“La scelta del nome “Francesco” è la chiave di lettura per rileggere una storia che più che da detti è caratterizzata da fatti. Bergoglio è stato il primo sudamericano, il primo gesuita, il primo a non abitare nel palazzo apostolico, il primo a non indossare certi abiti pontificali. La lista delle “prime volte” potrebbe continuare con tantissimi esempi”. Monsignor Giulio Dellavite, attuale delegato Vescovile per le relazioni istituzionali, i rapporti esterni e gli eventi diocesani, anche per il Giubileo 2025, con la responsabilità dell’ufficio stampa come portavoce della diocesi di Bergamo e del vescovo, ma è stato anche Segretario generale della Curia di Bergamo e segretario particolare del Prefetto per la Congregazione per i Vescovi, Cardinale Giovanni Battista Re ed è, inoltre, giornalista con una rubrica sul Giornale e scrittore con varie pubblicazioni anche per Mondadori, ci spiega la figura di Papa Bergoglio, il suo pontificato e il futuro della Chiesa.
Monsignore ci può raccontare la sua visione sui 12 anni di pontificato di Papa Francesco? Ci sono stati dei momenti fondamentali o caratterizzati da azioni particolari? Cosa le è rimasto più impresso e cosa meno.
Il momento fondamentale del pontificato è stato, secondo me, la scelta del nome “Francesco” perché è poi la chiave di lettura per rileggere una storia che più che da detti è caratterizzata da fatti. Il nome Francesco è innanzitutto un criterio di novità. Bergoglio è stato il primo sudamericano, il primo gesuita, il primo a non abitare nel palazzo apostolico, il primo a non indossare certi abiti pontificali. La lista delle “prime volte” potrebbe continuare con tantissimi esempi. Il nome Francesco è poi un goal mediatico e comunicativo. La figura del poverello di Assisi è universale e gode di un’ammirazione trasversale tra fedeli, credenti di altre religioni, atei o laici o persone in ricerca. Il nome Francesco ha un legame forte con la povertà e con i poveri. Evoca immediatamente la scelta radicale per i più deboli, insieme all’assunzione del criterio dell’essenzialità. Il nome Francesco ricorda una apertura universale per la pace. Il giovane di Assisi si spoglia dopo essere stato bloccato in un’armatura con cui desiderava partecipare alle crociate. Nella maturità della sua vita poi partirà da Assisi in pellegrinaggio per raggiungere e incontrare il Sultano. Il nome Francesco ha quindi un legame forte con il Vangelo. Il piccolo grande frate invitava i suoi fratelli a seguire il Vangelo “sine glossa”, senza commenti o tare o interpretazioni, e poi diceva: “annunciate sempre il Vangelo e se serve anche con le parole”. Molti dicono che Papa Francesco ha spinto la Chiesa in avanti, per me invece l’ha portata “indietro tutta”, l’ha portata alla sorgente, al nucleo essenziale del messaggio di Gesù e del contenuto di fede, liberando dalla zavorra di tante sovrastrutture accumulate. Il nome Francesco infine indica il potere usato per una riforma della Chiesa. “Francesco, va’ e ripara la mia Chiesa”. Così la voce misteriosa del Crocifisso dice a San Francesco d’Assisi in San Damiano. La mente allora corre agli affreschi di Giotto nella Basilica Superiore. Raffigurano in un primo riquadro il poverello inginocchiato tra i ruderi, pensoso su come restaurare le strutture decadenti (quelle della chiesa con “c” minuscola) e invece poi in un secondo spazio si vede Francesco che sorregge sulla sua spalla la traballante Chiesa (quella con la “C” maiuscola, cioè la comunità delle persone raffigurata nella Basilica di San Giovanni in Laterano, la cattedrale del Papa come vescovo di Roma), mentre il Pontefice, rivestito degli abiti pontificali, dorme. In Jorge Bergoglio queste due antichissime immagini si fondono ed è Francesco a rivestire gli abiti del Papa.

Il giorno dopo la morte, le principali testate giornalistiche italiane e del mondo hanno evidenziato che Bergoglio era “Il Papa degli ultimi”. Ma lo era davvero?
È stato il Papa degli ultimi, perché nella sua vita è stato lui “ultimo” e ha provato cosa voleva dire esserlo. Jorge era un giovane “sessantottino” entusiasmato dalle battaglie per i diritti umani e dalle provocazioni a una Chiesa in ricerca di nuovi orizzonti, non capiti e spesso non accettati. I suoi genitori erano stranieri emigrati dall’Italia in Sud-America per scappare dalla povertà, anche se poi si erano ritrovati non tanto meglio, col rischio di essere isolati, sfruttati, senza diritti. Era il primo di cinque figli. Quando il padre morì improvvisamente di infarto, lavorava la sera come buttafuori in un locale e di giorno studiava da perito chimico. Anche la mamma si ammala e resta quasi paralizzata, quindi Giorgio assisteva lei insieme ai fratelli e alle sorelle. Oggi tre sono morti: Oscar, Marta, Alberto. Resta Maria Elena. A 21 anni per una polmonite gli viene tolta parte di un polmone. Poi entra in Seminario. Viene consacrato sacerdote nel 1969 nella “compagnia di Gesù”, i Gesuiti. Dopo soli 5 anni di ordinazione diventa Provinciale della sua Congregazione, cioè responsabile nazionale. Non verrà più rieletto perché – si racconta – considerato troppo severo e poco dialogante. Di fatto non avrà più ruoli e sarà lasciato in un santuario come confessore. Qui viene conosciuto dal nuovo Vescovo di Buenos Aires che lo coinvolge nella formazione del clero. Dopo qualche anno, nel 1992, chiederà a Papa Giovanni Paolo II di averlo come suo Ausiliare. Diventando Vescovo sceglie un motto particolare nel suo stemma: “miserando atque eligendo – usando misericordia e scegliendo”. È una frase presa da un commento di San Beda al brano evangelico in cui Gesù chiama il ricco l’esattore Matteo. La scelta di quel motto è rivelativa di uno stile di porsi, di una logica di pensiero, di un metro di misura, di un criterio di giudizio, di un modo nuovo di interpretare il pontificato, di un principio rinnovativo della Chiesa, di una mano tesa all’esterno, di uno sguardo di chiarezza all’interno.
Papa Francesco ha usato molto la comunicazione nel suo pontificato. I suoi messaggi sono arrivati sempre chiari o a volte forse sono stati equivocati? Lei da giornalista come ha visto il mandato di Francesco sotto questo aspetto?
Francesco è stato un abilissimo comunicatore, dal primo momento quando si presentò chiedendo la benedizione del popolo, agli ultimi giorni in cui si è fatto vedere nella sofferenza, nella difficoltà, persino con un poncho e senza la veste da Papa. Così è stato con il primo viaggio a Lampedusa o con le uscite dal Vaticano per comprare gli occhiali, oppure con la scelta dell’auto con cui muoversi, con l’abitare in Santa Marta, con gli abiti liturgici sobri, con le moltissime comparse televisive per interviste, l’uso di un linguaggio “libero” e infine – con forza dirompente – usando come pulpito a risonanza mondiale i viaggi in aereo nel dialogo con i giornalisti, apparentemente informale e spontaneo, invece secondo me profondamente studiato nella densità dei messaggi che lui intendeva lasciare. Così è morto, in mezzo alla folla, tanto che le sue ultime parole sono state “grazie di avermi riportato in piazza”. Questa sua comunicazione ha avuto come filo rosso, secondo me, il tema dell’apertura, che a volte però qualcuno ha interpretato come corrente d’aria: chi per buttare all’aria tante cose col rischio di gettare via il bambino con l’acqua sporca, chi invece per rinchiudersi per evitare il rischio di ammalarsi. C’è chi obietta anche che ha parlato tanto ma non ha poi portato a compimento le promesse fatte in vista di decisioni che aprissero nuove prospettive nella Chiesa. Credo, da parte mia, che il suo obiettivo fosse quello di smuovere per destrutturare e creare delle domande, delle prospettive, delle piste, delle modalità. È uno stile molto gesuitico, direi. Sono convinto che per lui il dibattito comune e a 360 grandi, fosse più importante della decisione che avrebbe potuto prendere da solo. È il senso della parola “sinodalità” che tanto ha rimbombato nel suo pontificato.
Nel 2020 il mondo viene colpito dalla pandemia del Covid. Ci conferma che Papa Francesco fu molto vicino al vostro territorio, Bergamo, che fu il più colpito in Italia?
In quei giorni di bufera pandemica, la vicinanza di Papa Francesco è stata molto forte: ha telefonato al Vescovo, io stesso ho avuto modo di sentirlo e di aggiornarlo, ha chiamato alcuni preti e alcune persone che gli avevano scritto. Ha agito inviando all’Ospedale di Bergamo scorte di mascherine (visto che non se ne trovavano più), alcuni respiratori e un contributo importante. Mi permetta però di sganciarmi da Bergamo perché vorrei ricordare la scena famosa di lui che prega da solo in Piazza San Pietro in quella sera piovigginosa. C’è un dettaglio che è sfuggito a molti. Se si vanno a vedere i grafici delle morti giornaliere, quella sera segna il picco massimo mai raggiunto. Da lì in poi il numero comincia a scendere. Una coincidenza? Forse. Preferisco ricordare quanto diceva James Joyce: “Le coincidenze sono trovate geniali di Dio per rimanere anonimo”.
“Viviamo in una terza guerra mondiale combattuta a pezzi”. Pensa che Papa Francesco abbia fatto tutto il possibile per arrivare alla pace in Ucraina e in Medio Oriente?
Papa Francesco, secondo me, ha fatto tutto quanto poteva nella misura in cui ha lasciato lavorare e ha sostenuto i suoi collaboratori. Il molto che il Papa può fare è seminato, coltivato, sostenuto, alimentato, implementato dall’opera di chi giorno per giorno, in angoli nascosti, nel silenzio, tesse una rete di legami forti. Penso al Segretario di Stato e ai tanti sacerdoti e laici impegnati nel servizio diplomatico delle Nunziature Apostoliche nel dialogo sia con i responsabili politici, sia con gli agenti sociali, sia con i diversi soggetti internazionali traversali, sia con i rappresentanti delle altre religioni. Penso ai Vescovi con le chiese locali. Penso alle istituzioni religiose o laicali che attuano programmi di intervento. Il Papa, come successore di Pietro, è un timoniere, ha il compito di guidare e di dare indicazioni, ma la barca è grande e ha tanti elementi, come pure è necessario tutto l’equipaggio dal mozzo all’ufficiale di bordo.
Non le chiediamo il totonomi su chi sarà il prossimo Papa, la situazione non sembra assolutamente facile nonostante tutti pensino che, avendo Bergoglio nominato circa il 70% degli elettori, salterà fuori e subito un nome in continuità con la sua politica di rinnovamento. Le chiediamo però cosa si aspetta la Chiesa dopo Papa Francesco.
Come ho appena detto, il Papa è per la Chiesa, il successore di San Pietro. Quindi non è solo il successore di Papa Francesco. Sento parlare ancora molto di nazionalismi (l’italiano, l’africano, eccetera, eccetera). Vedo invece un Conclave dove la globalizzazione ha spostato le correnti dalle nazioni ai concetti. Credo che avranno più peso le prospettive contenutistiche e gli orizzonti di significato che identificano un identikit valoriale dentro il quale ci stanno Cardinali di provenienze totalmente diverse. Comunque, se si lancia un veloce sguardo al passato, si resta colpiti da come lo Spirito Santo ha sempre dato alla Chiesa il Papa giusto al momento giusto. Mi si permetta una banalizzazione spannometrica. Durante la Seconda guerra mondiale, Papa Pio XII era colui che meglio poteva interpretare il rischio di Hitler perché era stato Nunzio Apostolico di Berlino: sapeva quindi il desiderio del Furer di arrestare e deportare il Papa, tanto da condizionare le sue eventuali dimissioni se ciò fosse successo “se entrasse un soldato nazista nel palazzo apostolico, arresterebbe Eugenio Pacelli e non il Papa”, lasciando così in modo implicito la eventuale possibilità di un conclave. I suoi silenzi sono stati criticati e studiati, ma credo avessero un fondo di scienza e coscienza unico. Dopo la sua figura ieratica e imponente, i Cardinali scelsero un bonaccione, in apparenza: Giovanni XXIII, il quale però stupì tutti con i suoi gesti da “parroco del mondo” e con l’incredibile decisione di convocare il Concilio Ecumenico Vaticano II. Una rivoluzione copernicana per la Chiesa. Per condurla a compimento, viste le inaspettate richieste di rinnovamento dei vescovi di tutto il mondo, serviva la mente sopraffina, diplomatica, equilibrata, pacata di Paolo VI. Se Papa Roncalli non aveva gli strumenti intellettuali e teologici necessari a portare a compimento il Concilio, Papa Montini non avrebbe mai avuto il coraggio di convocarlo: quindi sono stati essenziali ambedue in sintonia. Vennero poi i 30 giorni di Giovanni Paolo I. Una meteora che però sparigliò le carte dando la possibilità a Giovanni Paolo II di essere eletto perché il conclave inaspettato dà il Papa inaspettato. Papa Luciani fu eletto il 26 agosto, giorno della Madonna di Chestokowa e il Cardinale Wojtyla scrisse ai fedeli di Cracovia che questa coincidenza avrebbe portato una grazia particolare alla Polonia: 40 giorni dopo era Papa lui. Tutti conosciamo la forza dei suoi 28 anni di pontificato che hanno portato milioni di persone in piazza in tutto il mondo. Dopo di lui serviva qualcuno che incanalasse questa energia con un lavoro certosino, che ne indirizzasse la forza in modo capillare per non sprecarla, che con attenzione certosina attuasse e traducesse tale mole di spunti in linee operative. Ecco il cammino di Benedetto XVI che, in punta di piedi e di penna – come Paolo VI dopo Giovanni XXIII – ha affrontato questo servizio. La gente in piazza andava indirizzata ad entrare in chiesa. C’era chi però non era entrato, molti. Da qui la necessità di andare a cercarli, per strada, dove erano. La piazza, entrata in chiesa dove si era motivata e ricostruita nella sua identità, chiedeva ora uno sguardo rinnovato “in uscita”: esattamente la missione di Papa Francesco. “Va’ e ripara la mia chiesa” aveva detto il Crocifisso in San Damiano al povero di Assisi. Cosa ci aspetta ora? Chissà. Papa Giovanni XXIII muore il 3 giugno, antivigilia di Pentecoste, nel cuore dell’invocazione della discesa dello Spirito Santo sugli Apostoli riuniti. Papa Paolo VI muore il 6 agosto giorno liturgico della luce della trasfigurazione di Gesù tra Mosé ed Elia, tra passato e futuro. Giovanni Paolo I muore il giorno della Madonna di Chestokowa, patrona della Polonia. Giovanni Paolo II muore la vigilia della domenica della Divina Misericordia, festa da lui introdotta nel Giubileo del 2000. Benedetto XVI dopo la modernità del grande gesto delle dimissioni e della vita ritirata in preghiera, muore il 31 gennaio, nella apertura di un anno nuovo con quella lucidità della ricerca di verità che lo ha sempre caratterizzato per la realizzazione del senso dell’uomo, come tutti quel giorno si augurano. Francesco muore il giorno dell’angelo, dell’annuncio della gioia della risurrezione come compimento. Ancora tante coincidenze? Per me sono la dimostrazione che Dio ha molta più fantasia di noi e che quindi, se lo lasciamo fare, potrà agire con più creatività rispetto a qualsiasi migliore previsione noi possiamo fare.