-750 mila al Sud e -260 mila al Centro-Nord).

Senza le erogazioni le famiglie in povertà assoluta sarebbero state il 9,4% anziché il 7,7%, l’incidenza per le persone sarebbe aumentata all’11,1% anziché fermarsi al 9,4%. In particolare, nelle regioni meridionali, senza sussidi l’incidenza della povertà assoluta fra le famiglie avrebbe raggiunto un picco drammatico di circa 13 famiglie ogni 100 (13,2% al Sud e 12,9% nelle Isole), che grazie agli interventi cala di 3,4 punti al Sud e 4,5 punti nelle Isole.

La crisi inflazionistica presenta rischi concreti per la sostenibilità dei bilanci di famiglie e imprese, con effetti più allarmanti nel Mezzogiorno. Con riferimento alle famiglie, a subire maggiormente le 4 conseguenze dei rincari della bolletta energetica e dei beni di prima necessità sono i nuclei a reddito più basso, per i quali l’incidenza dei costi “incomprimibili” arriva a coprire circa il 70% dei consumi totali. Queste famiglie sono maggiormente concentrate nel Sud Italia. In base ai dati Istat 2021, infatti, una famiglia su tre residente nel Mezzogiorno si colloca nel primo quintale di spesa equivalente (presenta una spesa media mensile minore o uguale alla spesa media del 20% più povero di tutte le famiglie italiane). Nelle altre aree del Paese, la percentuale è nettamente inferiore: le famiglie collocate nel primo quintile di spesa sono circa il 13% nel Nord e poco più del 14% nel Centro. Considerando l’inflazione acquisita per l’anno in scorso dell’8% per tutte le voci di spesa (dato previsionale Istat riferito a ottobre 2022), si osserva un incremento dell’8,9% per i beni alimentari e del 34,9% per la voce “abitazione, acqua, elettricità e spesa per combustibili”.

La maggiore esposizione delle regioni meridionali allo shock inflazionistico emerge anche da una stima del numero dei nuclei familiari a rischio povertà assoluta. La Svimez stima un bacino potenziale di 287 mila nuove famiglie (e 764 mila individui) in povertà assoluta. Un incremento che, declinato territorialmente, corrisponderebbe a un aumento dell’incidenza della povertà assoluta di2,8 punti percentuali nel Mezzogiorno contro lo 0,4 del Nord e lo 0,5 del Centro. In valori assoluti al Sud sarebbero circa mezzo milione di poveri in più. Il risultato stimato per il Sud è spiegato essenzialmente dalla maggiore diffusione nelle regioni meridionali di famiglie più numerose (numero di componenti maggiore di 3) e con minori a carico per le quali il rischio povertà è segnatamente più elevato rispetto ai nuclei più ridimensionati.

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Nel Mezzogiorno la ripresa occupazionale è stata tuttavia di bassa qualità, alimentandosi all’aumento della precarietà è tornata sui livelli pre-pandemia, in anticipo rispetto al Centro-Nord attestandosi su livelli comunque inferiori rispetto al 2008 (–2,9%), al contrario di quanto avvenuto nel Centro-Nord (+2,6%). L’occupazione (media dei primi due trimestri), cresciuta in Italia del 3,6%(+791 mila unità) nel 2022, rispetto alla prima metà del 2021, ha premiato soltanto i maschi con un +0,2%, a fronte di un moderato calo dell’occupazione femminile a–0,8%.

Secondo le proiezioni l’inflazione rimane al di sopra della crescita salariale negoziata per il 2022, continuando a erodere i salari reali nel corso dell’anno. Tra il 2008 e il 2021 le retribuzioni lorde in termini reali si sono ridotte di circa 9 punti al Sud e di circa 3 al Nord. Il rischio di una spirale inflazionistica salari-prezzi è molto contenuto, tanto è vero che i salari reali sono previsti in calo. Le riforme strutturali degli ultimi decenni hanno creato condizioni mediamente più sfavorevoli agli adeguamenti salariali.

A ciò si aggiungono, in Italia, alcune peculiarità del mercato del lavoro che tendono a ostacolare ulteriormente la revisione al rialzo dei salari: l’ampia diffusione dei contratti atipici e, per le forme più stabili di impiego, la lunga durata dei contratti; il riferimento a previsioni di inflazione al netto della variazione dei prezzi dei beni energetici importati; la ridotta diffusione di clausole di rinegoziazione degli aumenti qualora l’inflazione effettiva superi quella programmata.

In Italia, nel 2021 la quota di lavoratori dipendenti impegnati in lavori a termine da almeno 5 anni (che include quelli con contratto a tempo determinato e i collaboratori) si è attestata al 17,5% del totale dei lavoratori a termine. Il fenomeno della precarietà “persistente” non è tuttavia omogeneo su base territoriale. Nelle regioni del Mezzogiorno si raggiunge il valore massimo di quasi un lavoratore su 4 (23,8%, ma in calo di un punto percentuale rispetto al 2020), quasi 11 punti in più della quota che si registra al Nord (13%) e superiore di oltre 7 punti a quella del Centro. Tutto questo si traduce in una maggiore difficoltà delle persone a fuoriuscire dalla condizione di precarietà: nel 2020, ultimo anno disponibile, la quota di occupati precari (a termine e collaboratori) che a distanza di un anno trovavano un’occupazione stabile era al Sud particolarmente bassa, pari al 15,8%. Il valore nazionale era del 22,4%, salendo al 26,9% al Nord. Più precari e più a lungo, in sintesi: ciò si traduce in una maggiore percezione di insicurezza del lavoro nelle regioni meridionali.

 Cresce in Italia il fenomeno del lavoro povero: nel 2021 gli occupati dipendenti extragricoli privati con bassa retribuzione (inferiore a 10.700 euro) sono 3,2 milioni, di cui 2,1 milioni al Centro-Nord (il 18% degli occupati) e 1,1 milioni al Sud, ben il 34,3% degli occupati.

Tra i divari tra Nord e Sud rimangono preoccupanti quelli nella filiera dell’istruzione. I servizi socio-educativi per l’infanzia sono caratterizzati dall’estrema frammentarietà dell’offerta e da profondi divari territoriali nella dotazione di strutture e nella spesa pubblica corrente utilizzata dalle Amministrazioni locali. In Italia la percentuale dei bambini di età compresa fra i 3 e i 5 anni che frequenta una struttura educativa (93,2%) è più alta della media europea (89,6%). Nella scuola d’infanzia, la carenza d’offerta a sfavore del Mezzogiorno riguarda soprattutto gli orari di frequenza.

Nel Mezzogiorno è molto meno diffuso l’orario prolungato (offerto solo al 4,8% dei bambini); viceversa è più diffuso l’orario ridotto (20,1%) rispetto al Centro-Nord: 17,0% e 3,6% rispettivamente per orario prolungato e ridotto. Mentre nella scuola primaria la percentuale di alunni che frequenta a tempo pieno è più bassa nelle regioni meridionali (18,6%) rispetto al resto del Paese (48,5%). Nel Mezzogiorno circa 650 mila alunni delle scuole primarie statali (79% del totale) non beneficiano di alcun servizio mensa. In Campania se ne contano 200 mila (87%), in Sicilia 184 mila (88%), in Puglia 100 mila (65%), in Calabria 60 mila (80%). Nel Centro-Nord gli studenti senza mensa sono 700 mila, il 46% del totale. Circa 550 mila allievi delle scuole primarie del Mezzogiorno (66% del totale) non frequentano scuole dotate di una palestra.

Solo la Puglia presenta una buona dotazione di palestre mentre registrano un netto ritardo la Campania (170 mila allievi privi del servizio, 73% del totale), la Sicilia (170 mila, 81%), la Calabria (65 mila, 83%). Nel Centro-Nord gli allievi della primaria senza palestra corrispondono al 54%. Analogamente, il 57% degli alunni meridionali della scuola secondaria di secondo grado non ha accesso a una palestra; la stessa percentuale che si registra nella scuola secondaria di primo grado.

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La questione femminile

Il tasso di occupazione femminile nel Mezzogiorno è molto lontano dalla media europea. In Italia il gap con l’Europa, di circa 10 punti all’inizio del secolo, è ulteriormente aumentato, avvicinandosi ai 15 punti nel 2022. Non solo, il ritardo dell’Italia, che nei primi anni Duemila era essenzialmente ascrivibile alle regioni meridionali, si è esteso alle regioni del Centro-Nord. Portando il confronto all’interno del Paese, è netto il divario tra i tassi d’occupazione femminile del Mezzogiorno e del Centro-Nord, che in termini di numero di occupati si quantifica in 1,6 milioni (nel senso che se il tasso di occupazione femminile fosse uguale a quello del Centro-Nord, nel Mezzogiorno l’occupazione femminile aumenterebbe di 1,6 milioni).

In Italia sono circa 4 milioni, di cui circa 1,8 milioni nel Mezzogiorno, le donne più o meno vicine al mercato del lavoro ma che non vengono impiegate. Il labour market slack in Italia raggiunge livelli ben più elevati della media europea e aumenta decisamente dal 2008, in controtendenza con il dato europeo. La peculiare carenza di domanda di lavoratrici nelle regioni meridionali è resa manifesta da valori intorno al 50% dell’indicatore, a evidenziare che solo la metà delle donne potenzialmente disponibili a lavorare trovano occupazione. Per le donne, i problemi familiari sono tra le principali cause di dimissioni volontarie: nel 2020 oltre il 77% delle convalide di dimissioni di genitori di figli tra 0 e 3 anni è ascrivibile alle donne. Sul totale delle convalide la dichiarazione più frequente è la difficoltà di conciliare occupazione ed esigenze di cura della prole, sia per carenza di servizi di cura, sia per difficoltà a organizzare il lavoro. In tutte le circoscrizioni si registra una spiccata prevalenza delle convalide relative a lavoratrici madri, che rappresentano il 93% nel Mezzogiorno e il 72% nel Nord.

Il volume di spesa pubblica utilizzata dai Comuni per gestire e per finanziare i servizi per la prima infanzia ha seguito un trend crescente fino al 2012, per poi restare sostanzialmente invariato. La spesa pro-capite esibisce un trend continuamente crescente per effetto della riduzione del bacino d’utenza connesso al calo demografico. La spesa media è salita da circa 550 euro nel 2004 a poco più di 900 nell’ultimo anno, riproponendo e accentuando gli squilibri territoriali in termini di strutture: la spesa per bambino residente di 0-2 anni è 883 euro al Nord-Ovest, 1.345 euro al Nord-Est, 1.526 euro al Centro, 308 euro al Sud e 429 euro nelle Isole.

Pur non essendo necessariamente una garanzia di qualità dell’offerta, la spesa è un presupposto necessario perché si possano avere una diffusione adeguata e standard qualitativi elevati, senza gravare in maniera eccessiva sulle famiglie. I nidi e i servizi integrativi, del resto, sono servizi a elevata intensità di personale, per cui è difficile coniugare costi contenuti con elevati standard qualitativi e con un’ampia accessibilità per tutti gli strati sociali.

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Tasso di occupazione femminile

Aree geografiche 2000 2008 2019 2022 (a)

UE a 27 paesi 52,5 57,8 63,0 64,7

Danimarca 72,1 72,4 72,0 74,3

Germania 57,8 64,3 72,8 73,4

Grecia 41,8 48,6 47,3 50,6

Spagna 41,2 55,4 57,9 59,5

Francia 54,8 60,3 62,5 65,2

Italia 42,5 47,2 50,2 50,7

Paesi Bassi 63,4 68,1 74,1 77,8

Portogallo 60,5 62,5 67,6 69,5

Mezzogiorno 28,6 31,2 33,2 34,3

Centro-Nord 50,4 56,2 59,3 59,3

(a) media dei primi due trimestri

Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati EUROSTAT e ISTAT

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Il coordinamento delle politiche di sviluppo

Con un’offerta ampia e diversificata di risorse per le politiche di sviluppo dei prossimi anni−comprendente quelle della coesione 2014-2020, incluso il REACT-EU, le risorse del ciclo 2021- 2027, le dotazioni PNRR e, non ultime, quelle della coesione nazionale (PSC) − sono evidenti l’esigenza di coordinamento tra la politica di coesione, comunitaria e nazionale, e il PNRR e la necessità che siano messe a sistema in una visione organica e unitaria le reciproche azioni.

Sebbene siano finalizzati al raggiungimento di obiettivi convergenti di sviluppo e di trasformazione del Paese, questi bacini finanziari assumono infatti strategie, logiche ed approcci diversi,soprattutto rispetto al territorio. Di conseguenza, dovrebbe essere assicurato che i Programmi (e le azioni/gli interventi da essi alimentati), oltre ad indicare scelte strategiche ed approcci specifici possano rendere evidenti anche in fase attuativa, elementi di complementarietà e demarcazione.

Gli stanziamenti di risorse, ingenti, e le riserve di spesa, contabilmente favorevoli, sono solo una condizione necessaria, non sufficiente, per colmare i divari territoriali nei diritti di cittadinanza e riequilibrare il potenziale di crescita tra Nord e Sud del Paese. Permane, tuttavia, l’esigenza di un migliore coordinamento e sinergia tra la politica di coesione, comunitaria e nazionale, e il PNRR e la necessità che siano messe a sistema in una visione organica e unitaria le reciproche azioni.

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La ripartenza industriale e i driver per riaccendere il ‘secondo motore’ del Paese

La politica industriale è chiamata ad ampliare il suo campo d’azione: non solo promuovere la concorrenza e stabilire regole per il corretto funzionamento dei mercati, ma compiere anche scelte sull’allocazione delle risorse per conseguire obiettivi strategici, in un’ottica unitaria che tenga conto della necessità di superare i gap territoriali: accrescimento delle dimensioni di impresa, apertura internazionale, rafforzamento delle filiere, sostegno alla ricerca, innovazione e trasferimento tecnologico, sviluppo di prodotti e tecnologie green, digitalizzazione. Nonostante gli obiettivi chiari, ci troviamo ancora in un quadro di politica industriale complessivamente poco incisivo e alquanto frammentato nel quale manca una strategia che guidi il nostro Paese verso l’individuazione di obiettivi e aree tecnologiche e produttive prioritarie. La debole selettività di buona parte delle misure di politica industriale rappresenta una delle cause delle difficoltà dell’Italia a superare i divari produttivi con gli altri paesi europei e del Mezzogiorno a superare quelli con il Centro-Nord.

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Le previsioni regionali

Previsioni PIL regionale, var. % s.d.i. Valori a prezzi costanti

Regioni 2021 2022 2023 2024

Piemonte 7,0 4,1 0,8 2,0

Val d'Aosta 5,2 4,2 1,0 1,0

Lombardia 6,9 4,0 0,8 1,9

Trentino A.A. 5,8 6,1 0,6 1,8

Veneto 7,9 4,4 0,8 1,9

Friuli V.G. 6,4 4,6 0,8 1,9

Liguria 7,9 3,3 1,1 1,6

Emilia Romagna 7,9 4,9 0,8 2,1

Toscana 5,9 3,7 0,7 1,6

Umbria 8,4 2,0 0,6 0,9

Marche 7,8 3,9 1,0 1,4

Lazio 5,3 3,1 0,7 0,8

Abruzzo 5,2 3,8 1,1 1,2

Molise 4,2 1,9 -1,0 0,5

Campania 6,4 3,1 -0,5 0,9

Puglia 6,6 3,2 -0,5 0,9

Basilicata 7,9 2,5 -0,4 0,9

Calabria 5,6 1,8 -0,9 1,0

Sicilia 4,9 2,4 -0,4 0,9

Sardegna 6,6 2,9 -0,2 1,0

Mezzogiorno 5,9 2,9 -0,4 0,9

Centro-Nord 6,8 4,0 0,8 1,7

Italia 6,6 3,8 0,5 1,5

Fonte: Fonte:2020, ISTAT;2021, SVIMEZ;

Mario Nanni – Direttore editoriale

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