I guardiani dell’informazione e il potere. Sulla conferenza stampa dell’on. Meloni

Abbiamo seguito con curiosità e qualche aspettativa (purtroppo delusa)  la conferenza stampa della presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Avvenuta un po’ fuori tempo massimo, a causa di due rinvii, su cui si erano puntualmente avventati come falchi i professionisti della dietrologia nostrana, immaginando chissà che cosa, per esempio la “paura” della Presidente di sottoporsi al fuoco di fila (sia fa per dire) delle domande dei giornalisti.

Sicché ha avuto buon gioco l’on. Meloni a ironizzare su questo punto smentendo qualsiasi difficoltà psicologica, a parte l’indisposizione che le aveva impedito di tenere la conferenza stampa nel periodo consueto a cavallo di Natale.

Non entreremo nel merito delle domande fatte alla presidente del Consiglio. Su questo riferirà Federica Fantozzi. Ci limitiamo solo ad alcune osservazioni, che attengono al modus operandi della stampa italiana nei riguardi di chi detiene pro tempore il potere.

Intendiamoci, non siamo negli Stati Uniti, dove la stampa morde, a volte anche rabbiosamente e lascia i segni di metaforici denti nei polpacci dei governanti. Da noi ormai si preferisce usare il modo soft, ossequioso, quasi salottiero,  o fintamente aggressivo. E perfino dai giornali che si riferiscono alle opposizioni, e che un giorno sì e l’altro pure sparano palle di carta sul governo, sono mancate punture di spillo, affondi, “provocazioni polemiche”.

Una spiegazione c’è, ed è tutta interna alla stampa italiana. Una cosa che ha colpito e stupito è questa contraddizione: il presidente dell’Ordine dei Giornalisti Carlo Bartoli ha avvisato la presidente del Consiglio che c’erano assenze nei banchi della grande auletta dei Gruppi parlamentari: la Fnsi (Federazione nazionale della stampa italiana) avrebbe disertato la conferenza stampa per protestare contro il provvedimento del governo chiamato “legge bavaglio” (che impedisce la pubblicazione integrale dell’ordinanza di custodia cautelare, prima che s‘inizi il processo).

La domanda sorge spontanea: ma allora tutte quelle decine di giornalisti che hanno fatto le domande a quale federazione della stampa appartengono? Di federazioni ne esistono solo due: la Fnsi, e da un anno un altro sindacato che dalla Fnsi si è staccato, la Figec (federazione non solo di giornalisti e pubblicisti ma anche di comunicatori).

E allora: tutti i giornalisti che hanno fatto le domande se non erano della Fnsi che aveva dichiarato il suo Aventino, erano tutti della Figec? Se così fosse bisognerebbe complimentarsi con il suo segretario Carlo Parisi per aver arruolato in così pochi mesi tanti giornalisti.

Invece non tutti erano della Figec, per cui l’Aventino della Fnsi era solo un gesto dichiarato, anche nella premessa di alcuni giornalisti che prima di porre la domanda avevano manifestato solidarietà alla federazione, ma non effettivamente praticato.

Sembrano questioni corporative, che al lettore possono interessare poco, invece no, perché al cittadino –lettore non può essere indifferente il ruolo della stampa di testimone della verità e di cane da guardia della democrazia, se non vogliamo usare la trita definizione di contro-potere.

Si è spesso detto che con una opposizione politica qual è quella praticata oggi in Italia – frastagliata, divisa e confusa – questo governo può dormire sonni tranquilli, e può cadere solo per un suo karakiri, non per assalti esterni.

Analogamente, e lo diciamo con amarezza, con questa stampa, che suggerisce il sospetto di una gelatinosa omologazione di comportamenti, questo governo può dormire sonni non solo tranquilli ma tranquillissimi.

Ho contato i minuti: si è dovuto aspettare un’ora per ascoltare una domanda in materia di politica estera, e sì che ci sono due guerre in atto, le elezioni americane, le elezioni europee.

Nessuna domanda sul ponte di Messina, un tema costoso e divisivo, e a maggior ragione meritevole di attenzione. Nessuna domanda sul Mezzogiorno, spesso citato, come la evasione fiscale, come una questione nazionale centrale. Nessuna domanda sulle famiglie, sui bilanci sempre più precari con l’aria che tira.

Per il resto, domande prevedibili – e comunque necessarie – sugli episodi imbarazzanti per il governo (il deputato con la pistola, i guai del cognato di Salvini) per cui la presidente del Consiglio ha avuto buon gioco a rispondere. Anzi ha detto al giornalista di turno: la ringrazio per questa domanda. In un libro che ho scritto anni fa, chiedo scusa dell’autocitazione, Il Curioso giornalista (ed. Media & Books) ho sostenuto che un politico che dica a un giornalista la ringrazio di questa domanda, al di là di ogni buona intenzione, lo ha praticamente ammazzato.

 

 

 

Cogliamo l’occasione per suggerire alla stampa parlamentare e all’Ordine dei giornalisti che collabora alla organizzazione della conferenza stampa, di pensare a una possibile riforma di questo evento: così è una passerella in cui il giornalista si prepara la domanda (che talvolta sono due tre intrecciate) e quale che sia la risposta, non può replicare neanche un secondo. Non è ammessa la replica. Funzionavano meglio le tribune politiche dove era prevista la domanda e una brevissima replica del giornalista.

Uno potrebbe obiettare ma così la conferenza dura più delle due ore di oggi. Non è detto: si faccia un sorteggio meno ampio, e si cambino le regole di ingaggio , una formula che tanto piace alla presidente del Consiglio, che oggi  l’ha ripetuta più di una volta nelle sue risposte.

Con la replica, non sarebbero passate liscie almeno un paio di risposte date con nonchalance dalla presidente del Consiglio.

Sulla cosiddetta “legge bavaglio”, Meloni ha glissato dicendo: hanno protestato contro il governo, invece la legge è passata con un emendamento del Parlamento.  Non dovevano venire a protestare sotto le finestre di Palazzo Chigi ma di Camera e Senato.

Un giornalista con facoltà di replica avrebbe tranquillamente ribattuto a questa frase della presidente del Consiglio che aveva tutta l’apparenza di un sofisma:

se quell’emendamento è stato approvato, è perché ha avuto il consenso del relatore e del governo. Se il governo avesse detto no, l’Aula, dove la maggioranza è forte, lo avrebbe bocciato.

Ma c’è stata un’altra risposta della presidente del Consiglio che ho notato per la sua singolarità. A una domanda, finalmente secca, precisa, non da comizietto come qualche giornalista amante della tribuna usa fare, e cioè: presidente Meloni, è giusto, è corretto che un ministro (Salvini, NdR) incontri un cliente di suo cognato?

Risposta della Meloni: dipende da che cosa si tratta, di che argomento debbono parlare.

Sommessamente, per usare un avverbio che le è caro: Eh no, signora presidente del Consiglio: dipende da niente. Un ministro non incontra un cliente di suo cognato.

Anche se non c’è nulla di penalmente rilevante, c’è qualcosa di più rilevante: ed è l’etica pubblica, lo stile di governo. Se non vogliamo scomodare la moglie di Cesare. Quando gli chiesero perché la ripudiasse pur sapendola innocente, il Dittatore rispose: perché la moglie di Cesare deve non solo essere ma anche apparire al disopra di ogni sospetto.

 

Simone Massaccesi Redattore

 

 

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