Una celebrazione del libro come cosa vivente, come essere parlante, come vitamina intellettuale. E, attraverso i libri trovati in un’antica cassapanca sarda, la narrazione delle vicende di una saga familiare in cui svettano il padre Ignazio, uomo colto e amante dei libri, il nonno Rafaele e altri componenti della famiglia tra i quali la madre Regina e lo zio Luigi, omonimo dell’autore.
Un viaggio nel tempo storico del secolo trascorso, con una finestra narrativa sull’Ottocento, quando il bisnonno dell’autore era sindaco di Tortolì, il paese sardo dell’Ogliastra di cui i Contu, fin dal 700, sono originari. Infine una lettura di alcuni fenomeni culturali del ‘900, per esempio il futurismo, attraverso i libri e la voce del nonno Rafaele, amico di Filippo Tommaso Marinetti.
È questo, ma anche tanto ancora, ciò che si legge nel bel libro che Luigi Contu, giornalista parlamentare di lungo corso, direttore dell’ANSA dal 2009, con un sogno nel cassetto, quello di diventare scrittore, ha pubblicato con la Casa editrice “La Nave di Teseo”, guidata da Elisabetta Sgarbi.
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Il libro promette scoperte e letture godibili presentandosi già con un titolo felice e ricco di significato, anche simbolico: “I libri si sentono soli”.
È la frase che il padre Ignazio, negli ultimi giorni di vita in ospedale, durante un colloquio da cui il libro prende l’avvio, disse al figlio Luigi, raccomandandogli, come fossero persone care, le migliaia di libri sparsi in varie biblioteche e case di famiglia, tra cui la “mitica cassapanca sarda” da cui, come dal cilindro di un prestigiatore usciranno sorprese bibliografiche inaspettate.
La frase di Ignazio Contu, oltre che efficace nella sua trovata espressiva, è illuminante per chi ama davvero i libri e la lettura e ha il sapore di una rivelazione. E questo fu l’effetto che fece sull’autore.
Sui libri, sull’arte della lettura sono stati scritti vari volumi (ne segnalo tre su tutti: Il piacere della lettura, di Marcel Proust, Una storia della lettura, di Alberto Manguel, e Il piacere tra le righe, di Camilla Baresani . E si raccontano anche aneddoti gustosi e bizzarri.
Una mia conoscente, dopo aver visto i tanti libri della mia libreria, se ne dichiarò “esterrefatta” (Sic!). E poi fece l’immancabile domanda, tipica di chi non legge e non conosce il piacere ma anche la fatica che la lettura richiede: “Li hai letti tutti?”
per non mortificarla le risposi con un pensiero di Bacone che le espressi alla buona: i libri non si leggono tutti, per intero, dalla prima riga all’ultima. Ci sono libri che si annusano, libri che si assaggiano, libri che si degustano, libri che si divorano, libri che si mangiano a metà, ecc.. Rimase perplessa. Allora le feci l’esempio degli alberi: è come stare in mezzo agli alberi, ci fanno compagnia, ci sembra di sentire il loro respiro.
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Ma torniamo al libro di Luigi Contu.
È di 265 pagine, scandito in 66 capitoletti, dove l’autore mette a frutto la sua vena giornalistica giocando con dei titoletti, che incuriosiscono e invogliano alla lettura. Uno dei tanti esempi: “Una telefonata nel Settecento” è il breve racconto di una Roma spettrale, deserta, in pieno lockdown; vi si raffigura una Piazza Fontana di Trevi senza bancarelle né turisti, e l’autore si immagina di guardare i marmi e il monumento “come lo guardavano i papalini e i nobili che passavano in carrozza”.
L’autore, dicevamo, dà subito l’avvio alla storia – dei suoi familiari attraverso i libri – raccontando l’ultimo colloquio con il padre, pochi giorni prima della sua scomparsa. Lo stile è asciutto, apparentemente da cronista impassibile, ma si sente tra le righe il tono dell’affetto per il genitore, ammirato, amato e con il quale – l’autore non sorvola – aveva avuto anni prima momenti di distacco e di incomprensione. L’autore non sottace: per alcuni anni “fu un padre assente, distante, sempre immerso nel suo lavoro. Serio, molto serio, con un fortissimo senso del dovere”.
Ma anche un maestro di scrittura: consigliava di sciogliere le frasi, togliere inutili gerundi, e giudicava le parole “infatti” e “quindi” le stampelle per gli ignoranti. Un galantuomo, tra i pochi portavoce che io abbia conosciuto che non mentiva, secondo il giudizio di Giampaolo Pansa, riferito al figlio negli anni in cui Luigi Contu era a “Repubblca”.
Il colloquio è la chiave interpretativa del libro, perché ne segna di fatto l’orizzonte narrativo entro il quale poi si dipana la storia dei Contu – nonno, padre, figlio – intrecciata con le vicende della Sardegna e con tanti eventi della storia culturale, politica italiana.
Ignazio Contu è stato giornalista parlamentare per oltre 30 anni, portavoce di Fanfani, consigliere politico del presidente del Consiglio Dini, capo ufficio stampa in alcuni ministeri, una passione antica per la politica, direttore del periodico Il Settimanale, un pendant moderato di Panorama ed Espresso, il fondatore della rivista Telèma,destinata alle elite intellettuali. Nel libro si sente il forte ascendente morale e culturale del padre sul figlio, che però non ne resta soverchiato ma ne assimila le lezioni con intelligenza.
Significativo quello che il padre gli racconta.
Quando Fanfani lo cercò per proporgli di fare il portavoce alla Presidenza del Consiglio, Ignazio Contu gli disse: Non ho mai votato Dc. E sono anche divorziato (Fanfani nel ’74 aveva fatto, da segretario Dc, una crociata al referendum sul divorzio). Fanfani gli rispose: “Queste sono bischerate da preti. Se Lei accetta, però non dove possedere neanche una lira in azioni, al massimo titoli di Stato. E non avere neanche consulenze con aziende pubbliche e private”.
Questo – diceva Ignazio Contu al figlio – era Fanfani con il senso dello Stato e del dovere.
Tornando al colloquio, che l’autore considera la conversazione più importante avuta nella sua vita, fissiamo questo particolare momento: quando Luigi stava per andare all’Ansa, dove lo aspettava la consueta riunione della redazione, il padre lo fermò sulla soglia della camera d’ospedale: prese un blocchetto dalla 24 ore sempre piena di libri e giornali, che stava sulla sedia accanto al letto, e scrisse tre paginette con una tratto pen rossa.
Vi aveva scritto indicazioni sulla biblioteca, con alcuni segni quasi topografici per rintracciare le varie collane, e le varie classificazioni delle migliaia di libri di suo nonno, di suo padre Rafaele (scritto alla spagnola) e suoi. E mentre gli consegnava i foglietti disse, raccomandando che se ne avesse cura, la frase che è poi diventata il titolo- simbolo del libro: I libri si sentono soli, proprio come noi.
E l’autore commenta: “Mio padre era così convinto di questa idea che in casa sua li spostava spesso, penso proprio perché temeva che potessero sentirsi trascurati”.
E, sulla stessa lunghezza d’onda – racconta l’autore –a volte mi scoprivo a immaginare gli stati d’animo dei libri. Se hanno una vita propria, pensavo, allora avranno anche sei pensieri. E fantasticando, per prima cosa vorranno essere amati, come tutti gli esseri umani, e quindi letti e capiti da chi li ha acquisiti. E poi rispettati. Magari temono di finire nelle mani sbagliate, in posti sbagliati, o spesso dimenticati in una casa di campagna, divorati dall’umidità.
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Tra le figure principali di questo libro, oltre al padre Ignazio, si staglia con grande rilievo il nonno Rafaele, personaggio importante della cultura italiana a cavallo tra la prima e la seconda guerra mondiale. Diresse con Giuseppe Ungaretti la collana di letteratura I quaderni di Novissima. Fu editore di tanti scrittori e poeti tra cui Saba, Montale, Malaparte, Cardarelli e Valery; curò la pubblicazione dell’opera omnia di Gabriele D’Annunzio. Aveva, in tempi in cui la filosofia idealistica sminuiva l’importanza della scienza,”degradata a pseudo concetto” ( Croce), la passione per la divulgazione scientifica. Diresse infatti la rivista Sapere, oltre all’Unione Sarda, e tradusse la Teoria della relatività di Einstein per l’editore Hoepli.
A questo proposito l’autore racconta un gustoso aneddoto: mentre leggeva proprio questo libro, il figlio Ignazio gli dice: Ma che ti metti a studiare matematica adesso, alla tua età?! E l’autore risponde: “Ho scoperto di non conoscere bene la teoria della relatività e i libri scritti da nonno Rafaele fanno venire la voglia di studiare fisica che non ho avuto a scuola”. Come dire? Il cerchio, tra le generazioni, si chiude, ma di fatto si riapre con quelle seguenti.
Il libro si può anche intendere, di fatto lo è, come il racconto del “viaggio attraverso i libri di nonno e padre”, e in qualche caso, come l’Ulisse di Joyce, che non si trovava, la ricerca di volumi che non si trovavano nella biblioteca. Alla fine l’Ulisse fu trovato.
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A ogni pagina balzano nuovi libri, sempre legati a chi li possedeva, li traduceva in qualche caso, o li comprava, come spesso faceva nonno Rafaele in edizione originale dalle librerie di Parigi.
Le sorprese non mancano, ma ne citeremo solo alcune, per non sciupare il gusto della lettura.
E così capita di trovare, nel settore della biblioteca dedicato alla Sardegna, un volume con i versi della Divina Commediatradotta in lingua sarda dal poeta Pietro Casu, degli anni Venti del ‘900, con questo incipit:
A su mesu caminu de sa vida
M’incontres’ in un’addhe a busca oscura
Ca sa via ‘eretta fi’ peldida
Oppure un capolavoro di Shakespeare, Machbeth, diventato e tradotto come Machbettu, trasposizione di Alessandro Serra.
Ci sono storie di briganti e pastori, leggende come quella che all’autore bambino raccontava la nonna Maria, una nobildonna di antico lignaggio cagliaritano: la pietra ballerina. Il racconto di una bambina che amava danzare, contro il volere dei genitori, e poi fu trasformata in pietra, ma la pietra continuava a muoversi con un passo di danza. La nonna Maria narratrice di tante storie, dice oggi il nipote, funzionava come un audiolibro ante litteram.
Con un montaggio narrativo tipico dei flash back, l’autore fa dei rimandi a fatti più recenti, della sua giovinezza di studente o della sua vicenda professionale. In due episodi c’entra addirittura Enrico Berlinguer, di un figlio del quale Luigi Contu era compagno di scuola e amico.
Un pomeriggio, mentre l’autore giocava a calcio con alcuni compagni tra cui Marco Berlinguer, il segretario del Pc si aggregò alla squadra e diede anche lui qualche calcio al pallone.
Un’altra volta, mentre Luigi studiava in casa Berlinguer, era vigilia di interrogazioni in storia, ai ragazzi che sbuffavano “che noia”, Berlinguer fece prima una esortazione: bisogna studiare la storia, è importante; e poi, saputo che l’argomento dell’interrogazione sarebbe stato la Rivoluzione francese, si sedette e fece una lezione di storia in piena regola. E Luigi Contu poté così dire poi al padre: ho preso un buon voto in Storia, e lo devo a Berlinguer, nello stupore del padre che non aveva compreso il senso di quelle parole.
Un altro episodio riguarda la vita professionale dell’autore: quando il portavoce di Ciampi presidente della Repubblica, Paolo Peluffo, lo chiamò per comunicargli che a Nassiriya in Iraq c’era stato un attentato mortale ai nostri soldati. E Luigi Contu corse a fare subito un flash con comprensibile emozione.
Continuando nel suo viaggio tra i libri dei familiari, l’autore sembra voler coinvolgere a ogni passo il lettore e ne cattura l’interesse non solo con uno stile narrativo piacevolmente affabulatorio ma anche con l’attenzione del giornalista al dettaglio. Ricorda l’amicizia del nonno Rafaele con il caposcuola del Futurismo, le dediche, in particolare una: “A Rafaele Contu e alla sua forte amicizia sarda di poeta della scienza”.
Come per magia, dalla ricerca in biblioteca escono libri a gogò: La cucina futurista’ che dichiara guerra alla pastasciutta; gli attacchi di Ardengo Soffici ai futuristi, la rissa scoppiata a Firenze; i centomila al Quirinale a festeggiare l’ingresso in guerra ( 1915) e acclamare il re e la regina affacciati al balcone.
Ci sono delle chicche, ma ne diremo solo alcune, che hanno importanza per la storia della cultura e non solo: nonno Rafaele, che dirigeva i Quaderni di Novissima, dovette assistere all’inimicizia tra Ungaretti e Montale; il primo scriveva a Contu rivolgendo al secondo parole irriferibili. Il biglietto si trova nel Fondo manoscritti dell’Università di Pavia.
O il bollettino con cui l’ineffabile generale Luigi Cadorna scaricò vilmente sui soldati la colpa della disfatta di Caporetto con parole così insultanti che il presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando fece modificare il testo; ma il nonno Rafaele, che era capitano di fanteria della Brigata Casale, ne aveva la versione originale. I giornali pubblicarono solo la versione censurata.
Una testimonianza rivelatrice della importanza culturale di Rafaele Contu, oltre alle parole di dedica di Marinetti e alla stima di Ungaretti, è quella di Corrado Alvaro: “Con Contu avevamo non poche ragioni di essere in disaccordo, a cominciare dalle opinioni sulla vita pubblica, la politica ( aderì al fascismo ma non alla Repubblica sociale, NdR). Ma poiché egli era il vero tipo dell’intellettuale si trovava sempre un linguaggio con cui intendersi”.
Nella ormai famosa cassapanca furono trovati due quadernetti con sopra scritto RSI (Repubblica sociale italiana). Erano un diario sulla fine della esperienza di Salò, ma l’autore non era Rafaele ma il fratello Luigi. Deputato dal ’40 al ’43 Luigi Contu fu anche sottosegretario al ministero delle Corporazioni nell’ultima fase del regime. Fu autore anche di una storia del fascismo. L’autore con un filo di umorismo esprime qualche disagio all’idea di vedere il suo nome (in realtà un omonimo) accostato a certe pagine della storia italiana. Sono gli incerti dell’omonimia, ma nella famiglia Contu per tre secoli si sono alternati solo tre nomi: Rafaele, Ignazio e Luigi, tanto che il figlio dell’autore commentò con una battuta: sui nomi vi siete proprio sprecati eh!
In una biblioteca sterminata e qualificata non potevano mancare l’intera collezione delle copertine di Achille Beltrame della Domenica del Corriere, naturalmente le opere care al padre Ignazio (tra gli altri, Pasolini, Calvino, Ginzburg, Sciascia, Flaiano, Oriana Fallaci), la foto di Rolando Fava che per primo fotografò Aldo Moro nella Renault rossa il 9 maggio in via Caetani.
C’è il racconto dell’incontro delle due vedove al Quirinale: Gemma Capra, vedova del commissario Luigi Calabresi ucciso nel 1972, e Licia Pinelli, vedova di Giuseppe Pinelli defenestrato mentre si trovava nella questura a Milano che indagava sulla strage di piazza Fontana.
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Per finire, una nota dolce e sentimentale, riferita dall’autore.
La madre Regina, figlia di un siciliano e di una bergamasca, che sapeva del libro in preparazione, gli domandò: ci sarò anch’io nel racconto? “Mamma, questo non è un romanzo sulla nostra famiglia ma sui libri dei nostri familiari. Libri che hanno viaggiato nella cassapanca attraverso guerre, passioni, traslochi”.
E con un omaggio alla madre si conclude il libro, rinverdendone la memoria: “Amava la cultura e la bellezza, e aveva grande gusto e senso estetico. Sempre elegante, una via di mezzo tra i personaggi femminili di Bernard Tavernier e di Pedro Almodovar. A lei debbo l’amore per il teatro di prosa”.
Mario Nanni – Direttore editoriale