Per gli italiani esiste ancora l’arte o esistono solo gli artisti?

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A New York per tre mesi nel 2010, in religioso silenzio, un pubblico in cui si mescolano Lady Gaga, Lou Reed, Isabella Rossellini, Sharon Stone e altri artisti, occupa l’atrio del Museum of Modern Art per sedersi di fronte alla più celebre performance artist vivente ancora in attività, Marina Abramović.

Dopo una preparazione fisica e psicologica supervisionata da medici e specialisti di vari settori, l’artista tenta di trasformare «something which is close to nothing» in un’opera d’arte di cui il pubblico è parte integrante.

Nell’era di Instagram, l’opera non ha più bisogno né dell’artista che la spieghi né del critico né dello storico dell’arte, perché il pubblico non chiede più all’arte artigianalità e qualità, né al critico e allo storico parole che spieghino e contestualizzino.

Il pubblico legge poco o non legge nulla e nutre una forma di feticismo nei confronti degli artisti, vivi o morti, identica a quella che si nutre per gli artisti dello spettacolo e per gli influencer.

«Io sono un’artista e non ho bisogno di spiegare un cazzo», risponde quindi la performance artist Talia Concept (che fa il verso proprio ad Abramović) al giornalista Jep Gambardella in La grande bellezza di Paolo Sorrentino.

In Italia gli artisti non hanno più avuto «bisogno di spiegare un cazzo» al pubblico, ai giornalisti, ai critici e agli storici dell’arte almeno dal giugno 1977, quando a Bologna un gruppo di professori e ricercatori universitari organizza la prima Settimana internazionale della performance, a cui partecipa anche Abramović, e durante la quale un artista risponde a un inviato della Rai che gli chiede cosa è una ‘performance’: è il «messaggio di un artista che non ha nulla da dire a un pubblico che non ha nulla da chiedere».

La coincidenza dell’arte, non solo performativa, con il ‘nulla’ ha radici lontane (della partita fa parte perfino Picasso) ma ha un punto di non ritorno nella diversa considerazione degli artisti e delle loro opere da parte di chi si occupa di storia dell’arte tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta.

Nel libro d’arte più popolare, più tradotto anche in italiano (ancora oggi viene spesso usato come manuale) e più ristampato di tutti i tempi, la Storia dell’arte pubblicata a Londra nel 1950 da Ernst Gombrich, in una lingua chiara e leggibile fin dall’Introduzione la questione è posta in una prospettiva che si è rivelata prevalente: «Non esiste in realtà una cosa chiamata arte. Esistono solo gli artisti».

Nello stesso 1950 il principale storico dell’arte italiano del Novecento, Roberto Longhi, inaugura a Firenze la rivista «Paragone-Arte» con un editoriale in cui la prospettiva è capovolta: non c’è storia dell’arte dove si bada all’artista prima che all’opera. Il mito del capolavoro assoluto di un artefice aspirante a essere divinizzato dal pubblico come un divo del cinema contemporaneo crea il mito «degli artisti divini, e divinissimi; invece che semplicemente umani».

Alle mostre di artisti oggetto di vera e propria acritica devozione religiosa il pubblico accorre per vedere i feticci realizzati da un pittore omicida preterintenzionale (Caravaggio), da una pittrice stuprata a diciotto anni ripetutamente da un collega del padre (Artemisia Gentileschi) o da un artista concettuale che ha incollato il proprio gallerista a una parete col nastro adesivo (Maurizio Cattelan).

Le stesse folle feticiste non si accalcano davanti alle sei tele di Caravaggio più belle del mondo che si vedono gratuitamente nel centro di Roma nelle tre chiese per le quali furono ordinate al pittore: anche la scorsa settimana e ora che le misure di contenimento della pandemia permettono grande libertà, davanti alla cappella Cerasi di Santa Maria del Popolo eravamo in due, da soli e al buio.

È passata l’idea che se non si paga per vedere delle opere d’arte accalcandosi in un tempo prestabilito e relativamente breve, allora queste opere d’arte non valgono la visita. Il rischio è che i grandi musei diventino soltanto «una macchina da soldi» (come auspicò per gli Uffizi il 3 novembre 2012 l’allora sindaco di Firenze) e che le chiese che custodiscono ancora gratuitamente opere d’arte più o meno importanti (e che sono esse stesse opere d’arte) subiscano un inesorabile degrado, a meno che non siano già diventate beni «di consumo turistico», a pagamento per un pubblico che si crede colto se si fa coinvolgere nel «consumo culturale culturalmente insostenibile, tutto ingabbiato nell’industria delle mostre consacrate alla top ten degli artisti noti anche ai politici»: non potrei esprimere questi concetti meglio di come ha fatto Tomaso Montanari nel libro Chiese chiuse (Einaudi 2021, pp. 7, 52, 118 nota 9).

Dagli anni Settanta si è quindi consolidata nel pubblico dell’arte una spaccatura, dovuta anche alle diverse competenze di coloro che si occupavano di arte antica e curavano pubblicazioni, mostre, allestimenti di musei (gli storici dell’arte) e di coloro che si occupavano di arte contemporanea e curavano pubblicazioni e mostre (i critici).

Gli storici dell’arte si distinguono dai critici anche per la lingua che usano: spesso con la complicità degli artisti viventi, i critici loro sodali non parlano delle opere come di oggetti, ma usano una lingua che attinge all’emotività e agli psicologismi, che con la materialità e la storia non ha niente a che vedere. A riconoscere che lo storico dell’arte e il critico d’arte fanno due mestieri diversi è stato uno dei più raffinati critici del Novecento, Gillo Dorfles:

Io non sono uno storico dell’arte. Ho sempre fatto una distinzione netta tra lo studioso di storia dell’arte e il critico d’arte contemporanea. Il compito dello storico dell’arte, che può anche non capire nulla di arte contemporanea, è principalmente quello di andare a caccia di documenti, scritti e testimonianze relative a un artista, allo scopo di tracciarne approfonditamente la figura in relazione alle sue opere, al suo stile, alla sua epoca. […] Con questo non voglio dire che la storia dell’arte sia inutile, anzi. […] Semplicemente, la lascio fare ad altri.

Nel 2008 Dorfles ha inoltre constatato che in Italia il pubblico dei critici coincide con quello che, incoraggiato da sapienti operazioni pubblicitarie, frequenta le mostre di arte contemporanea senza capirci niente e ben contento di non doversi sforzare di capire; le mostre occupano il «tempo libero», in alternativa alle visite ai centri commerciali, ai ristoranti, alle sale da gioco:

molti degli spettatori che attraversano le sale della Biennale di Venezia […] mostrano soddisfazione nel vedere stranezze di ogni sorta, pur non comprendendone a fondo i significati. Questo ormai perché la provocazione e l’infrazione della regola sono divenute la norma, ovvero sono diventate di moda […], facendo leva sull’adesione acritica dei fruitori. […] C’è sicuramente un effettivo desiderio di conoscenza che spinge migliaia di persone a dedicare una parte del proprio tempo libero alla visita di una mostra. Un desiderio che è cresciuto, bisogna dirlo, di pari passo allo sviluppo di una concezione più evoluta, soprattutto in termini di marketing, dell’evento espositivo. […] sono forme come la videoarte, le installazioni e le performance, realtà come la Body Art e la Land Art a esprimere gran parte della volontà artistica del nostro tempo.

Eppure: «L’arte non è una religione, né una faccenda per persone perbene. […] Ai loro occhi si formano cliché abusati, come il solipsismo di artistoidi considerati tipi bizzarri. L’arte richiede di essere studiata per essere situata, inquadrata. Inutile pensare che il rapporto con l’arte si determini nell’assoluta insipienza».

Nel 2016 l’ammonimento che l’arte viene prima degli artisti si deve alla studiosa italiana, Lea Vergine, che ha legato la sua fama postuma proprio alla storicizzazione dell’arte immateriale senza farne oggetto di intrattenimento per cretini: si possono scrivere cose intelligenti e fare mostre che obbligano a pensare anche occupandosi di Body Art, di ombre, di arte fatta con i rifiuti o dalle donne (Giovanni Agosti ne ha parlato su «Alias» l’1.11.2020 ricordando Vergine appena scomparsa).

Di tutti gli argomenti accennati in questo articolo mi occupo nel libro Le conseguenze delle mostre. II. Dare forma al vuoto: la tradizione nella Performance Art, appena uscito nella Collana “Monografie” di «Horti Hesperidum» dell’Università di Roma Tor Vergata per i tipi di UniversItalia 2021.

 

*Professoressa associata di Storia dell’arte e Socia corrispondente dell’Accademia dell’Arcadia

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