Un dialogo metastorico?

Fede, cultura e scienza. Un trinomio oggi. “Lo spirito umano, libero dalla schiavitù fideistica e scientista, sa trovare sempre una sintesi personale tra fede e cultura, tra fede e scienza, tra fede e mondo”. L’insegnamento del Concilio ecumenico vaticano II. Le parole di Paolo VI nel 1965

Biblicamente parlando, in un tempo non cronografato, avvenne un ‘dialogo’ registrato nel Libro di Giobbe. Esso ebbe come protagonisti l’Eterno e il saggio Giobbe; l’argomento riguardava la creazione e la scienza, il sublime e la ragione, la genesi e la conoscenza.  Un ‘dialogo’ che, pur essendo a-temporale, riguarda il tempo e ciò che l’intelletto cerca appassionatamente: una spiegazione, una risposta a motivo della fame e della sete di cui l’essere umano è intriso.  Da quelle parole cogliamo anche il senso di una relazione che nel corso dei secoli ha dato vita a straordinarie vicende di un sapere intrecciato con o senza la fede.

Ecco la registrazione.

“Quando ponevo le fondamenta della terra, tu dov’eri? Dimmelo, se sei tanto intelligente! Chi ha fissato le sue dimensioni, se lo sai, o chi ha teso su di essa la corda per misurare? Dove sono fissate le sue basi o chi ha posto la sua pietra angolare, mentre gioivano in coro le stelle del mattino (…)?  Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando usciva impetuoso dal seno materno, quando io lo vestivo di nubi e lo fasciavo di una nuvola oscura, quando gli ho fissato un limite e gli ho messo chiavistello e due porte (…)? Da quando vivi, hai mai comandato al mattino e assegnato il posto all’aurora (…)? Ti sono state svelate le porte della morte (…)? ” (Gb 38, 4-ss).

La Sapienza si è costruita la sua casa” (Pr 9, 1) e la scienza tenta di coglierne l’architettura; una comprensione, non solo tecnica, ma anche ordinatrice. È la perenne e affannosa ricerca che da sempre stimola l’essere umano nel suo cammino; fin dal momento in cui egli ha preso coscienza di sé e del suo porsi tra ciò che esiste con un desiderio di conoscenza mai esaurito.

S. Agostino

 

I quesiti biblici esigono una risposta non solo per le evidenze scientifiche, ma anche trascendentali; emergerebbe allora un parlarsi che prende in causa la verità (teologica) e la conoscenza delle cose (scienza). Un simile ‘dialogo’ era già ben presente in Galileo, quando proponeva ai suoi interlocutori il superamento della commistione e del conflitto tra fede e scienza.

A 60 anni dall’apertura, appena celebrata, del Concilio Vaticano II, un evento per nulla solo ecclesiale che mise tutto in fermento, possiamo rilevare che quel ‘conflitto’ tra fede e scienza trovò lì definitivamente il suo superamento: nel Concilio la comunità ecclesiale si riappropriava della Sacra Scrittura (Dei Verbum) e si liberava da quel “manto un po’ polveroso” (Ravasi) depositato da una storia secolare che aveva avviluppato insieme fede e scienza; un successivo documento conciliare (Gaudium et Spes), poi, prendeva atto dell’autonomia della ricerca e indicava alla fede il suo ambito di lavoro; la fede, come intuìto da Galileo, avrebbe proclamato la verità salvifica, mentre alla ricerca scientifica si lasciava la risposta a quel “Dov’eri tu …? ” che il Giobbe odierno, lo scienziato, non può ignorare quando tratta di quell’universo che sollecita la sua curiosità.

Paolo VI

 

L’interrogativo non fu solo un richiamo alla riflessione, ma anche la richiesta, una mozione di ricerca, senza insinuare una prevaricazione della fede sulla scienza o di questa su quella.

La ‘Parola di Dio’ proclama la verità salvifica, non quella scientifica, mentre la ‘parola scientifica’, pur nell’umiltà del suo incedere tra ipotesi, teorie e prove, avvia ad una conoscenza che non finalizza all’idolatria di sé, né dell’oggetto che studia; uno scientismo saccente, di chi ritiene come unico sapere valido quello delle scienze fisiche e sperimentali, travalicherebbe il senso della ricerca, giacché la materia è parte integrante di quella conoscenza più ampia che si apre alla verità delle cose e dell’esistenza.

Dopo il Concilio nacque una relazione nuova, dinamica, dal momento che si volle (per la fede e la scienza) mettere al centro la persona umana, sia in quanto imago Dei, sia come essere non-angelico; non si privilegerà più un pensare semplicemente teoretico “che non riesce a dominare né a ordinare in buone sintesi l’insieme delle sue conoscenze” (GS 8), né una “moderna intelligenza pratica” (GS 8) che è esposta alla tentazione di una ricerca fine a sé stessa.

In un contesto in cui l’umanità è attanagliata, in tante parti della terra, dalla fame, dalla crisi del lavoro, dalle malattie, dalle divisioni etniche, dalle violenze, dalle guerre, dagli sprechi, da povertà degradanti, dallo sfruttamento esagerato e dalle violenze contro il creato, è ovvia la domanda: A cosa valgono le conquiste raggiunte a caro prezzo?

C’è bisogno di non dimenticare che esiste una dignità dell’intelligenza, ma anche che l’essere umano, pur con una sua prevalenza nell’universo, non possiede la superiorità assoluta; di tale universo egli è parte e verso di esso manifesta continuamente un’appassionata disposizione a cui dedicare, con la ricerca, il proprio ingegno.

Benedetto XVI (nell’Allocuzione per l’Incontro con l’Università La Sapienza di Roma, previsto per il 17 gennaio e poi annullato in data 15 gennaio 2008 per il pregiudizio di alcuni docenti e studenti) metteva in guardia, citando Agostino d’Ippona, che il semplice sapere rende tristi se manca di una tensione verso la verità, e che la conoscenza del bene (il sapere) non soddisfa completamente l’intima inquietudine umana, quasi in analogia a quell’intimo tormentarsi socratico del «sapere di non sapere», o a quel perenne chiedere di Giobbe, al quale viene rivolto l’interrogativo: “Dov’eri tu… ? ” 

Benedetto XVI

 

Non di rado si ritiene che i legami tra l’attività umana e la dimensione religiosa possano impedire la libertà delle scienze e della cultura, quasi che scandagliare i segreti di cui si è alla ricerca, possa limitare la ricerca stessa o impedirla.  In verità, la scienza oggi non è contro Dio, ma spesso nell’accezione più ampia, è senza Dio, quasi per una emancipazione che spinge verso un’autocrazia priva di confini o contorni referenziali. Eppure, il punto di avvio di ogni ricerca non può essere avulso dalla persona umana e dalla sua dignità. E il suo confine non può non essere che la persona umana e la sua inquietudine ultima. Non esiste una cultura, una scienza che ne possa fare a meno, sebbene spesso si faccia uso della ricerca contro la dignità umana, la pace e il bene comune. Il progresso o è umano o non lo è. La cultura e la stessa scienza partono sempre da ciò che l’essere umano è e si esprime, ed ambedue tendono a ciò; in tal senso, l’agire diviene poi storico e sociale, non monocromatico ma pluralista, perché la varietà e la diversità danno origine alle diverse condizioni di vita e di organizzazione di essa.

Lo spirito umano, libero dalla schiavitù fideistica e scientista, sa trovare sempre una sintesi personale tra fede e cultura, tra fede e scienza, tra fede e mondo attraverso un cammino che non impatti rovinosamente tra gli scogli di uno scetticismo che non è il fine del sopracitato ‘dialogo’. Con il Concilio abbiamo ereditato una visione storica, dialogica e dinamica tra la rivelazione di Dio nella storia ed un mondo in cui la cultura e la scienza rinunciano ad una carica ideologica, si ancorano alla persona, pienamente umana e trascendentale.

Al termine del Concilio, Paolo VI, rivolgendosi agli uomini di pensiero e di scienza, li esortava a cercare la verità, chiamandoli “esploratori dell’uomo, dell’universo e della storia [], pellegrini in marcia verso la luce”. È appellandosi poi al superamento definitivo di antiche diatribe, che aggiungeva: “Noi non potevamo dunque non incontrarvi. Il vostro cammino è il nostro. I vostri sentieri non sono mai estranei ai nostri. Noi siamo gli amici della vostra vocazione di ricercatori, gli alleati delle vostre fatiche, gli ammiratori delle vostre conquiste, e se necessario, i consolatori dei vostri scoraggiamenti e dei vostri insuccessi”. Era il 7 dicembre 1965.

 

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