Liberalizzazione dei subappalti taglia sprechi? O deprime i salari? La liberalizzazione rischia di polverizzare il tessuto produttivo

La frantumazione del potere contrattuale dei lavoratori porta alla imposizione di salari più bassi e differenziati tra chi fa lo stesso lavoro e percepisce paghe più basse. Uno studio della Fondazione Giuseppe Di Vittorio

Stesso lavoro, 500 euro in meno. Basta curiosare in ufficio e in cantiere per rendersi conto che ormai non basta più avere la stessa mansione – neanche respirando la stessa aria – per godere del medesimo trattamento economico. Il modo è semplice: frantumare il potere contrattuale dei lavoratori e imporre salari più bassi. Per questo la liberalizzazione dei subappalti – Matteo Salvini sostiene che “taglia sprechi e offre più lavoro” – rischia in realtà di deprimere ancora di più le retribuzioni: in Italia si guadagna meno di trent’anni fa, a parità di professione, livello di istruzione, di carriera. Un lavoratore del Bel Paese si porta a casa a fine mese (in media) 15 mila euro in meno all’anno di un tedesco e quasi 10mila euro di un francese.

Incolpare i contratti precari – che pure crescono passando da 1,3 milioni, circa il 40% del totale, a 2,7 milioni circa il 64,6 % (dati Fondazione Di Vittorio) – significa cogliere solo un aspetto del fenomeno. È la strategia del decentramento produttivo (di cui i subappalti sono uno dei tanti modi di applicazione), “che – scrive già alla fine degli anni ’70 l’economista Francesco Farina – consente ai capitalisti di superare la rigidità della forza lavoro consentendo un nuovo sfruttamento operaio”.

Giuseppe Di Vittorio, l'antifascista di campagna - Patria Indipendente
Giuseppe Di Vittorio                                                                                       

Il metodo è diabolico (nel senso etimologico, divisivo): in assenza di un’efficacia generalizzata dei contratti collettivi – la seconda parte dell’articolo 39 della Costituzione è ancora lettera morta – il subappaltatore può andare a pescare tra quei 350 accordi pirata (circa il 38% del totale) sottoscritti da associazioni datoriali e sindacali non rappresentative, che coprono pochissimi lavoratori e che soprattutto presentano condizioni contrattuali spesso peggiorative (anche sulla formazione, attenzione agli incidenti sul lavoro). In un contesto caratterizzato da piccole e medie imprese dove solo tre aziende su cento non hanno mai esternalizzato, liberalizzare i subappalti rischia di polverizzare in modo definitivo il tessuto produttivo. Non basta neanche un generico riferimento nella legge all’applicazione della contrattazione collettiva – a causa della disponibilità di quella pirata.

Occorre invece capire – se non si vuole introdurre un salario minimo – che l’articolo 39 della Costituzione o si attua (con la stipulazione di accordi valevoli erga omnes) o si abroga: consentendo, in quest’ultimo caso, di poter recepire con legge il contenuto dei contratti ed estenderli a tutti. Ma bisogna fare presto, i salari italiani (più bassi del 12% rispetto al 2008 in termini reali) sono fra gli ultimi in Europa: e non sono solo fermi ma sono diminuiti negli ultimi 30 anni.  Le tendenze dell’inflazione indicano poi anche per il 2023 un indice in media superiore al 5% in un contesto di rallentamento del Pil italiano (dal +3,9% del 2022 al + 0,4 % del 2023).

 

Andrea Persili – Giornalista

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