La pubblicazione delle Nuove Indicazioni per la Scuola dell’Infanzia e Primo Ciclo d’Istruzione da parte del Ministero dell’Istruzione e del Merito (disponibili sul sito) ha rilanciato il dibattito sull’insegnamento della storia, oggetto a suo tempo di un vivace confronto sulle colonne del “Corriere della Sera” fra il fisico Carlo Rovelli e il professor Ernesto Galli Della Loggia.
Occorre precisare che tali indicazioni non costituiscono nulla di definitivo, ma vengono presentate con molto understatement come “materiali per un dibattito pubblico” aperto a tutti i contributi, anche dissonanti. Ciò nonostante, il dibattito giornalistico su di esse ha registrato insieme a interventi costruttivi molte critiche prevenute, volte a cogliere nel documento ministeriale una sorta di manifesto della scuola, e soprattutto della storia, “sovranista”.
In realtà, all’interno dell’impianto delle Indicazioni, è possibile cogliere alcune grandi novità, che solo in parte possono essere considerate di carattere ideologico.
La principale è il ritorno a un insegnamento della storia in chiave soprattutto eurocentrica, criticato da chi sarebbe interessato, per motivi anche di carattere politico, a un approccio globalista alla didattica di questa disciplina, magari in nome della “inclusività” nei confronti del “nuovi italiani”.

La Storia dell’Occidente
Con una mossa non priva di finezza, il documento si apre con una citazione di Marc Bloch, eroe della Resistenza francese e padre nobile della scuola delle Annales: “I greci e i latini, nostri primi maestri, erano popoli scrittori di storia. Il cristianesimo è una religione di storici. […] è nella durata, dunque nella storia, che si svolge il gran dramma del Peccato e della Redenzione”. Se “solo l’Occidente conosce la Storia”, potrebbe essere lecito sostenere che la storia che vale la pena insegnare è la storia dell’Occidente.
In realtà, dietro quello che può sembrare un elegante sofisma, si nasconde anche un’altra motivazione della scelta eurocentrica, particolarmente cara al professor Galli Della Loggia, coordinatore della commissione incaricata di redigere le Nuove Indicazioni. Insegnare la storia del mondo è impossibile, anche per motivi di tempo e di tempi: meglio concentrare le forze su un percorso didattico incentrato sul mondo euro-occidentale, evitando la tentazione dell’“enciclopedismo”. È una scelta ideologica? Può darsi. Ma non meno ideologica è la scelta di annacquare la narrazione rischiando di far smarrire ai discenti le radici del nostro passato, dedicando al Celeste Impero lo stesso spazio dedicato all’Impero Romano.
D’altra parte, la storia è stata sempre una disciplina identitaria: non a caso conobbe le sue maggiori fortune nell’Ottocento, il secolo della nascita degli Stati nazionali. E già il passaggio dalla vecchia “storia patria” a una storia in chiave europea o euro-occidentale ha costituito un notevole progresso. Fuori dell’Europa, del resto, non avviene diversamente. Nelle scuole medie statunitensi la storia europea si studia con una certa attenzione solo fino alla scoperta dell’America; in Cina ancora di meno, e con pesanti condizionamenti ideologici (d’altronde, a conferma di quanto sosteneva Bloch, lo studio del passato ha un ruolo modesto nel sistema educativo di Pechino).
La conoscenza delle altre culture
Un’ultima considerazione su questo argomento: è vero che, in una società globalizzata, la conoscenza delle altre culture assicura indubbi vantaggi; ma non dimentichiamo che molte delle civiltà con cui stiamo confrontandoci sono tali solo perché hanno conosciuto l’influenza della nostra. Per combattere il colonialismo, le classi dirigenti dell’Asia e dell’Africa – reduci magari da studi alla Sorbona – si sono valse di categorie filosofiche e giuridiche figlie della cultura europea, a partire dal concetto di democrazia, maturato nel mondo ellenico. E la Cina per elaborare, in seguito all’introduzione di un’economia di mercato, un codice civile, si è ispirata al diritto romano e ha inviato in Italia i suoi migliori dottorandi a studiarlo, in latino.
Sulle scelte della Commissione credo però che abbiano influito considerazioni soprattutto di carattere pratico. Sussiste infatti un’incongruenza di fondo in quello che l’opinione pubblica e la politica chiedono alla didattica della storia. Da un lato si vorrebbe che il suo insegnamento coprisse un arco cronologico e un quadro geografico sempre più ampi, lambendo gli eventi sino agli ultimi mesi e narrando l’evoluzione dell’intero orbe terracqueo.
Dall’altro il peso specifico di questa disciplina tende a diminuire: man mano che il monte orario cresce, con l’introduzione di sempre nuove discipline ed “educazioni”, le due ore settimanali destinate in media alla storia perdono d’importanza. Volendo fare entrare nelle linee guida tutto, dall’antica Cina alle civiltà dell’America precolombiana, si corre il rischio di addobbare un albero di Natale destinato a crollare sotto il peso di troppi regali. I primi a rendersene conto sono gli stessi docenti, che in sede di adozioni non hanno mai premiato manuali inclini ad allargarsi troppo rispetto alle impostazioni tradizionali.
Il racconto del tempo
Chi scrive, molti anni fa, fu l’ideatore di un fortunato compromesso, come coautore proprio di un manuale per le scuole medie (Il racconto del tempo, Paradigma, Firenze 1973). Al termine di ogni capitolo aggiunse come integrazione facoltativa la voce “Intanto in”, nella quale si riferiva cosa avveniva fuori del mondo europeo nello stesso periodo (per esempio, dopo il capitolo dedicato alla Mesopotamia, si parlava delle coeve “civiltà fluviali” in India e in Cina).
L’innovazione, a giudicare dal numero delle adozioni, piacque agli insegnanti, perché non fu avvertita come un’imposizione.
È onesto aggiungere, però, che la tradizionale impostazione dei vecchi manuali (e dei vecchi programmi) presentava evidenti contraddizioni anche nella narrazione all’interno del mondo euro-mediterraneo. Per comodità didattica, ad esempio, le civiltà del mondo antico erano presentate seguendo un itinerario geografico prefissato, che dall’Egitto conduceva alla Grecia e di lì a Roma. La storia ellenica e quella latina erano trattate separatamente, mentre fra loro esiste una stretta correlazione: l’avvento della dinastia dei Tarquini è un po’ un pendant laziale dell’età dei tiranni nell’antica Grecia.
Fa piacere, a questo proposito, scoprire come le Indicazioni colgano l’inesattezza di tale impostazione, sia pur motivata da esigenze di comodità didattica, e ne auspichino il superamento in un passaggio estremamente significativo: “È opportuno segnalare che lo studio del mondo antico, tradizionalmente diviso in storia greca e storia romana come due capitoli distinti e successivi nell’apprendimento dello studente, ha per oggetto dimensioni storiche che sono in realtà, per molti versi, strettamente intrecciate. Si pensi solo, per fare un esempio, alla rilevanza della colonizzazione greca dell’Italia meridionale, che precede largamente l’affermazione di Roma e che pure rappresenta un capitolo fondamentale per la nostra storia. Da questo punto di vista, fin dalla scuola primaria, i programmi perseguono esplicitamente l’intento di presentare questi due momenti fondamentali dell’antico come vicende che largamente si svolgono in parallelo”.
L’importanza dell’insegnamento
Un’altra e più seria preoccupazione dovrebbe riguardare non tanto il cosa, quanto il come insegnare.
E proprio in questo ambito si avvertono due importanti novità delle Indicazioni. Una di esse riguarda l’abbandono di un insegnamento della storia che si basi, persino nella scuola primaria, sullo studio delle fonti. “Anziché mirare all’obiettivo, del tutto irrealistico, di formare ragazzi (o perfino bambini!) capaci di leggere e interpretare le fonti, per poi valutarle criticamente magari alla luce delle diverse interpretazioni storiografiche, è consigliabile percorrere una via diversa. E cioè un insegnamento/apprendimento della storia che metta al centro la sua dimensione narrativa in quanto racconto delle vicende.”
È un’affermazione sacrosanta: oltre che irrealistico, l’obiettivo di educare gli alunni alla critica delle fonti è sottilmente ipocrita.
Proponendo ai ragazzi (per non dire ai bambini) dei documenti da interpretare si fornisce loro soltanto l’illusione di “fare storia” in maniera autonoma. In realtà è l’autore del manuale a selezionare secondo le proprie convinzioni le fonti cui gli studenti dovranno attingere.
Inoltre, occorre tener conto dell’articolazione dell’insegnamento della storia all’interno di quella che ormai anacronisticamente viene definita la scuola dell’obbligo, visto che la frequenza è richiesta sino ai sedici anni.
Sino agli anni Duemila tale insegnamento era reiterato nei due percorsi scolastici: si studiava il passato dalla preistoria ai nostri giorni in terza, quarta e quinta elementare e poi di nuovo nelle tre classi delle medie. In seguito, con la riforma Moratti, fu deciso di unificare tale percorso. Questa scelta presenta una sua logica – perché fare studiare due volte le stesse vicende, tre addirittura per chi proseguiva gli studi? – ma sacrifica la storia del mondo antico relegandola alle elementari, con scolari ovviamente meno dotati di pensiero critico.
Per alunni di un’età oscillante fra gli otto e gli undici anni è di conseguenza più opportuno un approccio di carattere narrativo, persino se vogliamo aneddotico, anche se potrebbe essere opportuno precisare che non tutto quello che Tito Livio racconta a proposito della guerra fra romani ed etruschi è completamente attendibile…
Histoire à part entière
Un’altra grande innovazione nelle Nuove Indicazioni ministeriali è rappresentata dal rifiuto della ibridazione fra storia e geografia propria delle precedenti linee guida.
E qui forse sarebbero necessarie alcune considerazioni. Chi ha frequentato il liceo e l’università a cavallo fra gli anni Sessanta e i Settanta ha visto gli studi storici passare da una trattazione del passato di natura politico-diplomatica, giuridico-economica o etico-politica alla scoperta dell’histoire à part entière , la “storia totale” proposta in Francia dalla scuola delle “Annales”: una storiografia che si occupa non solo di trattati e di battaglie, o magari di forme di produzione e di lotta di classe, ma delle trasformazioni del clima, della vita quotidiana, dell’evoluzione della mentalità collettiva. Chi scrive ricorda ancora l’emozione provata nell’accostarsi sia alla macrostoria di un Ferdinand Braudel col suo saggio Il Mediterraneo all’epoca di Filippo II, sia alla microstoria di un Le Roy Ladurie, che attraverso le vicende di un villaggio occitano come Montaillou fece rivivere il clima di un’epoca. È giusto riconoscere però che l’assimilazione di un insegnamento della storia fondato sulla “lunga durata” è fruttuoso per chi conosce già la “durata breve”, fatta anche di battaglie e trattati; altrimenti si rischia di cadere nel fondamentalismo di chi sostiene che nella storia del mondo gli unici eventi davvero importanti siano stati la rivoluzione agricola e la rivoluzione industriale. E si comprende lo sgomento di François Mitterrand, all’epoca presidente della Repubblica, quando nel 1989, nell’approssimarsi delle celebrazioni del Bicentenario della Rivoluzione Francese, scoprì che troppi studenti, cresciuti a baguettes e a “lunga durata”, non conoscevano la data della presa della Bastiglia.
Anche alla luce di queste considerazioni sarebbe opportuno che il dibattito sull’insegnamento della storia e il giudizio sulle Nuove Indicazioni si tenesse lontano dalle contese ideologiche.
La scuola delle “Annales” non fu una palestra culturale marxista, anzi Braudel fu a lungo osteggiato dai comunisti, perché non riteneva la lotta di classe motore principale della storia. Il “fritto misto di braudelismo e di marxismo” da tempo giustamente criticato da Galli Della Loggia, è una ricetta tipicamente italiana. Fra i protagonisti di quel movimento, Braudel era un vecchio gollista; Le Roy Ladurie, in gioventù comunista, dopo il ’68 divenne un esponente di spicco della cultura liberale e nel 2012 sostenne Sarkozy alle presidenziali. E François Furet, grande esponente della “Nouvelle Histoire”, sviluppò nei confronti della rivoluzione francese un approccio revisionistico rispetto all’interpretazione radicale e marxista. Un approccio analogo a quello di Renzo De Felice, che lo stimava pur ritenendolo “antipatico”, nei confronti della storiografia sul fascismo (purtroppo, morirono entrambi precocemente).
Ma l’apprezzamento per una corrente storiografica che ha effettivamente arricchito la nostra cognizione del passato non deve farci dimenticare che, nell’angusto spazio destinatole dagli attuali orari scolastici, l’insegnante di storia ha il dovere, e il diritto, di assicurare i “fondamentali” della conoscenza del passato, senza escludere però, di pari passo con la maturazione dell’alunno, un allargamento della trattazione alla storia della società, della vita quotidiana, e persino – argomento purtroppo divenuto d’attualità negli ultimi anni – dell’influenza del clima sulle vicende umane. La “nouvelle école” ha un’enorme importanza, a patto che non ci faccia dimenticare la “vecchia”.
Enrico Nistri – Saggista