Per capire l’arte ci vuole una sedia: rubrica di Floriana Conte | | Lo strano caso del Dr. Sambon e di Mr. Hyde: l’enigma dei capitelli

I camerieri in livrea al ballo in costume organizzato da James Hazen Hyde a New York il 31 gennaio 1905

Gli storici dell’arte condividono il metodo di lavoro con i medici e con gli investigatori: tutti raccolgono indizi per formulare una diagnosi. Pertanto è naturale che il racconto che segue appartenga al genere del giallo (un genere molto amato dagli storici dell’arte) e che, come un giallo, si sviluppi tra epoche e città diverse, dal Medioevo di Federico II e di Isabella d’Aragona alla New York di La casa della gioia per finire a Stuttgartt durante gli anni di piombo, dagli scavi del duomo pugliese di Troia alle sale del Metropolitan Museum di New York e che i personaggi siano mercanti, storici dell’arte, falsari, funzionari. Anche il titolo del racconto e i titoli dei paragrafi sono omaggi ad alcuni celebri racconti del mistero: al lettore il compito di svelare a sé stesso questi indizi disseminati nel racconto e, magari, la curiosità di leggere gli originali, se ancora non lo ha fatto.

  1. Storia dei capitelli

A Parigi, tra il 16 aprile e il 16 maggio 1928, il mercante Arthur Sambon organizza nel suo “hotel particulier, 7, Square de Messine” una “exposition de sculpture comparée de l’Antiquité, du Moyen Age et de la Reinassance” allo scopo di illustrare gli aspetti diversi e contrastanti della “progression de l’art sculptural”. Il ricavato della vendita è destinato all’“Union des Arts (fondation Rachel Boyer)”.

Tra i ventidue Chapiteaux et Colonnes elencati nel catalogo illustrato venduto a 15 franchi (la versione senza immagini ne costa 5) con le riproduzioni dell’“Hélio[graphie] Léon Marotte Paris” c’è un “Chapiteau orné de feilleus de chou et de têtes représentant les différentes races humaine” in pietra, proposto (con una buona dose di approssimazione) come esemplare di “Art padouan du XVe siècle”, senza dettagli sulla provenienza (di altri pezzi in catalogo Sambon dichiara l’appartenenza a più e meno note raccolte private, ma tutti hanno in comune la verginità sul mercato: “Presque tous les documents que nous avons réunis sont inédits”). Si tratta di uno dei due reperti attribuiti a manifatture rinascimentali italiane tra i quattordici riprodotti in progressione diacronica nelle tavole della sezione Chapiteaux et Colonnes.

Fig. 1. “174 ― Chapiteau orné de feuilles de chou et de têtes représentant les différentes races humaines. Pierre. Art padouan du XVe siècle. Pl.[anche] XXXV”. “175. Grand Chapiteau représentant un bacchant et une bacchante retenent deux chévres qui se lancent l’une conte l’autre. École de Sansovino. XVIe siècle. Pl.[anche] XXXV”, in Exposition de sculpture. Sculpture comparée de l’Antiquité, du Moyen Âge et de la Renaissance. Organisée par M. Arthur Sambon en son hotel particulier 7, Square de Messine, 7, au profit de Union des Arts (fondation Rachel Boyer). Catalogue. Simple: 5 fr. – Illustré: 15 fr. Paris. Du 16 Mars au 16 Avril 1928, p. 30 (cm 16 x 5 x 21,5)

L’organizzatore della mostra parigina del 1928, Arthur Sambon, è nato a Portici nel 1867 da Giulio, già garibaldino, mercante d’arte, e la cui collezione personale nel 1911 ha costituito la base del Museo Teatrale alla Scala; la madre è l’inglese Laury Elizabeth Day, imparentata alla lontana con Charles Dickens. All’Università Federico II di Napoli Sambon studia archeologia con Giulio De Petra (direttore del Museo di Napoli dal 1900) e paleografia con Nunzio Federico Faraglia che applica la filologia alla verifica delle falsificazioni (l’erudito di Pescocostanzo entra dal 1807 all’Archivio di Stato di Napoli; Faraglia è, tra le altre cose, il primo a considerare le biografie degli artisti napoletani di De Dominici nell’ottica della storia della contraffazione: Le memorie degli artisti napoletani pubblicate da Bernardo De Dominici. Studio critico, Napoli, Tipografia Giannini, 1882). Sambon si laurea in Lettere, va a Parigi; qui intraprende brillantemente la carriera di mercante d’arte e si crea una fama di perito di etruscologia e di numismatica medievale dell’Italia meridionale pubblicando anche studi che diventano di riferimento; diventa presidente della Chambre des experts d’art di Parigi, fonda nel 1904 la rivista “Le Musée, revue d’art antique”, dirigendola fino al 1924.

La titolare della Fondazione a cui sono destinati i ricavi della vendita della mostra del 1928 svolge attività non trascurabili per i rapporti tra storia dell’arte accademica e high society in questi decenni: l’attrice e mecenate della Comédie-Française Rachel Boyer ha creato nel 1913 l’associazione “Union des Arts” e ha istituito nel 1921 all’École du Louvre il primo corso pubblico e gratuito di storia dell’arte (evolutosi e attivo ancora oggi) destinato a tutti coloro che non sono in grado di frequentare i musei.

Nella primavera 1952 uno studioso e professore tedesco di trentanove anni, Hans Wentzel, fa una scoperta determinante che da allora in poi si intreccia alla storia, fino a quel momento sconosciuta, del capitello presentato da Sambon a Parigi nella primavera 1928. Wentzel sta facendo un sopralluogo nel duomo di Troia, la cittadina sede vescovile (oggi a meno di mezz’ora di auto da Foggia) in Capitanata, area prediletta della mobilissima corte di Federico II dal 1221 al 1250. In un angolo buio della camera dei paramenti nella sacrestia, Wentzel trova un capitello di materiale, iconografia, misure e stile sorprendentemente simili a quello messo in vendita a Parigi da Sambon nel 1928: però Wentzel non conosce il capitello già pubblicizzato, pertanto giudica nuovo sotto ogni aspetto quello appena trovato a Troia.

Wentzel porta il capitello all’esterno del duomo per esaminarlo e scattarne fotografie in piena luce diurna, per corredare un articolo che uscirà sulla “Zeitschrift für Kunstgeschichte” nel 1954 (non esistono fotografie della scultura nella sacrestia in cui Wentzel dichiara di averlo individuato). Wentzel constata l’alta qualità dell’opera (con particolare riguardo al ritratto maschile con il cappuccio, pur mutilo della parte inferiore del volto fig. 4) e ne suppone (con grande cautela) una manifattura francese di età successiva a quella federiciana.

Fig. 4. Capitello con quattro teste angolari e foglie, particolare, pietra calcarea, dopo il 1271 ca. (datazione proposta da Hans Wentzel), Troia (FG), Museo diocesano

La supposizione di Wentzel si basa anche su un confronto con la realizzazione, da parte di maestranze francesi, del sepolcro monumentale di pietra calcarea eretto nella cattedrale di Cosenza dopo il 28 gennaio 1271 ed entro il 1275 in morte della ventiquattrenne regina Isabella d’Aragona (fig. 6).

Fig. 6. Isabella d’Aragona regina di Francia, la Madonna col Bambino e Filippo III re di Francia, particolare della tomba a parete di Isabella d’Aragona, pietra calcarea, 1271-2175, Cosenza, cattedrale di Santa Maria Assunta

In conclusione Wentzel, sottolineando l’inedito rapporto tra il fogliame consistente e la forma dell’abaco rispetto agli altri capitelli soprattutto duecenteschi che gli sono noti, sembra suggerire una possibile pista e nello stesso tempo lascia aperta la strada a ulteriori, necessari studi successivi. Wentzel nel 1952 è uno studioso di impegno variegato: è abituato a fare coincidere la storia dell’arte con la tutela che comincia con la documentazione fotografica a tappeto del territorio; durante la seconda guerra mondiale ha lavorato al progetto per la ricognizione delle vetrate in Germania, prodromo del “Corpus Vitrearum Medii Aevi”, alla cui fondazione formale ad Amsterdam contribuirà in prima persona nel luglio dello stesso 1952. Wentzel conosce bene la scultura gotica monumentale tedesca perché si è laureato a Greifswald con Otto Schmitt, del quale è stato anche collaboratore. Dal 1953 succede al suo maestro alla Technischen Hochschule e insegna anche alla Staatlichen Akademie der Bildenden Künste a Stuttgart, dove muore il 17 agosto 1975 (il posto che fu di Wentzel alla Hochschule è occupato dal 1977 da Herwarth Röttgen).

L’autorevolezza dell’autore della scoperta, la sostanziale distanza dei suoi studi dagli approdi mercantili, la sede scientifica della pubblicazione (ininterrottamente di rilevanza internazionale, oggi la “Zeitschrift für Kunstgeschichte” è rivista di “fascia A”) certificano la straordinaria rilevanza del capitello e nello stesso tempo ne garantiscono l’inamovibilità dal patrimonio pubblico di Troia. Oggi è esposto in una “Sala dei capitelli” allestita nel Museo ecclesiastico diocesano, di fronte al duomo in cui lo ha trovato lo studioso tedesco.

Torno su un punto già toccato. Dopo la mostra parigina del 1928, il silenzio assoluto avvolge il capitello attribuito a manifattura padovana quattrocentesca. Si sa solo che nel 1955, un anno dopo la pubblicazione del capitello rinvenuto a Troia da Wentzel, è di proprietà di James Hazen Hyde che lo dona al Metropolitan Museum of Art corredandolo di una sua lettura iconografica in chiave geografica, secondo cui due delle teste sarebbero allusive ad Adamo ed Eva e rinvierebbero all’Europa.


Fig. 2. Capitello con quattro teste angolari e foglie, particolare, pietra calcarea, 1225-1250 (datazione proposta attualmente dal museo), New York, The Metropolitan Museum of Art, The Cloisters, The Met Fifth Avenue, Gallery 304. Accession Number: 55.66

La testa con il turbante rinvierebbe all’Asia, la testa con naso camuso, labbra tumide e folti riccioli corti rinvierebbe ai tratti somatici tipici dei nativi dell’Africa. Il “Capital with Four Heads ca. 1225-50”donato da Hyde è esposto nella “Medieval Europe Gallery” “at The Met Fifth Avenue in Gallery 304»; secondo il catalogo online del museo, il capitello è vicino nello stile ad altri esempi di scultori pugliesi attivi alla corte di Federico II Hohenstaufen.

Fig. 3. Capitello con quattro teste angolari e foglie, particolare, pietra calcarea, 1225-1250 (datazione proposta attualmente dal museo), New York, The Metropolitan Museum of Art, The Cloisters, The Met Fifth Avenue, Gallery 304. Accession Number: 55.66 (datazione proposta attualmente dal museo)

James Hazen Hyde ha vissuto due vite: la prima da imprenditore, la seconda da conferenziere, mediatore accademico e museale e collezionista di fama mondiale. Laureato ad Harvard nel 1898, erede nel 1899 della maggioranza delle azioni della ”Equitable Life Assurance Society of the United States” fondata dal padre, viene trascinato suo malgrado dai consiglieri della compagnia assicurativa (di cui sono membri Henry Clay Frick e J. P. Morgan) in uno scandalo finanziario dalle enormi proporzioni mediatiche, che gli impone le dimissioni dalla vicepresidenza della compagnia: con maldicenze giustificate dallo stile di vita frivolo e dispendioso (giudicato inadatto al ruolo di vicepresidente di una società che non ha bisogno di attirare l’attenzione su di sé mentre conduce i propri affari non sempre trasparenti), la stampa induce l’opinione pubblica a ritenere Hyde responsabile di avere pagato con i fondi della compagnia le spese per l’organizzazione del più favoloso ballo in costume dell’epoca, ispirato a Versailles, che egli organizza a New York il 31 gennaio 1905.

James Hazen Hyde al ballo in costume che fu l’inizio della sua rovina

La vita mondana alla francese in cui si muove Hyde ha caratteristiche, luoghi di svolgimento e personalità analoghi a quelli tassidermizzati da Edith Wharton nei suoi romanzi: in particolare, il titolo di The House of Mirth (La casa della gioia), uscito a puntate su “Scribner’s Magazine” da gennaio 1905 e in volume il 14 ottobre, sarebbe stato suggerito a Wharton proprio dallo scandalo esploso a Wall Street per il sistema di truffe e appropriazioni indebite di denaro di cui si macchia la Equitable. Con l’espressione “The House of Mirth” la stampa designa infatti una villa ad Albany (insieme a New York, uno dei luoghi del romanzo di Wharton) che funge da sontuoso rifugio, mantenuto con smisurate somme di denaro, per i membri delle compagnie assicurative che possono usare le stanze ben arredate per tutto il tempo che desiderano, giocando a carte e intrattenendosi nei loro svaghi. A ridosso dello scandalo del “French Ball”, “The House of Mirth” è un’espressione metonimica addirittura popolare per indicare l’avidità delle assicurazioni e dei loro partners a Wall Street.

Il ballo, insomma, con proiezione figurale grottesca, è una sorta di “scandalo della collana” del XX secolo per far cadere in disgrazia pubblicamente il ventinovenne Hyde che, in seguito alle dimissioni, si trasferisce in Francia, dove vive fino al 1941. Qui nel 1913 sposa Martha Leishman, figlia di un ambasciatore americano in vari paesi europei, vedova dal 1907 del conte de Gontaut-Biron; Martha frequenta la cerchia di Edith Wharton (ma le due non si stanno simpatiche) e conosce Marcel Proust, con il quale condivide l’amicizia con Walter Berry, grande amico di entrambi e legale di Martha durante il divorzio da Hyde nel 1918. Dopo la Prima Guerra Mondiale, a Parigi Hyde ricopre incarichi che prevedono scambi culturali e accademici tra Francia e USA. Fa parte dell’Advisory Board che assegna le Fellowships istituite dall’American Field Service per le università francesi.

Durante gli anni Venti, Hyde è membro anche dell’Executive Committee of the Continental Division of the American University in Europe e dirige l’Harvard and New England bureau of the University Union. In virtù di tale ultima carica, tra il 1926 e il 1935 è partecipe di occasioni internazionali di primo piano per la didattica e la museografia di avanguardia: viene coinvolto dall’Università di Harvard in prestigiose iniziative didattiche e nella vicenda dell’ampliamento delle collezioni del Fogg Museum per cui Edward Waldo Forbes, secondo direttore del Fogg, inaugura il nuovo edificio in Quincey Street 32 il 20 giugno, allestito anche con l’aiuto di Bernard Berenson (già compagno di studi di Forbes), garante degli acquisti. Nel 1927 Hyde funge da intermediario per gli accordi tra Harvard e Adolfo Venturi perché questi tenga dei corsi al Dipartimento di Fine Arts; durante lo stesso anno Harvard chiede ad Hyde di avvicinare Berenson perché tenga dei seminari a Fogg; nel 1928 Hyde viaggia in Germania garantito da lettere di presentazione di Paul J. Sachs, da uomo d’affari diventato assistente di Forbes; nel 1932 Hyde chiede a Sachs di fare un giro di conferenze nelle province francesi, Sachs accetta e, nel 1933, autonomamente e su suggerimento di Berenson, chiede a Hyde lettere di presentazione e informazioni su vari collezionisti in Francia.

Già nel gennaio 1920 l’ambiente accademico francese riconosce a Hyde il merito di essersi distinto come “grand ami de la première heure de la langue et de la culture françaises que, depuis bientôt vingt ans, il travaille avec une ardeur infatigable á faire connaître aux Universités américaines et qui a pris d’hereuses initiatives dans l’institution si féconde des échanges inter-universitaires aujourdh’hui en pleine prospérité»: così la stampa presenta la motivazione della laurea honoris causa assegnatagli dall’Université de Rennes. Per i meriti culturali e filantropici Hyde ottiene anche la Grande Croce della Legion d’Onore nel 1928.

Nel 1913, durante il primo anno di matrimonio con Martha, Hyde progetta di studiare la “représentation of the four parts of the world», dopo avere ammirato “magnificent tapestries with the assorted pieces of furniture”in casa dell’industriale Gaston Menier. Il 24 agosto 1924 Hyde confida a Menier che proprio a tale impressione visiva egli deve “the starting point”del suo “project», che confluisce a novembre nell’articolo L’iconographie des quatre parties du monde dans les tapisseries sulla “Gazette des Beaux-Arts”(10, 1924, pp. 253–272) e tra 1926 e 1927 nell’articolo The Four Parts of the World as represented in Old-Time Pageants and Ballets su “Apollo”(4, 1926, pp. 232–238; 5, 1927, pp. 19–27). L’11 gennaio 1925 “Paris Times”pubblica la riproduzione di un arazzo Aubusson con la Series of Four Part of the World composta da “The Near Est”(una figura con un turbante), “Europe”(una donna con lunghe trecce), “Africa”(un giovane nero) “and the Far East”(una giovane con un copricapo vagamente orientale) “in the collection of Mr. Hyde». L’articolo evidenzia un’eccezione alla consuetudine iconografica: “It is noticeable in the work of 17th Century artists that America was generally typified as an Indian chief although an exception is made in the beautiful tapestry above, in which she is represented by a beautiful woman, surrounded by sisters of the various races found on the American continent”.

Alla ricerca scientifica di Hyde corre infatti parallelo il progetto collezionistico del quale egli, tra 1924 e 1928, informa pubblicamente e privatamente il mondo della storia e del mercato dell’arte: Hyde è interessato a raccogliere esclusivamente opere che rappresentano le quattro parti del mondo e tra il 1925 e il 1928 si concentra sulla ricerca specifica di allegorie antiche dell’Asia e soprattutto dell’Africa. Quando il 16 aprile 1928 Sambon inaugura la mostra, Hyde è a Berlino dal 12 aprile, dove si trattiene durante il periodo dell’esposizione (che chiude il 16 maggio), e rientra il 16 luglio a Versailles. Non si sa se il capitello resta invenduto e Hyde lo compra una volta tornato in Francia, oppure se un intermediario agisce per suo conto durante la mostra.

2. In cerca di Mr. Hyde

La ragione della retrodatazione di due secoli del capitello di Hyde e dello spostamento della sua provenienza geografica (da Padova alla Puglia) rispetto alle informazioni riportate dalla didascalia del catalogo di vendita (che è anche la prima fonte di notizie sull’oggetto) e alle ipotesi del proprietario al momento della donazione al museo è indotta sostanzialmente non da oggettivi riscontri di stile ma dal fatto che il capitello simile pubblicato da Wentzel è riemerso nel territorio con il più alto DNA federiciano d’Europa. Tuttavia la fama e il prestigio del capitello newyorkese si sono consolidati per via della collocazione museale e la sua storia si è incrociata progressivamente a quella della riproduzione e delle mostre di scultura federiciana. La bibliografia sul capitello americano si basa sull’attribuzione e sulla storia dello stile, che però sono insufficienti per un oggetto lacunoso e privo di elementi di confronto oggettivi, nelle epoche di volta in volta chiamate in causa per datarlo: un improbabile Quattrocento padovano da chi lo ha messo in vendita per la prima volta (forse per evocarne un pedigree donatelliano, come moltissime volte accade anche fino al decennio successivo per la scultura – monumentale e no – anonima o di incerta attribuzione), il Duecento federiciano, con manifattura francese o pugliese, negli studi successivi alla pubblicazione scientifica del capitello di Troia.

L’isolamento stilistico e scientifico del capitello di Hyde, le lacune non completamente giustificabili da eventi accidentali e la sua riemersione dal nulla a Parigi hanno fatto pensare che si tratti di un falso novecentesco, in particolare dopo che a Stuttgartt, nel 1977, l’opera è stata esposta accanto a quella di Troia.

Non sono note fotografie del capitello di Troia precedenti a quelle scattate da Wentzel nel 1952 e diffuse nel 1954. Non sono noti calchi dello stesso destinati a studio accademico o a esposizioni pubbliche, in Italia o in Francia o altrove. D’altro canto il capitello donato da Hyde è entrato nel dibattito scientifico solo nel 1965 con un articolo pubblicato dalla conservatrice delle collezioni medievali del museo a cui è stato donato sulla rivista del museo stesso. La funzionaria ne ha proposto una datazione tra il 1212-1220 e il 1229, basandola sull’affinità con il capitello di Troia, per collocazione e stile ritenuto di epoca federiciana. Vera Ostoia ha immesso negli studi l’ipotesi che entrambi i capitelli abbiano la stessa provenienza, aggiungendo che (a suo parere) essi formassero una coppia, senza “any doubt”.

Dopo il 1965 la cronologia più diffusa e ripetuta per entrambi i capitelli è che siano “anteriori al 1229”e che siano attribuibili a “un anonimo maestro di cultura protogotica francese” che avrebbe perfino osservato direttamente “modelli […] nelle colonie musulmane di Lucera”. Oggi il Metropolitan è (opportunamente) più prudente: il capitello di Hyde “is close to, but not the twin of, the capital found in Troia”. Anche sul materiale di entrambi generalmente non c’è accordo, a partire dall’interpretazione delle indagini diagnostiche: c’è chi usa l’analisi di minuscoli prelievi di pietra per dedurre che entrambi i capitelli sarebbero ricavati dalle medesime cave “from the mountains near Daunia”e che si tratterebbe di tufo del Gargano, per la precisione. Sulla superficie dell’esemplare del Met sarebbero presenti sostanze incompatibili con l’esposizione prolungata ad agenti atmosferici (“sali solubili di neo-formazione, fosfato tricalcico e idrossiapatite”) e “una forma di alterazione (erosione con microcavità e solchi) difficilmente spiegabili attraverso i naturali processi di weathering nell’ambiente in cui si è trovato esposto”: si allude quindi alla possibilità che l’erosione meccanica da agenti atmosferici sia stata simulata tramite una sofisticazione moderna. Impossibile, in ogni caso, è stabilire a quale monumento, religioso o civico, e a quale ambiente di esso, fossero destinati i capitelli, e se fossero nello stesso edificio e nella stessa città. Altre analisi su campioni (necessariamente millimetrici) del capitello del Met hanno rivelato che la pietra calcarea (esistente in molte regioni italiane ed europee) sarebbe compatibile con quella tufacea borgognona, e che in definitiva l’uso di pietre diverse distingue i capitelli l’uno dall’altro; inoltre sul capitello di Hyde non si vedrebbero al microscopio tracce di policromia.

Tra il capitello di New York e quello di Troia esiste un indubbio collegamento ma molti elementi, non solo di dettaglio, restano oscuri o contraddittori. In teoria, non può escludersi che Sambon abbia visto direttamente il capitello di Troia (prima che esso venisse “scoperto” e presentato alla comunità scientifica da Wentzel) o una sua foto o un calco (a noi non noti), ignorando la provenienza del reperto e di conseguenza abbia creduto a una cronologia quattrocentesca di esso. Venuto a conoscenza del desiderio di un danaroso e noto collezionista come Hyde di trovare pezzi accomunati da una precisa iconografia, l’allegoria dell’Africa, ne abbia fatto realizzare una versione in Francia con pietra calcarea nel 1928. Se le cose stessero davvero così, si spiegherebbe la didascalia nel catalogo di vendita, che propone il capitello come esemplare di scultura padovana (non pugliese) e la datazione nel Quattrocento.

Se si vuole ragionare senza pregiudizi sulla possibilità che il capitello del Met non si debba a un contemporaneo di Nicola Pisano ma a uno di Alceo Dossena, vanno messe in gioco anche le competenze maturate da Sambon: come etruscologo ed esperto di monetazione antica, egli è un conoscitore capillare del territorio italiano meridionale e della storia dell’arte in generale. Se il mercante ha guidato il falsario, le teste di laici adulti e maturi con un turbante più note del Quattrocento in un sito pubblico europeo erano, forse, la testa a tutto tondo di Ghiberti nell’autoritratto sulla porta nord del Battistero di Firenze e quella di Donatello nel misterioso ritratto multiplo di cinque maestri del Rinascimento fiorentino, di proprietà di Giuliano da Sangallo, poi custodito dal figlio Francesco e per la cui attribuzione, da Vasari a oggi, si sono fatti i nomi di Masaccio, Paolo Uccello e Filippino Lippi.

Da conoscitore della monetazione antica, Sambon poteva elaborare reinterpretazioni per un profilo maschile dalla capigliatura a ciocche regolari e perpendicolari simile a modelli di età giulio-claudia (fig. 3); anche il profilo e la capigliatura della testa femminile (più rozza e imparagonabile, per stile della capigliatura e raffinatezza di profilo, zigomi e occhi, a quella femminile di Troia: fig. 5) non escluderebbero a priori fonti numismatiche, avvalorando con questo dettaglio l’eventualità della falsificazione.

Fig. 5. Capitello con quattro teste angolari e foglie, particolare, pietra calcarea, dopo il 1271 ca. (datazione proposta da Hans Wentzel), Troia (FG), Museo diocesano

Comunque siano andate le cose, certo è che Sambon ha presentato sul mercato il capitello in un contesto di primo piano, attraverso una sapiente opera di seduzione di un acquirente che avrebbe potuto essere attratto da un’opera unica nel panorama artistico noto, non presente per genere e materiale nella propria collezione, della quale avrebbe colmato una lacuna. Anche a questo scopo, che il capitello sia autentico o no, è verosimile che Sambon abbia fatto fotografare l’angolo con la testa “africana”, confezionando anche la didascalia in relazione a un’epoca aurea della scultura monumentale italiana, proprio per assecondare il colpo d’occhio di chi cercava allegorie dell’Africa (fig. 1).

L’unicità o l’estrema rarità degli oggetti dovrebbero sollecitarne lo studio sotto ogni aspetto possibile. Servono sicuramente l’ispezione autoptica di entrambi i pezzi riuniti nuovamente, specifiche indagini diagnostiche comparative, sia non invasive sia tramite microprelievi, sui materiali e, fin dove possibile, indagini a tappeto nelle carte private di Sambon e di Hyde. Le perplessità e i dubbi che ho esposto fin qui non intendono dare una soluzione all’enigma dei capitelli, ma solo suggerire strade per i necessari accertamenti successivi. Al moodboard sui capitelli di Troia e di New York, che finora contava solo su un certo numero di riproduzioni e fonti, ho voluto aggiungere l’identikit di tutti i protagonisti della storia. Evidenziare il loro ruolo in ambito mercantile, accademico e museale internazionale tra 1928 e 1955 aggiunge tasselli non trascurabili agli elementi su cui finora si è fondata la bibliografia scientifica. Su queste basi, si potrebbero avviare nuove indagini per porre domande mirate e istituire confronti pertinenti. Si prospetta, senza alcun dubbio, l’esigenza di una nuova mostra, impostata con criteri adeguati. Le conseguenze scientifiche sarebbero rilevanti e la storia del territorio riceverebbe incrementi di conoscenza.

Se Hans Wentzel avesse vissuto due anni ancora, nella stessa città dove aveva insegnato per tutta la vita avrebbe assistito all’epilogo della rivoluzione mancata della Rote Armee Fraktion, tre mesi dopo la chiusura della mostra Die Zeit der Staufer di cui i due capitelli erano gli ospiti d’onore. Il rigore abituale sarebbe servito allo studioso per valutare con onestà intellettuale l’autenticità delle immagini e dei commenti divulgati dai media in un caso e dagli scritti scientifici nell’altro; e forse anche per rispondere all’enigma in cui ancora sono avvolti i capitelli esposti a Stuttgartt durante “die bleierne zeit” (gli “Anni di piombo” del film magnifico di Margarethe von Trotta, forse il più bello mai fatto sull’amore tra due sorelle).

*Questo articolo riassume e anticipa in forma di racconto alcuni risultati delle ricerche scientifiche di imminente pubblicazione in un saggio, corredato di cospicuo apparato di note e bibliografia, già consegnato a luglio 2022 per un volume miscellaneo per i tipi del Centro italiano di Studi sull’alto medioevo di Spoleto.

Floriana Conte – Professoressa associata di Storia dell’arte a UniFoggia (floriana.conte@unifg.it; Twitter: @FlConte; Instagram: floriana240877) e Socia corrispondente dell’Accademia dell’Arcadia

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