I miti visti con l’occhio dell’oggi hanno sempre l’aria di imputati recidivi. Ma i miti e le leggende sfuggono allo sguardo contemporaneo per un motivo: raccontano più dei semplici fatti, dicono non solo gli avvenimenti, ma anche l’occhio di chi li guarda. Sono contenitori fantastici del testo e del contesto (dove il lettore e lo spettatore hanno il tempo e l’agio di perdere se stessi). Niccolò Paganini era o non era in commercio con il Maligno? Pare di sì, ce lo suggeriscono le più grandi teste della sua epoca, tra cui Stendhal e Heine. Anche Goethe ha contribuito alla costruzione di un ritratto sulfureo del violinista genovese. Scrisse che “in Paganini [il demoniaco] si vede molto chiaramente, ed è questo che lo rende capace di produrre i suoi meravigliosi effetti”. I biografi attuali invece pensano che Paganini fosse un uomo molto talentuoso, furbo in affari e ingenuo in amore, e molto malato. A chi credereste voi, a Heine, Stendhal e Goethe o a chi arriva ultimo?
Tutta un’epoca, il Romanticismo, vide in Paganini l’incarnazione del lato oscuro della vita e dell’arte. E non parla solo del popolino, o delle groupies che già allora frequentavano i camerini: Heine, Goethe e Stendhal li abbiamo già citati, bisogna aggiungere che tutti i protagonisti della musica romantica rimasero scioccati e stregati da questo compositore mediocre e strumentista ancora oggi inarrivabile: immacolato nei fraseggi veloci, commuovente nei passaggi lirici, con una sensibilità per il “colore” del suono mai riscontrata prima. Non solo Franz Liszt, che lo idolatrò al punto da volerlo imitare con il pianoforte e da teorizzare una tecnica trascendentale, capace di superare i limiti fisici dello strumento e proiettare il musicista nel regno demonico della creazione pura, dal nulla. Schumann scoprì definitivamente la sua vocazione musicale dopo averlo ascoltato. Ma anche Chopin, Berlioz, Schubert, e tutta una generazione di musicisti furono ossessionati da Paganini. Il Romanticismo cercava l’assoluto, non nella chiarezza e distinzione della ragione, ma come percezione rischiosa di un trascendente. Rischio per rischio, ogni perdizione era salutata come salvezza. “Romantizzare” il mondo voleva dire “conferire al noto l’identità dell’Ignoto” (Novalis). “Il Romanticismo è segreta aspirazione al caos”( August Wilhelm Schlegel). Tutte definizioni che a Paganini calzano a pennello, tanto che la sua figura finì per incarnare meglio di chiunque altro la “Zerrissenheit”, il dissidio, la lacerazione, la vena nera dell’animo romantico.
E in più il genovese suonava il violino, strumento demoniaco per eccellenza: fin dal Medioevo il Diavolo e la morte venivano rappresentati con un violino in mano. Il violino è anche lo strumento melodico per eccellenza, e se la musica cristiana è percorsa da canti a più voci che si muovono in modo coordinato –come simbolo della divina armonia mundi- il violino emerge come strumento solista e solitario. Paganini ebbe la consacrazione europea a Milano, con l’esecuzione di alcune variazioni sul tema de Il noce di Benevento di Süssmayer, brano ispirato a un albero sotto cui le streghe si davano convegno per i loro sabbath, e al quale arrivavano volando, cioè con lo stesso sentimento che evocano le lunghissime fughe di arpeggi ascendenti di Paganini e le sue scale cromatiche che schizzano oltre i limiti d’estensione del violino. Insomma Paganini aveva tutto per rappresentare il dèmone di un’epoca. Aggiungiamo anche che la forma musicale inventata da Piero Locatelli, e alla quale Paganini deve la sua fama, è il Capriccio. Nell’etimo la parola a che fare con la capra. Infernale, naturalmente.
Paganini Niccolò, o Nicolò (firmava con entrambe le varianti), o meglio Nicolaus, come recita l’atto di battesimo vergato in latino, nacque il 27 ottobre del 1782 a Genova, al civico 38 del Passo della gatta mora. Il padre Antonio era di professione imballatore di porto, e si dilettava a suonare il mandolino. Paganini era un figlio del popolo, la sua musica nei momenti migliori (come nei quartetti per violino, viola, chitarra e violoncello), porta il segno delle canzoni ascoltate nelle osterie, nei carruggi, tanto è vero che continuerà per tutta la vita a scrivere anche per chitarra e mandolino, strumenti che appartengono alla tradizione popolare più che a quella colta.
Le prime notizie che si hanno di lui raccontano di una gravissima “affezione”, contratta a quattro anni, che gli comportava crisi catalettiche così forti da farlo sembrare morto. L’epilessia come il carattere melanconico si associano spesso al genio. La malattia infantile per Paganini sarà l’inizio di una “odissea clinica” che lo accompagnerà per tutta la vita. La leggenda vuole che una angelo fosse apparso alla madre Teresa, chiedendole di esprimere un desiderio riguardo al figlio che le sarebbe nato, e che la madre avesse chiesto che il figlio diventasse una grande violinista. La cronaca racconta che il padre costringeva il figlio a un regime di studi pesantissimo, dieci ore al giorno, obbligandolo a raddoppiare i suoi sforzi “con la fame e con le percosse”. Il giovane Niccolò studiò con un maestro geneovese, certo Cervetto o Servetto, ma a dodici anni, dopo alcune esibizioni “con universale ammirazione” nelle chiese genovesi, l’enfant prodige è ormai pronto a volare da solo. Ci saranno una trentina di lezioni con Giacomo Costa, ma Paganini troverà il suo metodo “contrario a natura”, ci sarà l’incontro con Alessandro Rolla nel 1795, ma il maestro pavese ammetterà di non aver niente da insegnare al tredicenne Paganini, e lo indirizza verso un maestro di composizione.
Proprio in quell’anno Paganini se ne esce con un paio di quei colpi di genio propagandistici che sono così indicativi della sua personalità. Il demonismo paganiniano è proiettato nella modernità anche imprenditoriale. In altre parole, era diabolico anche nella capacità di adulare il pubblico, usare la propria immagine, e fare montagne di quattrini. Nel 1795 dicevamo, scrive le variazioni di bravura sul tema della Carmagnola, l’inno rivoluzionario giacobino che in quel momento era molto popolare a Genova. Un bel colpo da istrione con il talento per l’attualità e i luoghi dove si trovava. Più avanti Paganini suonerà God Save the King (in Inghilterra), e St.Patrick day (in Irlanda), mostrando la sua propensione giullaresca, a suonare qualsiasi cosa potesse colpire i sentimenti degli spettatori. Arte raffinatissima da joculator che sarà portata all’estremo un secolo e mezzo dopo dal nero-pellerossa Jimi Hendrix, con l’inno americano e quello inglese stravolti da una Fender Stratocaster che sfabbica il senso d’appartenenza del pubblico. Ma nello stesso anno Paganini annuncia su un settimanale genovese che darà un concerto al Teatro di S. Agostino. Un concerto di beneficienza. A suo favore. Avendo deciso di studiare a Parma con Rolla, e non essendo in grado di coprire e spese “ha immaginato questo mezzo per farsi coraggio di pregare i suoi compatrioti a voler contribuire a simile suo progetto”. Il progetto funziona, e Paganini va a Parma.
Paganini inventa la figura del concertista moderno: quello che prenota un teatro, vende i biglietti (a Londra ci furono contestazioni alla sua abitudine di raddoppiarne il prezzo) si esibisce (in un’epoca ancora ignara della “differeziazione estetica” le esibizioni al violino si alternavano a quelle di acrobati e mangiatori di fuoco). Già nel 1801 a Lucca suscita “fanatismo” tra il pubblico. E’ un concerto pirotecnico, nel quale vengono imitati animali, trombe flauti, corni, che fa indignare i religiosi. Come abbiamo ricordato all’inizio, la notorietà internazionale viene nel 1813, quando a Milano esegue Le streghe. E’ l’inizio del fenomeno Paganini. A un certo punto a Vienna si venderanno persino oggetti di vestiario, gioielli e bastoni da passeggio ispirati alla “moda Paganini”. I guadagni furono enormi, e furono amministrati con oculatezza genovese. Paganini ebbe onorificenze in moti i paesi, tra cui, nel 1828, lo Speron d’Oro, il riconoscimento più importante che la chiesa può attribuire a un laico. Dal 1813 fino quasi alla morte, nel 1840, la sua vita sarà una corsa forsennata per l’Europa, da una città all’altra inseguendo fama, successo, danaro, amori. I momenti di riposo saranno dovuti alle, tante, malattie.
Nel 1822 gli venne diagnosticata la sifilide, la malattia venne curata per anni medicamenti al mercurio che gli provocarono uno stato continuo di avvelenamento. Alcuni studiosi pensano che soffrisse di sindrome di Marphan, che spiegherebbe la sua strana conformazione fisica, e molte delle malattie che lo affliggevano. Aveva il viso scavato, con “occhi che non si dimenticano”, il tronco corto e le gambe lunghe, il cranio grande e gibboso, sotto i capelli lunghi e disordinati. Soffriva di disturbi alla vista, che negli ultimi anni aumentarono sempre più, e anche di afonia e di tosse continua. La propria condizione fisica era monitorata da Paganini con un misto di timore e ironia; nel 1823 si ritenne “salvato” in extremis da un dottore americano incontrato al caffè, che diagnosticò una “debolezza di nervi” da guarirsi a suon di bistecche, e sospese la cura di salassi e digiuni a cui s’era dovuto sottoporre. Ma la cosa che colpì di più i medici che lo visitarono era la stranissima conformazione delle sue mani, forse spiegabile con il Marphan, forse con il tanto esercizio al violino sin da piccolissimo: i legamenti erano rilassati in maniera abnorme, Paganini era in grado far toccare pollice e mignolo piegando la mano all’indietro. La mano di Paganini sembrava, come è stato scritto, “un fazzoletto legato ad una canna”.
La descrizione più efficace dell’apparire di Paganini su un palco ce la dà Henrich Heine, che lo vide in concerto ad Amburgo. Paganini si presentò sul palco illuminato dalle candele con vestiti neri logori, che sembravano “prescritti dall’etichetta infernale alla corte di Proserpina”. Si presentò al pubblico con in una mano il violino e nell’altra l’archetto, rivolti verso il basso, camminava in maniera sghemba (aveva la spalla sinistra più alta della destra, effetto delle troppe ore passate allo strumento), “i pantaloni neri tremavano ansiosamente –continua Heine- e (…) Nel piegarsi ad angolo del suo corpo c’era una strana rigidità, e allo stesso tempo qualcosa di clownescamente bestiale che lo faceva sembrare stranamente ridicolo. Ma la sua faccia, che sembrava ancor più bianco cadavere sotto l’illuminazione del palco, aveva qualcosa di così implorante, era carica di tanta umile idiozia, che una compassione orribile bloccò la nostra voglia di ridere. Da dove aveva preso queste cerimonie e questo modo di muoversi, da un automa o da un cane?”. Heine conclude afferrando l’essenza del personaggio: “Era forse un uomo uscito dalla tomba, un vampiro col violino che, sebbene non potesse succhiarci il sangue dai cuori, succhiava ad ogni evento i soldi dal nostro portafogli?”.
Un’immagine verosimile, anzi vera in quanto ulteriore tassello del mito, la troviamo nella scena d’apertura del film su Paganini, di Klaus Kinski, che si apre con l’entrata in scena del virtuoso e maudit genovese sul palco. Kinski impressiona per la somiglianza, stando ai ritratti e alle descrizioni di Paganini che ci sono pervenuti. Per amore del lettore non ci sentiamo di consigliare la visione dell’intero film, nel quale Kinski non fa altro che accoppiarsi con svariate donne, tra cui la polposa moglie Deborah Caprioglio, con sottofondo di violino a cura di Salvatore Accardo. Ma vista la prima scena viene spontaneo dire: “è Paganini”.
I concerti in tutt’Europa portarono alla nascita delle leggende su Paganini. Si cominciò a parlare e a scrivere sul serio delle sue relazioni con Satana. A Vienna, come racconta Paganini stesso in una sua lettera, mentre suonava le variazioni a Le Streghe, un signore affermava di non trovar nulla di meraviglioso nell’arte di lui, perché aveva visto che mentre Paganini suonava, il Diavolo gli stava accanto e gli guidava la mano. Un attendibile giornale di Lipsia scriveva: “ognuno indovinerà che Paganini e Satana stanno nella più intima relazione”. Una leggenda, riferita tra gli altri da Stendhal nella Vie de Rossini, voleva che avesse imparato a suonare i violino in carcere, durante la lunga detenzione per omicidio di una donna che gli era stata infedele.
In effetti qualche guaio giudiziario Paganini l’aveva avuto, dovuto alla sua unica grande passione oltre al violino. Le donne. Amorale, cinico, baro, avaro (ma legatissimo agli amici e alla famiglia, affettuosissimo verso il figlio Achille, capace di gesti di generosità grandiosi, come quando regalò a uno squattrinato Hector Berlioz ventimila franchi dopo aver ascoltato il suo Aroldo in Italia, che pure in una prima fase aveva rifiutato di suonare perché non abbastanza virtuosistico) Paganini si trovava regolarmente invischiato in guai di donne. Nel 1814 aveva conosciuto Angelina Cavanna, una ventenne che il padre, sarto, aveva avviato giovanissima alla prostituzione. Aveva convissuto con lei more uxorio. Ne era seguita una denuncia per “ratto e seduzione di minore”. Padre e figlia si erano messi d’accordo per spillargli dei soldi, e ci riuscirono. La vicenda costò a Paganini molto denaro e sette giorni “nel carcere in torre”.
A Lucca, intorno al 1805, ebbe una relazione con Elisa Baciocchi, sorella di Napoleone, donna di carattere spigoloso, capace di tormentarlo in ogni modo. Subito prima c’era stata una relazione con Eleonora Quilici, di cui si ricorderà molti anni dopo nel testamento. Nel 1834 a Londra aveva pronto un piano di fuga con Charlotte Watson, figlia del suo accompagnatore al pianoforte, ma il padre scoprì il disegno, ne venne fuori uno vespaio di polemiche, quasi sicuramente si trattò della fine della carriera amorosa di Paganini. Insomma il Paganini duro e cinico mette in mostra nelle faccende amorose una totale sprovvedutezza, che lo porta a far di tutto per conquistare donne che pochi mesi dopo fa di tutto per lasciare.
Nel 1839 Paganini, che ha perso una somma consistente nel fallimento di un casinò nel quale avrebbe dovuto esibirsi se le condizioni di salute glielo avessero permesso, rientrò in Italia dalla Francia. Dopo un breve soggiorno a Genova si trasferì a Nizza, dove le sue condizioni di salute peggiorarono. Era afflitto da completa afonia dovuta a «tisi laringea di origine sifilitica». Comunicava con il figlio tramite biglietti e appunti.
Morì il 27 maggio 1840. Dichiarato empio dal Vescovo di Nizza Monsignor Galvani, in base alla testimonianza del Canonico che era andato da Paganini per confessarlo ma che aveva mal interpretato i gesti del musicista ormai del tutto senza voce, Paganini non ebbe né funerali né sepoltura in terra consacrata. Subito dopo il decesso venne imbalsamato in attesa di una sistemazione, rimase due mesi nella casa di Nizza finché le autorità non ne ordinarono la rimozione. Gli amici, in primis l’avvocato Germi, che aveva conosciuto all’epoca dei guai giudiziari con la Cavanna, cercano di ottenere la riforma del decreto di empietà, senza alcun risultato. Dopo vari traslochi, la salma sostò per qualche tempo nella villa di Romairone, a San Biagio, in Liguria. Solo nel 1876, Paganini ebbe sepoltura, nel cimitero di Parma.
Di Paganini resta la leggenda perpetuamente incancellabile. Certo non fu un Satana, forse fu un Berlicche, forse fu un italianissimo mago e un trickster. Sopravvive nelle dita di qualunque strumentista di qualunque epoca in grado di posare le mani sulla tastiera e far sentire qualcosa che vada oltre la fisica dello strumento. Qualcosa come un volo di streghe.