Dare l’allarme dalla torre per meritarsi l’avorio

Il libro “militante” di Tomaso Montanari sullo stato dell’Università

 

Insegno da 7 anni in un’università pubblica giovane, che compirà 26 anni il 5 agosto. I rettori che si sono avvicendati da quando sono entrata all’Università di Foggia hanno inteso l’ateneo come un luogo di servizio per la comunità civile, non solo universitaria. Nonostante si trovi in uno dei territori più difficili d’Italia per il radicamento di mafie e malaffare, l’università di Capitanata mi è sembrata da subito un presidio civile e di legalità, che offre un contributo concreto agli studenti e ai cittadini per farli evolvere in una direzione “più umana e sostenibile”, “in comunione con la città”.  Questo scopo in primo luogo civile, e poi didattico e nozionistico, è quello che Tomaso Montanari attribuisce alla Libera università nel suo ultimo libro militante, che ha questo titolo e che inizia con un esergo dalla canzone La vita dei Baustelle (“La vita è bella: gli studenti hanno distrutto la città, e le statue degli dèi. È primavera”: p. 3), che sembra instaurare un legame con il precedente libro militante dell’autore, Le statue giuste (Laterza 2024), nel quale Montanari contestualizzava storicamente le azioni di damnatio contro statue e monumenti da parte di masse occidentali oppresse e sconfitte, illustrando quanto sia giusto che le memorie materiali siano al centro di un conflitto che è, oggi, di nuovo sociale e di classe. 

Libera università è nato dentro l’università, che Montanari conosce in ogni aspetto didattico e amministrativo in quanto è professore e rettore all’Università per Stranieri di Siena, dove ha portato la sua esperienza di ricerca e didattica da altre università pubbliche italiane e il rigore e l’apertura scientifica e mentale dovute alla formazione alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Grazie a queste esperienze professionali e all’impegno continuativo nel dibattito pubblico sui media, Montanari ricorda con fonti e dati alla mano che l’autonomia delle università, in pericolo anche in Italia, va difesa da chi ci lavora perché dall’autonomia delle università passano la democrazia e il rigetto di un’involuzione illiberale che coinvolgerebbe, che coinvolgerà, anche altri organismi del Paese. 

Montanari ha scelto come titolo la formula che spetta non alle università pubbliche ma alle università private (oggetto di una parte dell’analisi del libro): “Libera università”. “Si chiamano, tradizionalmente, “libere università” le università non statali: ma è il momento di ribadire con forza che tutta l’università, a partire da quella pubblica, o è libera, o non è università. Mai come ora, infatti, abbiamo bisogno di un luogo di pensiero libero, divergente, scardinante, non subordinato

agli interessi di chi detiene il potere: l’università è quel luogo, se riusciamo a difenderne l’autonomia, e dunque la libertà” (p. X).

Il tema centrale è l’autonomia universitaria, che sta subendo attacchi governativi sempre più pressanti perché non sia declinata in termini di “libertà di pensiero e di ricerca” (p. 12). Questo effetto si ottiene in prima battuta falcidiando i finanziamenti statali all’università pubblica: a luglio 2024 è arrivata la notizia di un taglio cospicuo che, secondo i calcoli della CRUI (la Conferenza dei rettori), coincide con una “diminuzione di 513.264.188 euro, cui va aggiunto il mancato adeguamento all’inflazione (alla quale sono agganciati gli stipendi universitari, a carico dei bilanci degli atenei)” (p. 14). Un mese dopo, il Consiglio dei ministri ha colpito ulteriormente l’università pubblica, approvando un disegno di legge contenente la riscrittura del cosiddetto pre ruolo, “la delicatissima fase di ingresso nell’insegnamento universitario” (p. 15). 

Lo scopo del disegno di legge è rendere il precariato praticamente eterno, quasi per nulla o miserabilmente compensato, con la conseguenza di trasformare i ricercatori e i professori in pedine prive di autonomia intellettuale perché dipendenti economicamente da un sistema di reclutamento sempre più patologico e controllato. Noi stessi, pertanto, finiamo per considerare accettabile per i futuri reclutamenti un periodo di pre ruolo che duri non oltre i 14 anni (14 anni!), proprio perché chi arrivava, chi arriva “presto” a vincere un concorso per un posto a tempo indeterminato ci mette molto più tempo: io stessa ho vissuto 16 indimenticabili anni di precariato pre ruolo che mi portano a sconsigliare sistematicamente chiunque mi chieda consiglio di intraprendere la mia stessa strada, fino a che è in tempo per sceglierne un’altra.

Montanari inanella una serie di fatti che spiegano come la mania governativa del controllo sulla scuola e sull’università si estrinsechi anche in azioni e dichiarazioni grottesche e sinistramente autoritarie, come l’interrogazione parlamentare del leghista Rossano Sasso che ha portato a un’istruttoria del Ministero dell’Università su un corso di teoria queer svoltosì all’Università di Roma 3 e all’Università di Sassari, con il risultato che la ministra Bernini ha affermato che “la libertà di insegnamento deve comporsi con la tutela della dignità della persona” e che “è necessario un equilibrio nel quale non possono trovare spazio percorsi ideologici che adombrino incitamenti a forme di pressione sui minori” (p. 25): ma gli studenti universitari sono maggiorenni. 

Le mani sull’università e sul ruolo che ancora conserva per insegnare l’uguaglianza e la dignità della persona si mettono, ormai, perché siamo entrati nel clima inaugurato dal discorso Le università sono il nemico con cui James Vance nel 2021 esplicitava la strategia che lo ha portato alla vicepresidenza degli USA: “Dobbiamo attaccare in modo aperto e aggressivo le università di questo paese” (p. 26).

Partecipando, con una quarantina di storici dell’arte italiani di diverse scuole di origine, di diverse generazioni e di differente posizione professionale, a un “dibattito sullo specialismo con i suoi meriti e i suoi rischi” coordinato da Sandra Pinto e Matteo Lafranconi e confluito nel libro Gli storici dell’arte e la peste (Electa 2006, pp. 153-154), a 35 anni Montanari rispose evocando la figura di Giovanni Previtali, che aveva dedicato energie consistenti all’impegno civile come storico dell’arte professore nelle università di Messina, Siena e Napoli:

“Se la domanda è, tra le righe, vi manca un Previtali, la risposta è sì: mi manca moltissimo uno storico dell’arte che intervenga ad ampio raggio e sappia incidere financo con cattiveria non solo sulle questioni attinenti alla disciplina, ma anche in quelle della società e della politica. Ma aggiungo che oggi un impegno previtaliano non potrebbe che sbocciare da uno specialista che non abbia tirato i remi in barca, e non certo da un tuttologo o da un grande studioso decotto”.

Vent’anni dopo quel confronto tra storici dell’arte che discutevano delle secche della “peste” (cioè dell’iperspecialismo nel quale è più facile arroccarsi, perché si studia meno ma si appare più autorevoli), il declino è sotto gli occhi di tutti, per gli effetti delle riforme, per il crescente sopravvento di tecnologie e intelligenza artificiale sulle competenze umane degli storici dell’arte, per l’isolamento nel quale chi pratica questo mestiere spesso può venirsi a trovare, se non pratica anche la strada della divulgazione e dell’impegno civile e sociale.

Non tutti i professori universitari, non tutti gli storici dell’arte, hanno il talento e il coraggio di incidere sulla disciplina, sulla società e sulla politica. Montanari ha tradotto la vocazione manifestata molti anni fa in un impegno quotidiano pubblico (che, tra le altre cose, ha condotto alla inqualificabile vicenda della mancata riconferma a Presidente della Fondazione del Museo Ginori, avvenuta mentre scrivo). Il modo di intendere il mestiere di professore in un’università pubblica è un esempio per chi, ogni giorno, in altre università pubbliche e negli spazi di discussione e divulgazione deve e vuole creare un’oasi per dare un significato e uno scopo al proprio mestiere e al proprio ruolo in questo (probabilmente di nuovo ventennale) flagello di matrice fascista che non abbiamo scelto.

L’università non può essere solo un luogo dove perpetuare “il mondo com’è, ma un laboratorio di insorgenza critica che forgi strumenti per cambiarlo, il mondo” (p. X). Montanari lo ricorda, da storico dell’arte, con le parole di un illustre predecessore, Erwin Panofsky, professore a Princeton, dove approdò fuggendo dalle persecuzioni naziste contro gli ebrei. Panofsky trovava offensiva l’espressione “torre d’avorio”, spesso usata per descrivere lo stato nel quale si chiude chi fa il nostro mestiere. Panofsky riteneva che, “per meritarsi l’avorio, bisogna ricordarsi a cosa servono le torri, cioè l’università” (p. 28):

“Socrate, Erasmo da Rotterdam, Galileo, Voltaire, Zola, Einstein – tutti abitanti della torre – hanno levato la loro voce non appena si sono accorti che la libertà era in pericolo. E nonostante queste voci siano spesso state ignorate o messe a tacere mentre si levavano, esse continuano a risuonare nelle orecchie della posterità” (pp. 28-29).

Floriana Conte – Professoressa di Storia dell’arte a UniFoggia (floriana.conte@unifg.it;Twitter:@FlConte; Instagram: floriana 240877) e Socia dell’Accademia dell’Arcadia

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