Ogni minimo commento che segue ad un fatto di cronaca efferato, inenarrabile, diciamo pure bestiale, risuona nell’etere sempre con le stesse parole, ma con intonazioni, pronunce e altezze vocali differenti: era tanto un bravo ragazzo, oppure, era un ragazzo normale, o un uomo gentile, sorridente, di buona famiglia.
Sarà stato un raptus.
Eh, no, non può essere. Dovremmo chiedere un’indagine sociologica molto dettagliata sulla nuova generazione dei “bravi ragazzi normali, tutti casa e lavoro o scuola” e sugli uomini, irreprensibili padri di famiglia e devoti ai riti religiosi.
C’è qualcosa che non torna nella definizione così scontata nei confronti di giovani e uomini, qualche volta anche donne, che si macchiano di gesti atroci, sempre più complessi e sempre meno apparentemente legati al loro normale stile di vita.
C’è una spaventosa scissione tra ciò che si mostra e ciò che si è.
È come se la soglia tra il dentro e il fuori, fisico e mentale, fosse l’apertura o la chiusura sull’abisso. Le convenzioni sociali rispettate e la liberazione degli istinti bestiali nell’intimità, nelle proprie mura domestiche.
E allora si rimpiangono i “cattivi ragazzi”; quelli rudi, maleducati, strafottenti, ma veri. Impegnati a de-strutturare con la forte volontà di non mascherarsi.
Perché era bello, era intellettuale, era libertà di essere contro.
Contro le uniformità, contro il politically correct, contro il “bravo ragazzo o uomo di buona famiglia”.
Per quegli uomini là si poteva scegliere all’istante se farsi coinvolgere o no. O dentro o fuori. Da quei ragazzi là ci si poteva difendere. Sporchi, brutti e cattivi. Magari solo fuori.
Oggi sempre più puliti fuori, garbati, firmati, educati, sorridenti, sempre più inceneriti dentro.
Non ne possiamo più di questa “brava gente” con il fango sul cuore.
Ridateci i nostri vecchi cattivi ragazzi.
È quasi una preghiera!
Rita Rucco – Docente, direttrice di Collana editoriale