Politica e violenza

Quella che sembrava una anomalia americana – l’assassinio di presidenti - si è poi estesa all’universo mondo, come provano casi analoghi in Giappone, in Svezia in Israele, e poi anche in Italia al tempo delle Br. È quando la politica è debole o assente che allignano questi fenomeni. La politica ha rinunciato da tempo a farsi strumento di pedagogia democratica per assecondare l’onda e guadagnare consenso

Politica e violenza sono due parole antinomiche, perché dove c’è l’una non c’è l’altra. Per essere più chiari: non c’è dubbio alcuno sul fatto che l’esercizio della politica nelle controversie tra Stati rappresenti l’unico modo per evitare le guerre e per farsi un’idea nobile basterebbe una lettura del libretto kantiano sulla pace perpetua.

Quanto poi sia vero l’assunto lo stiamo imparando da vicino anche noi, generazioni che hanno avuto dalla Storia la fortuna di non aver fatto guerre ma a cui tocca oggi il danno di misurarsi con l’assenza di politica e il disastro bellicista davanti all’uscio d’Europa. Potere e violenza, invece, hanno più di un grado di parentela, almeno a partire da Caino e Abele e da Romolo e Remo: il potere raccoglie in se’ qualcosa di assoluto, l’idea stessa che possa essere esercitato su altri esseri umani promanando da un uomo, gli restituisce come un retrogusto di arbitrario, ancorché necessario e formalmente conferito.

Il molcimento del potere si ha con l’incanalamento in una procedura, con l’instaurazione di limiti chiari e di deleghe altrettanto chiare: insomma si ha con la democrazia. La politica e la sua fonte democratica sono dunque le uniche cure alla violenza.

Ciò detto, appare difficile in questi giorni, alla luce dell’attentato ai danni di Trump, evitare la domanda se non circoli anche nel nostro cielo sicuro, che non è quello che sta sopra alla striscia di Gaza ma quello di un occidente per definizione democratico e abituato a risolvere i problemi con la politica e non con il kalashinkov, un che di irrimediabilmente violento e di irreversibilmente impolitico.

La cronaca ci ha raccontato in queste ore di un’America diversa dall’Europa, per la sua antica attitudine al maneggiare le armi, forse eredità remota di un Far West che non aveva sempre a disposizione lo sceriffo per difendere beni e persone nei villaggi sperduti della sterminata e selvaggia prateria. E abbiamo ricordato i quattro presidenti uccisi in attentati – sempre un pazzo presunto e solitario a sparare con armi regolarmente acquistate nello store- insieme ai candidati alla presidenza sparati a bruciapelo ( la famiglia Kennedy ci rimise John e Robert) e quelli fortunati, colpiti ma sopravvissuti, come Trump.

Olof Palme

 

Questa è una peculiarità americana, non c’è dubbio. Ma gli ultimi anni ci hanno consegnato un clima globale che ha più volte denunciato, dalla sponda asiatica a quella europea, ondate di violenza che hanno visto come vittime politici al vertice dello Stato. Si pensi all’assassinio di Ytzak Rabin nel 1995, all’uccisione dell’ex primo ministro giapponese Shinzo Abe, nel 2022 e al ferimento grave del premier slovacco Robert Fico il 15 maggio di quest’anno, per restare nell’ultimo biennio, senza evocare contesti storici più risalenti, densi di dolorose ferite come quelle inferte dal terrorismo italiano, con l’omicidio di Moro e della sua scorta nel 1978 o di Olof Palme, primo ministro svedese ucciso nel ‘68 in piena guerra fredda.

Shinzo Abe

 

No: il male di oggi non è figlio di ideologie tossiche, ma di una specie di entropia della politica messa sotto da una comunicazione banalizzata, priva di ogni profondità, ma nutrita di violenza. In ogni contesto la narrazione è condotta dagli hater: non essendo più presente un sostrato culturale, l’attenzione viene rapita dalle parole che sono divisive per necessità. Senza non sarebbero neanche notate nelle modalità espressive dominanti che sono quelle della comunicazione digitale. Il caricamento delle parole e dei gesti, il parossismo dei pochi concetti circolanti, diventano strumenti divisivi che schierano il “noi” contro gli “altri”, secondo le appartenenze tribali.

Aldo Moro

 

La politica segue: ha rinunciato da tempo a farsi strumento di pedagogia democratica per assecondare l’onda e guadagnare consenso. In un clima così elettrico, dove il “banale” e il “male” vanno a braccetto che è una bellezza, non è poi strano che qualche spostato – e in giro ce n’è parecchi- ossessionato dalle sue paturnie e magari ispirato dalle voci di dentro che gli urlano “dio lo vuole”, comincino a prendere tutto sul serio e sparare di precisione come Bradley Cooper in American Sniper di Eastwood.

Sembra un paradosso situato dentro un labirinto di quelli mitologici, ma se ne esce solo con un “di più” di politica, di quella buona, che non bestemmia e non urla contumelie contro l’avversario per promuoversi, in mancanza di contenuti di senso. Una politica “educata”, paroletta che viene dal latino educěre, che vuol dire far venire fuori ciò che di meglio c’è dentro. Non lisciare il pelo dei bassi istinti. Un pelo ispido e cattivo, che porta fuori pensieri e azioni ispide e cattive. E molto banali.

 

 

Pino Pisicchio – Professore di Diritto Pubblico comparato. Già deputato in varie legislature, presidente di commissioni parlamentari, capogruppo, sottosegretario.

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