I buoni e i cattivi esistono. Forse. Ma i movimenti della politica e, nel lungo periodo, della Storia esistono di sicuro. Scontri di forze, poteri che non sono mai tutti bianchi o tutti neri, ma che si combattono, si accordano, si intrecciano. La cui esistenza e operatività rimangono indecifrabili a chi li giudica secondo la contrapposizione da tifo calcistico tra “nostri” e “loro”, tra simpatici e antipatici, tra buoni e cattivi.
Parlando di futuro digital: Elon Musk è buono o cattivo? Abbiamo visto in questi giorni la sua riconciliazione con Donald Trump, e prima il suo allontanamento dalla nuova amministrazione Usa, e prima ancora il figlio X Æ A-Xii (una volta ci sembrava strano Frank Zappa che aveva chiamato la figlia Moon Unit) che giocava placido nella Sala Ovale, al tempo verde del sodalizio Trump/Muskiano. A pochissimi è venuto in mente di fare la tara a simboli e a discorsi disruptive, e di considerare Musk per quello che è: un signore che ha contratti per miliardi di dollari col governo americano, dal settore aerospazio in poi. Al di là di ogni apparenza e polarizzazione è un normale titolare di ditta d’appalto, attento ai propri interessi.
E al di sotto di questi elementi di folklore che del resto sono tipici delle arie da “renegade” degli imprenditori digitali (“ricordiamo tutti il “siate affamati siate folli” di Steve Jobs) uno scontro di visioni tra i leader del mondo digitale c’è, davvero. La Silicon Valley, nella parte meridionale della Bay Area di San Francisco, la zona dell’innovazione mondiale in cui sono stati inventati i microchip, e dove sembra che tutte le idee “disruptive” abbiano la loro culla e i loro profeti, non è più un oggetto ideologicamente unitario come ai tempi di Clinton e di Al Gore, durante i quali si parlava di “autostrade informatiche” che avrebbero dovuto veicolare un “frictionless capitalism”, un capitalismo ben oliato, senza limiti e confini.
Tra i migliaia di imprenditori e innovatori digitali della zona emergono scuole di pensiero diverse. Idee di futuro diverse. Che di necessità si devono interfacciare con la politica americana, vale a dire con le esigenze pratiche di chi, nel bene e nel male, governa il pianeta.
Le idee principali che guidano l’innovazione tech negli Usa sono tre, ben rappresentate dai tre personaggi leader che le incarnano, i tre Re Magi della Silicon Valley.
Abbiamo appunto Mark Zuckerberg, che raccoglie le piattaforme dall’archetipico Facebook a Instagram a Whatsapp sotto la compagnia unitaria Meta. Zuckerberg è storicamente vicino ai Repubblicani e in particolare a Peter Thiel, da molti considerato l’eminenza grigia della Silicon Valley. Thiel, classe 1967, di origini tedesche mai rinnegate ma sempre accarezzate, è uno dei primi imprenditori digital ad essersi dichiarato apertamente gay. È anche noto per essere stato uno dei più attivi e generosi donatori di Donald Trump, e per essere l’animatore di una nuova corrente politica della destra americana chiamata “New Right”. È il volto del trumpismo oltre Trump. L’idea di futuro e di umanesimo di Meta è chiara: raccogliere tutta l’umanità davanti (o dietro) a uno schermo grazie ai visori, che per ora sono un flop, ma la strada è appena iniziata. Un ambiente immersivo, omnicomprensivo, la cui immagine è seducente, ma che trova parecchie resistenze all’interno delle strutture politiche Usa.
Poi abbiamo il personaggio forse più istituzionale e influente, nonostante di lui si parli meno che di altri in termini tifosi. E stiamo parlando di Eric Schmidt, che è stato Ceo di Google dal 2001 al 2011 ed è il vero, felpato, artefice del successo del motore di ricerca/piattaforma più importante dell’Occidente. Sua l’idea del modello di business basato sui dati, sua l’idea di un certo “understatement” politico rappresentativo. Dal punto di vista del ruolo dei digital Schmidt ritiene che non tutto si possa stemperare in un qualche metaverso, e che l’intelligenza artificiale non serva a creare mondi paralleli, ma a governare questo mondo. Infatti in politica Schmidt è un realista di ferro. Amico e collaboratore di Henry Kissinger, con cui ha pubblicato l’ultimo libro, da poco edito in italiano: L’era dell’intelligenza artificiale (Mondadori), plenipotenziario informatico con Barack Obama prima, poi con Joe Biden, distaccato nell’era Trump 2, Schmidt si divide, come d’uso, tra i ruoli di ideologo informatico politico civile e filantropo.
E infine Musk, di cui si sa molto, ma al di là dei fatti folklorici, la cui posizione riguardo al futuro dell’umanità e della tecnologia è peculiare. Una sorta di paladino dell’umanità in versione anche cyborg. Da una parte spinge perché la desolata demografia occidentale si risollevi, dall’altra lavora perché le reti neurali realizzino un’interfaccia uomo-macchina sempre più potente. Meglio ripeterlo: gli atteggiamenti da scheggia impazzita di Musk coprono solidi interessi con le istituzioni Usa, come testimoniato durante la guerra in Ucraina, nel corso della quale ha subito messo a disposizione la rete Starlink alla compagine di Zelenskyy. D’altra parte Musk parla con la Cina senza problemi, il che senz’altro accresce la sua aria da maverick. Ma siamo sicuri che l’irregolare sia poi così tanto tale? Che il bianco sia davvero così bianco e il nero sia davvero così nero?




