Come D’Artagnan, Pietro Di Muccio è andato alla conquista della Capitale

Novello D’Artagnan, un giovanissimo Pietro Di Muccio de Quattro, un uomo con due cognomi che si è fatto pure un nome, lasciò il paesello natìo e andò alla conquista della Capitale. Giulio Andreotti sosteneva che l’importante per una lunga vita è avere buoni ascendenti. La stessa cosa si potrebbe dire di Pietrino, come lo chiamo da tempo immemorabile. Lui non solo ha ottimi ascendenti, tant’è che il padre Guido è stato stimato sindaco del borgo natìo per un bel po’. Ma è nato in un luogo dove Vittorio Emanuele II incontrò un Giuseppe Garibaldi vittorioso sul Borbone. E fu fatta l’Italia.

Pietro Di Muccio de Quattro, Autore presso Fondazione Luigi Einaudi

Pietro Di Muccio de Quattro

Tutto questo e molto altro ancora ce lo racconta il sullodato Pietrino in un libro – rara avis – ben scritto, godibilissimo e non privo d’ironia. S’intitola Deputato per caso. Ricordi personali e memorie politiche, Macerata, Edizioni Simple, pagine 212, € 15.

Deputato per caso. Ricordi personali e memorie politiche - Pietro Di Muccio  de Quattro - Libro - Simple - | IBS

Il paragone con D’Artagnan non è affatto esagerato. E perché non s’insuperbisca il chiaro Autore, non lo salutiamo come il nuovo Cesare con il suo Veni, vidi, vici. Sta di fatto che le cose stanno precisamente così. Perché il sullodato Autore potrebbe cingersi il capo di alloro per i molteplici successi che gli riserverà Roma.

Così si reca nello Studium Urbis di mussoliniana memoria e si laurea in Giurisprudenza con 110 e lode dopo aver superato tutti gli esami a pieni voti. Anche nelle materie più ostiche e con docenti autorevolissimi che erano lo spauracchio degli esaminandi. Già che c’è, di lì a poco si laurea brillantemente anche in Scienze politiche e, per di più, non fatica a impreziosire il proprio curriculum con un dottorato di ricerca. Ma tutto questo, come ben sanno i più avveduti, non è un traguardo ma un punto di partenza. Dopo uno studio non proprio matto e disperatissimo, perché Di Muccio supera con scioltezza ogni ostacolo, ecco che pure lui si ripropone l’interrogativo di Lenin: che fare? Concorsi a più non posso, elementare Watson. E ben presto gli si aprono le porte di Palazzo Madama come vincitore di un concorso per consigliere parlamentare: un posto tra i più ambiti e, il che non guasta, ben retribuiti.

Ben presto Di Muccio, con la sua prorompente personalità, si mette in luce. E a uno a uno supera brillantemente le tappe di una luminosa carriera. Non è fatto con lo stampino. Non passa certo inosservato. Tra i tanti pregi non ha quello della diplomazia. E così finisce per scontrarsi con il potente segretario generale del Senato Gaetano Gifuni. Detto Parolina o Prudenziano perché si fa concavo e convesso a seconda dei casi e delle convenienze. Un uomo, io l’ho conosciuto bene, che come Gianni Letta metterebbe d’accordo Guelfi e Ghibellini, comunisti e anticomunisti, monarchici e repubblicani. Con tutti, ma con Di Muccio no. Per il suo temperamento a volte dalla ragione passa al torto. Si spezza ma non si piega come canna al vento. Insomma, se ci capite, Di Muccio e Gifuni sono come cane e gatto. Sono fatti per non intendersi. E Gifuni, passato da Palazzo Madama al Quirinale con Oscar Luigi Scalfaro, gliela farà pagare. Ponendo il veto a un suo incarico ministeriale facendogli il più grande dei complimenti: “Non si governa”. Come è tipico degli uomini liberi.

Questo libro di Di Muccio è una miniera di fatti, fatterelli e notazioni istruttivi e divertenti al tempo stesso.  Descrive come meglio non si potrebbe la sua amicizia con Cesare Zappulli, un giornalista che si faceva capire per i suoi estrosi pezzi di economia, e con il carissimo mio amico Antonio Martino, che da buon siciliano aveva una venerazione per la madre, ma che per il gusto di una battuta – come si dice per scherzo – se la sarebbe venduta.

Addio all'ex ministro Antonio Martino - ilGiornale.it

Antonio Martino

Per non parlare dell’incontro con Indro Montanelli, un Mito per chi come Di Muccio si considera tuttora un Indrocefalo. Bastian contrario, Di Muccio s’iscrive al Partito Liberale Italiano. Non contento di militare in un partito minoritario, s’imbranca in una corrente minoritaria del partito. Ma il verbo imbrancare gli sta stretto. La corrente predetta ha un solo estimatore: manco a dirlo, lui stesso. Un Don Chisciotte dei nostri tempi.

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Indro Montanelli

Dopo Palazzo Madama, Di Muccio approda a Montecitorio come deputato. Deputato per caso, dice lui. La verità è un’altra. A sponsorizzarne la candidatura è Antonio Martino, il numero 2 dell’appena costituita Forza Italia. Ma il resto ce lo mette Di Muccio. Ottiene, nell’estrema periferia romana, un collegio elettorale a perdere. Perché i sondaggi lo darebbero perdente. Ma lui con pochi mezzi si batte come un leone, acquista la fiducia di molti elettori e ottiene più del cinquanta per cento di voti stracciando il potente candidato di sinistra. Con l’esperienza acquisita al Senato, a Montecitorio è baciato di continuo dalle luci della ribalta. Anche perché, siamo giusti, la classe politica del Cavaliere è piuttosto raccogliticcia e digiuna di prassi parlamentari. Fa impazzire la giovane presidente della Camera, la leghista Irene Pivetti, senz’arte né parte direbbero i maligni, con i suoi richiami al regolamento. E una volta che è passata a buon diritto se non alla storia alle storielle parlamentari, si appellò all’articolo 155 del regolamento della Camera. E all’obiezione della Pivetti che non esiste perché il regolamento ha solo 154 articoli, Di Muccio replicò: “Esiste, esiste: è quello del buonsenso”.

Di Muccio poi dedica un magnifico ritratto a Silvio Berlusconi.

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Silvio Berlusconi

Come Elena di Troia secondo Goethe, anche di lui si potrebbe dire che è molto amato e molto biasimato. In effetti, l’uomo è divisivo. O si sta con lui o contro di lui. Una volta in Transatlantico si diceva che se si sta lontano dal Dottore si patisce il freddo, se si sta né troppo vicino né troppo lontano si sta al calduccio. Ma se gli si sta a ridosso, ci si brucia. Di Muccio per qualche tempo se n’è stato al calduccio. Sia pure a modo suo. Ma alle lunghe erano fatti per non intendersi. Perché Berlusconi considera i suoi dei dipendenti. Mentre Di Muccio è un uomo che parla con tutti ma non si confonde con nessuno. È il suo bello, come si dice a Firenze.

Questo ritratto mi è venuto di getto. Perché, modestia a parte, quello che ho detto di Di Muccio vale in qualche misura anche per il sottoscritto, affezionato più al proprio sudore che al profumo altrui.

 

Paolo ArmaroliProfessore Ordinario di Diritto pubblico comparato, docente di Diritto parlamentare, già deputato nella XIII legislatura

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