Oltre la tecnica. Come la GenAI ridefinisce il vero

La GenAI appare come una soglia antropologica, non solo tecnologica. L’Europa risponde con regole, ma ciò che è in gioco è l’ontologia stessa dell’umano
Tv

Viviamo in un’epoca in cui non si producono soltanto beni, ma ontologie. L’intelligenza artificiale generativa (GenAI) – protagonista del recente Generative AI Outlook Report della Commissione Europea – non si limita a eseguire, ma instaura: è il principio attivo di una nuova iperproduzione semantica, un’industria del senso che prescinde dall’intenzionalità soggettiva. Ogni istante, macchine linguistiche generano testi, immagini, suoni che non hanno mai attraversato una coscienza, né necessitano di una destinazione umana per esistere.

L’Europa tenta di imbrigliare questa forza attraverso dispositivi normativi novecenteschi – watermark, AI Act, trasparenza obbligatoria – ma, come ha sottolineato Byung-Chul Han, la trasparenza assoluta genera una nuova opacità. L’etichetta universale “Contenuto generato da IA” dissolve ogni differenza: nella tautologia dell’etichettato, l’autentico scompare. L’ontologia del documento si smaterializza in un flusso continuo di segni che, proprio perché segnati, perdono consistenza.

Il report interroga anche la dimensione produttiva: la GenAI non si limita a sostituire funzioni lavorative, ma ridefinisce i regimi di significazione. Automatizza l’interpretazione, compone senza vissuto, crea senza soggetto. L’essere umano, in questo contesto, si riconfigura come prompt engineer , figura sacerdotale e liturgica, incaricata non di comprendere ma di evocare – attraverso formule linguistiche – una divinità computazionale, indifferente ma potentemente esecutiva.

Particolarmente densa è la sezione sui commons digitali. Archivi aperti, enciclopedie collettive, repository di sapere condiviso rischiano di essere saturati da materiale artificiale. Si tratta di un nuovo rumore ontologico: una babele generativa che rende indistinguibile il sapere dalla sua simulazione. E nel rumore, il silenzio – condizione trascendentale della riflessione – svanisce. Perché il pensiero non è nella moltiplicazione dei segni, ma nel loro sospendere.

L’attenzione verso i minori è doverosa, ma il vero nodo non è la sicurezza, bensì l’esperienza. L’infanzia che si delinea all’orizzonte è priva di attesa, sorpresa, disorientamento: strutture essenziali della soggettivazione. Domandare non sarà più un gesto rivolto all’altro, ma un’operazione su interfaccia. Il dialogo si trasforma in comando. L’alterità si ritrae.

Il report parla di allucinazioni per indicare la generazione di falsità verosimili. Ma forse l’allucinazione è già strutturale: non è nella macchina, ma nel nostro sguardo. In un mondo dove il virtuale non si aggiunge al reale, ma lo sostituisce, la distinzione tra verità e simulacro implode. L’ontologia del reale si fa calcolabile, la memoria diventa funzione.

La risposta europea è solida, ma destinata all’insufficienza. Non si normativizza un’episteme. La GenAI non è un fenomeno da regolare: è una mutazione della struttura della conoscenza. Più che un problema tecnico, essa costituisce una soglia antropologica. Chiede una riformulazione del concetto stesso di umano.

Forse, ciò che serve è una nuova ecologia della mente (per dirla con Bateson): spazi e tempi in cui l’asimmetria tra uomo e macchina venga reintegrata nell’esperienza, non soppressa. Un digiuno digitale, non come rigetto della tecnica, ma come condizione dell’elaborazione simbolica. Non è questione di nostalgia, ma di sopravvivenza cognitiva.

La vera domanda, alla fine, non è se sapremo governare l’intelligenza artificiale, ma se sapremo ancora riconoscerci come umani. In un mondo dove anche l’umano diventa generato, replicato, computato, l’ultimo atto di resistenza potrebbe essere questo: custodire il mistero. Non contro l’algoritmo, ma nonostante esso

Previous slide
Next slide
Previous slide
Next slide
Previous slide
Next slide