Nel luglio del 1954 al comune di San Pellegrino Terme si tenne la rassegna Incontri letterari e durò tre giorni, dal 16 al 19. Vi era presente il gotha della letteratura italiana del tempo: da Montale a Cecchi, da Ungaretti alla Bellonci, per citarne solo alcuni; alcuni, s’intende, dei big, degli scrittori e dei poeti affermati. Già, perché la kermesse prevedeva che ciascuno dei big avrebbe presentato una giovane “promessa”, tra queste Calvino, Zanzotto, Bassani, Parisi. Ma tra i letterati in erba vi era pure uno che proprio giovane non era e che si trovava al raduno di mondanità pennaiola per una di quelle mere casualità che qualche volta si verificano nei fatti della vita. Costui era Lucio Piccolo di Calanovella, un maturo signorotto ultracinquantenne della più eccentrica e originale aristocrazia siciliana. Che ci faceva Lucio Piccolo di Calanovella a San Pellegrino Terme, e chi l’aveva invitato?
La felix culpa dell’affrancatura sbagliata
Per rispondere occorre andare indietro di qualche mese. Lucio Piccolo aveva pubblicato in una tipografia di Sant’Agata di Militello un libriccino di poesie, 9 liriche, con una tiratura di appena sessanta copie. Ad aprile, una di quelle copie decise di spedirla a Montale, ma nell’inviarla sbagliò, per difetto, l’affrancatura. Il futuro premio Nobel, quando si vide arrivare il plico, taccagno qual era ci pensò due volte prima di aprirlo, maledicendo il mittente per la spesa sostenuta in mancanza dei debiti francobolli. Ma probabilmente fu proprio quell’“incidente” che spinse il poeta – che, si può immaginare, di posta ne riceveva tantissima e la maggior parte non gradita: suppliche di recensioni o di giudizi su poesiole non degne del suo sguardo – a leggere i versi.

Un poeta originalissimo
E leggendoli rimase estasiato: non capita tutti i giorni di scoprire un poeta autentico, originalissimo, nutrito dalla migliore tradizione europea simbolista e dalle visioni oniriche che rimandavano a Dino Campana. Il poeta di Ossi di seppia fu tanto colpito da quell’autore, che immaginava giovane, da invitarlo al convegno di San Pellegrino Terme. Fu così che Lucio Piccolo, insieme al cugino Giuseppe Tomasi di Lampedusa e a un fidato servitore, si recò in treno a San Pellegrino Terme. “Piccolo risultò la vera rivelazione del convegno. – scriverà poi Bassani – Più che cinquantenne, distratto e timidissimo come un ragazzo, sorprese e incantò tutti, anziani e giovani, la sua gentilezza, il suo tratto da gran signore, la sua mancanza assoluta di istrionismo, persino l’eleganza un po’démodé dei suoi siciliani abiti scuri”. Non stupisce perciò che gli fu assegnato il primo premio previsto dalla rassegna (500 lire).
Un un trio di marziani
A parte ciò che scrisse Bassani, quel trio inseparabile – il minuto e curiosissimo Piccolo con l’acconciatura dei capelli a frangetta, il corpulento e austero cugino col ghigno ironico disegnato sulle labbra, l’abbronzatissimo e gigantesco accompagnatore che “non perdeva d’occhio gli altri due un momento solo” – di certo destò stupore e incredulità in un salotto letterario non privo di frivolezze mondane, così lontano dal loro universo. Non si può escludere, e anzi c’è da scommettere, che quell’insolito trio dovette apparire a tanti un trio di marziani, anche per il look tenebroso poco adatto al contesto. Né mancarono le interviste. E, secondo quanto racconta Andrea Vitello, il biografo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, il cugino si sostituì al poeta nel fornire “risposte incredibili” a “domande ingenue”: “Ma lei è un poeta?” “No” – “Che mestiere fa?” “Il principe” – “Ma per vivere, dico, cosa fa?” “Il principe”.

Montale: i siciliani sono gran signori o poliziotti
Al ritorno in Sicilia, naturalmente col treno, Tomasi di Lampedusa, che aveva colto nei letterati “continentali” un certo, seppure soft, spirito di sfottò, si rivalse attribuendo a Montale e Cecchi “l’aria di marescialli di Francia” e, successivamente, ricordando l’accoglienza di Montale, in verità benevola, ironizzò sulle parole del poeta: “I siciliani sono o gran signori o poliziotti” scherzando sulla mancata specificazione della categoria (“gran signori o poliziotti”?) nella quale li includeva. Due anni dopo le 9 liriche, aggiunte altre dieci poesie, vennero pubblicate nella prestigiosa collana Poeti dello Specchio di Mondadori con il titolo Canti barocchi e altre liriche. La prefazione fu firmata da sua maestà Eugenio Montale. Ma scatenò l’ira di don Ciccino Zucarello, titolare della tipografia Progresso di Sant’Agata di Militello. Nella prefazione, infatti, Montale ricordava di avere ricevuto la silloge 9 liriche stampata con “caratteri frusti e poco leggibili”. Apriti cielo: Zuccarello, ferito nel suo orgoglio professionale, divenne una furia: “Io lo denuncio questo Pontale (sic, N.d.R), lo denuncio!”.
“Laureato” poeta, Piccolo ritornò nel suo regno isolato e fiabesco della villa ottocentesca di Capo d’Orlando dividendo la sua vita (morta la madre Teresa Tasca Filangeri di Cutò) con il fratello Casimiro e la sorella Agata Giovanna. Scrive Gonzalo Alvarez Garcia: “Il palazzo di Capo d’Orlando più che una casa sembrava una favola campata in aria. Onde marine, nubi, folate di vento, gabbiani, corvi, gatti neri, spiriti, anime di crociati, anime in pena e santi vagabondi stanchi di paradiso dividevano con il nostro poeta quella solitudine dorata”. La villa dei Piccolo di Calanovella si adagiava sulle colline di Capo d’Orlando con ai poli opposti Cefalù e Tindari e una vista mozzafiato. Vi stabilì la dimora della famiglia, portandovi i suoi tre figli, donna Teresa Tasca Filangieri di Cutò, agli inizi degli anni ’30, quando, morto il marito, decise di abbandonare Palermo, la sua vita mondana, le villeggiature a Santa Margherita del Belìce.

Un padre non esemplare
Marito e padre di famiglia non esemplare, Giuseppe Piccolo di Calanovella, sperperò gran parte dei suoi averi nel gioco e non resistette al fascino delle sottane. Ultima sua conquista fu una ballerina di Sanremo, città in cui si trasferì, abbandonata la moglie, e dove si spense. Donne toste, di carattere, le sorelle Tasca Filangeri di Cutò, originarie di Santa Margherita e di antica nobiltà, ma dalle esistenze sfortunate. Una aveva sposato il padre dell’autore de Il gattopardo, un’altra morì vittima del terremoto di Messina, un’altra ancora si tolse la vita, e poi ve ne fu una quarta, Giulia, sposata Trigona Sant’Elia, assai nota ai cronisti del tempo per la sua love story con Vincenzo Paternò del Cugno, conclusasi nel modo più tragico (l’amante l’uccise in un alberghetto romano). Quando si rifugiarono a Capo d’Orlando, la più grande dei fratelli Piccolo, Agata Giovanna, aveva quarant’anni, Casimiro trentotto e Lucio, ultimogenito, trentuno. Ciascuno di loro viveva in un mondo proprio sotto la sorveglianza rigida della madre Agata Giovanna che, infatuata di botanica, faceva splendere il giardino in cui spiccavano le più affascinanti e a volte rare varietà di piante e di fiori (fu lei a far arrivare dal Brasile la puja berteroniana, ancor oggi unica a villa Piccolo in tutta Europa); Casimiro era ossessionato dalle sedute spiritiche e dal contatto con i trapassati: amava la fotografia e la pittura, discipline legate ai suoi interessi extrasensoriali; Lucio si appassionò alla letteratura e sin da quando viveva a Palermo in via Libertà mostrò particolare interesse per gli studi umanistici. Per la verità, però, il suo primo diletto non fu la letteratura, ma la musica: suonava il pianoforte divinamente, prediligeva Wagner e pare abbia composto, lasciandola incompiuta, un’opera musicale. Anche lui, come il fratello maggiore, credeva negli spiriti e ciò affiora anche nella sua poesia, oltre che in un’intervista rilasciata a Vanni Roncisvalle per la Rai nel 1967: “Quando viene l’oscurità, e la casa si interiorizza, diventa ombra, spazio in cui andiamo errando e ritrovando le figure care, persone care che ci sono state vicine”.
La passione/ossessione per cani e gatti, e i loro fantasmi
Come i fratelli, Lucio adorava i cani e i gatti che riteneva fossero reincarnazione di altri esseri viventi. I cani e i gatti, secondo Lucio, nello sforzo di materializzarsi erano colpiti da una grande sete, e per soddisfarla lui deponeva sotto i mobili di casa tante ciotole piene d’acqua. Ancor oggi, recandosi a Capo d’Orlando, rimane una visita obbligata il cimitero dei cani e dei gatti: a ciascuno di essi era riservata una lapide con i nomi tuttora leggibili, alcuni di richiamo orientale, come Alì, Mustafà, Emir, Pasià, Muhammed, altri occidentali, come Puck (che Lucio amava portare sulle ginocchia), Tock, Crabb. C’è chi racconta che i cani fossero perlopiù delle bestie enormi nate da incroci tra razze ben selezionate e che scorazzassero per i prati sgozzando pecore, tanto da ritornare a casa col muso rosso di sangue. Nel citato servizio televisivo di Vanni Roncisvalle, Casimiro raccontò di avere rivisto per tre volte un cane già morto da nove anni; il particolare fu confermato dallo stesso Casimiro a Camilla Cederna, frequente visitatrice di villa Piccolo: il cane si chiamava Alì e – parole del fratello di mezzo dei Piccolo – “forse desiderava essere fotografato anche lui dal suo padrone”.
Giuseppe e Lucio
Lucio Piccolo, sin da ragazzo, ebbe un rapporto particolare col cugino Giuseppe Tomasi, più grande di lui di quasi cinque anni. A Palermo frequentarono gli stessi ambienti (il circolo Bellini, tra gli altri, luogo di ritrovo per antonomasia dell’aristocrazia del capoluogo) e passarono i periodi di villeggiatura a Santa Margherita del Belìce. La relazione tra i due si fece più intensa quando in Lucio la passione letteraria (comunque sempre presente) prevalse su quella musicale. Tra i due, lettori onnivori e sempre alla ricerca di nuovi autori europei, vi fu un continuo confronto e scambio. Al riguardo, ecco come si esprimeva Lucio Piccolo: “Di Proust ricordo che [Giuseppe Tomasi, N.d.R.] una volta mi disse: ‘Sai, c’è uno scrittore francese il quale per fare due passi da lì a qui ci impiega dieci pagine’”. Avidi lettori sempre alla ricerca di scoperte letterarie d’oltralpe (non certo per snobismo, ma perché la realtà nostrana gli si rivelava stretta), nessuno dei due però scriveva, s’intende sul serio, ché tra di loro non mancavano i carteggi scherzosi in cui ironizzavano sui vezzi provinciali della nobiltà siciliana. Sino a quando, superati i cinquant’anni, Lucio scrisse le 9 liriche, e le scrisse – particolare non irrilevante – quando la madre non era più in vita. È ragionevole supporre, pensando alla timidezza di Lucio, che la presenza di una madre ferma e di forte personalità come Teresa Tasca Filangieri di Cutò abbia inibito il poeta, gli abbia un po’, almeno un po’, tarpato le ali. Né ciò accadde solo per Lucio, ma anche per gli altri fratelli. D’altra parte la moglie di Giuseppe Tomasi, Alexandra Wolff Stomersee, pioniera della psicanalisi freudiana in Italia, avrebbe voluto analizzare tutti e tre i fratelli, e manco a dirlo costoro, recalcitranti come erano a cambiare stile di vita, opposero il loro ostinato rifiuto.
Ci fu invidia tra i cugini?
Tornando al viaggio a San Pellegrino Terme, non a caso Lucio volle con sé il cugino Giuseppe, sebbene avesse anche interpellato Bebbuzzo Lo Monaco – più incline a viaggiare –, estroso aristocratico anche lui scapolo impenitente, critico musicale del Giornale di Sicilia. Con chi, se non col cugino Giuseppe, Lucio avrebbe potuto conversare, discettare di letteratura e scherzare sotto lo sguardo protettivo del loro scudiero? Fu in quel convegno che Lucio Piccolo fu battezzato poeta, ma fu anche l’occasione per entrambi di conoscere da vicino il mondo letterario italiano. Non solo, ma quell’assaggio degli ambienti letterari e soprattutto la pubblicazione della silloge poetica con Mondadori spronarono Giuseppe a scrivere Il Gattopardo, nato all’inizio come un “ciclo di novelle”. Vi era, quindi, tra i due cugini emulazione mista a complicità. Quando furono pronte le prime novelle, fu Lucio a scrivere la lettera di presentazione del cugino che accompagnava il manoscritto, spedito poi a un funzionario di Mondadori. In quell’occasione Lucio peròcommise un grave errore che probabilmente provocò la fredda risposta del destinatario. Il funzionario di Mondadori, tale Federico Federici, punto di riferimento dell’editore, vantava il titolo nobiliare di conte e ci teneva tanto a esibirlo: la missiva si apriva invece con un “Gentilissimo Dottor Federici”. D’altronde, quando Lucio aveva inviato la breve raccolta di poesie a Montale, la lettera di presentazione l’aveva scritta il cugino. E curiosità su curiosità, vi si leggeva: “[…] era mia intenzione rievocare e fissare un mondo singolare siciliano, anzi più precisamente palermitano, che si trova adesso sulla soglia della propria scomparsa senza avere avuto la ventura di essere fermato da un’espressione d’arte”. Incredibile: quella presentazione, più che delle 9 liriche, sembrava la presentazione del futuro Gattopardo, romanzo che il cugino Giuseppe Tomasi evidentemente andava già elaborando dentro di sé.
Era tale poi la frequentazione tra i due che gran parte dei capitoli de Il Gattopardo furono scritti nella casa di Capo d’Orlando e se don Fabrizio assurse a principe di Salina fu perché nella sontuosa villa si contemplava, nitida e invitante, la ridente isola delle Eolie. Se ciò non bastasse a confermare l’intimo legame dei cugini, il celebre manoscritto rimase, dopo il gran rifiuto, per mesi nella casa dei Piccolo. Vi fu invidia tra i due cugini? Invidia no, è una parola troppo impegnativa, né si ritiene che uno spirito sognatore come quello di Lucio Piccolo, e nemmeno quello più smaliziato e meno lunare di Giuseppe Tomasi, sapessero covarla. E però quando, morto il principe Giuseppe, Il Gattopardo divenne un caso editoriale, Lucio rimase sbalordito dei congrui proventi del romanzo e non potette non raffrontarli con quelli miseri dei suoi Canti barocchi, inveendo contro Mondadori che non promuoveva a dovere la sua raccolta (da che mondo è mondo carmina non dant panem).
Un poeta nella sua torre d’avorio
Per quanto talentuoso e con un mentore d’eccezione come Montale, il poeta Lucio Piccolo non ebbe il successo che meritava. Dopo i Canti barocchi pubblicò un altro paio di sillogi, ma non riuscì a fare breccia nel difficile e bizzarro mondo letterario. La sua poesia era lontana anni luce dal neorealismo allora in auge e nemmeno lontanamente poteva farsi rientrare nelle avanguardie sperimentaliste che si andavano affermando. Inoltre, vivere isolato in una terra magica ma periferica (anche rispetto all’industria editoriale) come la Sicilia, senza peraltro mai abbandonarla, di certo non lo aiutava. Vero è che il personaggio stuzzicava e che tanti letterati e giornalisti giungevano in Sicilia per immergersi nell’atmosfera da favola che aleggiava a Capo d’Orlando, ma è pure vero che Lucio Piccolo poco s’adoperava per accattivarsene la simpatia. In certi comportamenti bislacchi Lucio somigliava alla madre che, si racconta, una volta invitò nella sua villa un noto regista e autore siciliano, lo fece prelevare a Catania con una lussuosa autovettura, ma poi, osservandolo da lontano, lo fece aspettare per un po’ e ordinò a un suo collaboratore di comunicargli che, essendo indisposta, la visita andava rinviata. Una scena assai simile si replicò con protagonista Lucio Piccolo. Questa volta si trattava di un docente universitario e di una psicologa israeliani giunti appositamente a Capo d’Orlando per conoscere il poeta: anche per loro l’attesa nella villa fu lunga e vana, il poeta non volle incontrarli. Eppure Piccolo sentiva il bisogno di comunicare, s’intende solo con chi – e non erano molti – riteneva degno della sua compagnia. Tra questi Vincenzo Consolo, che andava a trovarlo con una certa assiduità. Consolo, attratto dalla sua personalità e dal suo “pianeta” immaginifico, lo ascoltava rapito: tra loro non c’era un vero e proprio dialogo, ma il monologo di un poeta avvezzo ai soliloqui. Quando Consolo si trasferì a Milano e le sue visite giocoforza si diradarono, ogni volta che lo scrittore di Sant’Agata Militello si presentava, Piccolo chiedeva notizie sui più noti letterati, come se quel mondo diffidente e autoreferenziale gli appartenesse o gli fosse appartenuto. In realtà ne rimase sempre estraneo, chiuso com’era, e come sempre era stato, in una turris eburnea quasi del tutto priva di vie di fuga.
Anni di silenzio, poi la riscoperta
Man mano che il tempo scorreva, infatti, i suoi pochi contatti con letterati sfumavano. Il critico Giuseppe Ravagnati, che un tempo aveva lodato la sua poesia, di tanto in tanto gli scriveva, ma con un fine preciso: estorcergli qualche raro francobollo che immaginava potesse trovarsi nelle affrancature delle vecchie lettere di famiglia. Ai critici che si erano dimenticati della sua poesia, Piccolo dedicava brevi componimenti pungenti. Così a Nelo Risi: “Quando lessi Nelo / risi”; come a Carlo Bo: “Carlo Bo dice bi / Carlo Bo dice ba / Cosa vuol dire nessuno lo sa”. Nel maggio del ’69, fulminato da un infarto, si spense. In ottobre avrebbe compiuto sessantotto anni. Un anno dopo i fratelli Casimiro e Agata Giovanna costituirono la Fondazione Piccolo.
Per tanti anni su Lucio Piccolo calò il silenzio, come se quel poeta definito da Ezra Pound “magnificent” valesse poco più di nulla. Capricci della letteratura. Sino a quando, scrutando tra le sue carte, non furono ritrovati alcuni scritti. Uno particolarmente interessante: un manoscritto incompiuto intitolato L’esequie della luna già pubblicato, vivente l’autore, su Nuovi Argomenti, ma passato inosservato. Il racconto, d’ispirazione leopardiana, ha per protagonista un viceré che nella notte sogna la luna cadere dal cielo. L’indomani la luna cade davvero in una contrada chiamata “Lunaria”, tra lo sgomento dei contadini. Gli astronomi cercano di spiegare il fenomeno e di ricomporre la luna ma, per il viceré che considera la luna il potere, la luna è caduta per sempre. Fa da sfondo, al racconto fantastico, una Palermo sfigurata e onirica popolata da personaggi fiabeschi. Consolo lo rielaborerà scrivendo il breve romanzo Lunaria.
A parte le sue poesie e i suoi scritti, Lucio Piccolo che cosa ha lasciato di sé? Stando a quanto racconta Stefano Malatesta ne Il cane che andava per mare, malgrado i fratelli Piccolo avessero giurato che mai e poi mai si sarebbero sposati, Lucio dovette sacrificarsi, pur non convolando a nozze, per lasciare un erede alla casata. Per dare esecuzione all’ordine familiare, fu scelta, dopo accurate ricerche, una giovane e avvenente contadinotta. E siccome Casimiro di femmine non ne voleva sentire, toccò a Lucio perpetuare la specie.
Antonino Cangemi – Scrittore