Nel febbraio del 1945, a guerra mondiale non ancora terminata, la Crimea si guadagnò una pagina d’imperituro riguardo nella storia del mondo per aver ospitato i leader delle tre potenze alleate contro la follia nazifascista che generò la seconda guerra mondiale. Il luogo dello storico meeting che avrebbe deciso i nuovi equilibri del globo a guerra finita e vinta, fu il Palazzo di Livadija, la resistenza estiva dello Zar Nicola II al tempo della Russia imperiale, a qualche chilometro da Yalta.
I protagonisti: Roosevelt, presidente degli Stati Uniti, Stalin, capo dell’Unione Sovietica, il nuovo nome assunto dal vecchio impero nelle nuove spoglie comuniste e Churchill, premier inglese. La conferenza sancì il nuovo ordine mondiale mentre bombe e cannoni ancora andavano vomitando il loro carico di morte, con il ridisegno delle regole di coesistenza delle superpotenze di allora, spaccando il mondo tra le democrazie liberali gravitanti nell’orbita americana e il mondo comunista, consegnato al protettorato di Mosca. Un globo bipolare che ebbe a simbolo anche una città europea, Berlino, divisa da una cortina di ferro che avrebbe emblematicamente marcato nella vecchia capitale tedesca le sfere d’influenza americana e sovietica.
Il bipolarismo USA-URSS
A rileggerla oggi la conferenza in quella città della Crimea amata dallo zar, si presentò come generatrice delle Nazioni Unite e del diritto umanitario che ha retto i decenni successivi, consegnando alle nuove generazioni la “normalità” della pace, anche se a procurarla era la paura della guerra atomica. Andò così fino al 1989, quando crollò il muro di Berlino e in quel vapore di vecchi calcinacci si squagliò anche il comunismo cambiando, dopo 44 anni di guerra fredda, il verso della Storia. Il bipolarismo USA-URSS nato a Yalta e chiamato a reggere l’ordine mondiale, era finito per abbandono del campo del polo comunista. Nasceva l’incerta stagione dell’egemonia americana in un contesto globale in cui emergevano con nuovi profili entità statali un tempo subalterne per ragioni economiche, di fragilità delle istituzioni o per altre minorità. Si chiamavano Cina ed India, e avrebbero potuto chiamarsi anche Europa.
Il mondo cambiò la sua faccia e i suoi protagonisti, facendo sempre più piccolo il vecchio continente e sempre più grandi le sue ex colonie, ma nessun nuovo statuto dell’ordine globale sanzionava lo stato delle cose. Restavamo fermi a Yalta, anche se non c’era più l’Unione sovietica e la Russia veniva retrocessa a potenza regionale, mentre la Cina si affacciava da protagonista assoluto sulla scena globale e in America cresceva l’affanno, seguito da una forte pressione elettorale, del sentirsi gendarme del mondo e vestale del patto atlantico, facendo registrare un cambio di postura con vistosi segnali di dismissione degli impegni in armi qua e là nelle tante contrade del globo.

Arriviamo ai giorni nostri e alla stagione delle guerre sull’uscio di casa Europa. C’è un poco di storia del vecchio Continente degli imperi Ottomano e Zarista in qualche reazione inconsulta di alcuni autocrati della contemporaneità. Si pensi al turco Erdogan e al suo orgoglio “ottomano” di un passato remoto non riproducibile. Si pensi a Putin e alla sua p ersonale storia di funzionario statale nel tempo in cui l’URSS era la potenza che si spartiva il mondo con l’America. In fondo l’analisi psicologica aiuterebbe a capire la geopolitica impazzita del tempo odierno.
Il tramonto dell’ONU
La verità è che si invoca dopo ottant’anni una nuova Yalta immagina come se da qualche parte esista un forum capace di disegnare il nuovo ordine globale che includa i nuovi attori affacciatisi sulla scena mondiale, ma per il momento assistiamo soltanto alla solidificazione del caos liquido che questo tempo incertissimo ci sta consegnando. L’asciugamento delle democrazie liberali a vantaggio dei populismi e delle autocrazie che ormai contagiano endemicamente come un covid letale continenti e stati sovrani, il declino della cultura di pace plasticamente rappresentato dal tramonto dell’ONU e delle sue articolazioni, l’avvento delle semplificazioni e dei paralogismi seducenti offerto dal digitale a vantaggio esclusivo dei padroni del web, rappresentano il contesto che ci consegna all’età precaria che stiamo vivendo. Non c’è dietro l’angolo una tregua per il nuovo ordine allestito a vantaggio della pace kantiana e del progresso dei popoli, ma conflitto perpetuo, leadership inadeguate e accordicchi precari senza visione. Soprattutto tramonta l’attore europeo. E non è una buona notizia.
Pino Pisicchio – Professore di Diritto pubblico comparato. Già deputato in numerose legislature. Presidente di Commissioni parlamentari. Capogruppo. Sottosegretario. Saggista