Luca Paolazzi è un’economista che non ha bisogno di molte presentazioni. Dopo aver cominciato la sua carriera all’Ufficio studi della Fiat, per oltre venti anni è stato analista e giornalista del Sole 24 Ore. Poi, dal 2007 al 2018 ha diretto in modo pugnace ed efficace l’autorevolissimo Centro Studi di Confindustria. Poi ancora è stato direttore scientifico della Fondazione Nordest, economista di Ref Ricerche, advisor di Ceresio Investors. Insomma: come studioso ed ex-giornalista è la persona migliore per cercare di rispondere alla domanda che tutti si pongono in queste ore. Come salvarsi dai dazi di Trump?

Dopo la mazzata dei dazi di Donald Trump, che cosa devono (o possono) fare le imprese italiane per salvarsi e salvare un pezzo tanto importante della nostra economia e della nostra occupazione?
Abbiamo costruito un modello economico tutto basato sulle esportazioni. Perché? Perché dopo la crisi del 2008-2009 abbiamo schiacciato la domanda interna e le imprese si sono dovute lanciare sui mercati esteri per sopravvivere. E va bene, l’export è una grande palestra: fa crescere le aziende, le rende più innovative, più organizzate. Ma alla fine l’economia italiana non è che sia andata benissimo, no? Il punto è che esportare dovrebbe servire a prosperare, non a sopravvivere. Noi non abbiamo materie prime, quindi dobbiamo vendere fuori per comprare quello che ci manca. Ma fare del surplus commerciale una bandiera, come fa la Germania, non porta lontano: alla fine si finisce a competere sempre sui costi, tagliando salari e frenando la crescita. È un modello che non può funzionare a lungo, né per l’Italia, né per la Germania, né per l’Europa.
I dazi americani ormai ci sono. Il ministro degli Esteri Tajani ha presentato un Piano per aumentare l’export scommettendo su alcuni paesi “ad alto potenziale”. Ci sono India, Messico e Brasile, su questo versante mediterraneo Turchia, Emirati e Arabia Saudita, in Asia Thailandia, Vietnam, Indonesia e Filippine, in Africa Sudafrica e Algeria. Ma anche Balcani Occidentali, Gran Bretagna, Svizzera, Giappone e Canada. Ha senso? Può essere una via d’uscita?
Quando ero al Centro Studi di Confindustria abbiamo lavorato molto sui mercati emergenti. L’idea era semplice: il brand italiano era forte, e una nuova classe media stava nascendo in quei Paesi, pronta a comprare prodotti “belli e ben fatti”, non solo di lusso. Poi però ci siamo accorti che oltre ai mercati emergenti c’era quello degli Stati Uniti, che è il mercato più grande del mondo. Ma il punto è che l’export è essenziale, ma non basta: serve un modello più equilibrato, che punti anche sulla crescita sul mercato interno.
Dunque, non è una strada praticabile. E adesso che succederà alle nostre imprese?
Il primo effetto di questa roba è che andremo tutti in recessione. Il secondo è che le aziende, per sopravvivere, dovranno cercare di andare a investire proprio nei Paesi che hanno alzato le barriere doganali. E infatti tra gli imprenditori qualcosa si sta già muovendo: investire negli USA, realizzare fabbriche negli Stati Uniti. Ma non è una scelta semplice.
Una strada che non è certo alla portata delle imprese più piccole…
Bisogna avere una certa stazza, ma per realizzare una fabbrica ci vuole comunque molto tempo e molte risorse.
E il made in Italy come se la caverà? Probabilmente Ferrari continuerà a vendere anche a prezzi più alti, ma i rubinetti? I nostri mobili? Possono provare a trovare sbocchi nei mercati indicati nel Piano Tajani?
Non è così semplice. Le famose 4 A – Abbigliamento, Arredamento, Automotive, Agroalimentare – pesano per il 20% circa del nostro export, ma ma ne sono più il traino principale. Oggi il cuore delle esportazioni italiane è fatto dalla meccanica, dalla farmaceutica, dalla chimica. E poi c’è un altro punto chiave: non basta avere i soldi da investire, servono le competenze. È la capacità delle persone di fare le cose che fa la differenza. Ed è proprio questa expertise che l’Italia ha costruito in 150 anni di storia, a dare ai prodotti italiani il vantaggio competitivo che hanno.
Quindi, ragionevolmente, trovare altrove alternative ai mercati che richiamo di perdere non sarà possibile.
Qualche nuovo mercato lo troveremo, ma sono mercati marginali. Proprio per questo dobbiamo puntare sulla crescita, e sostenuta, di un mercato interno europeo. Questo dovremmo fare. Un mercato interno europeo che cresce, che si allarga, che si espande, potrebbe essere la vera alternativa, Certo, resta un mercato un po’ più piccolo di quello americano, ma se inizia a crescere davvero, può compensare ciò che non riusciamo più a vendere negli Stati Uniti.
E come si può fare a farlo crescere? Servono politiche europee, o può bastare un’azione di politica economica italiana?
Ma no, scordiamoci che la politica di una singola nazione possa funzionare. Servono politiche europee e tante risorse, bisogna fare investimenti. Io sono arrivato alla convinzione che la politica del blocco dei salari è stata nefasta. Non ha funzionato, ci ha impoverito.
Insomma, non potendo più vendere agli americani, dovremo fare in modo che gli italiani, ma anche i polacchi, i bulgari, gli spagnoli possano acquistare più prodotti del Made in Italy. Facciamo guadagnare di più gli europei, così compreranno le cose italiane. Giusto?
Esatto.