L’autonomia differenziata. Strumento per un secessionismo dei ricchi?

In ogni caso necessario agire con molta cautela in materia di salute, di istruzione, di trasporto non locale, di energia. Il rischio: un vero e proprio secessionismo più o meno camuffato da parte di Regioni-staterelli quasi indipendenti.

L’approssimarsi dei tempi della concretizzazione dell’autonomia differenziata sta registrando la palese soddisfazione da parte degli amministratori di alcune Regioni, in particolare del nord e del centro Italia, alimentata senza dubbio anche dall’accelerazione impressa con la bozza di legge sulla materia predisposta dalla Ministra Gelmini.

Una bozza giunta agli organi di informazione e oggetto di incontri fra alcuni presidenti di Regione senza che la stessa sia stata sottoposta preventivamente al dibattito parlamentare. Una modalità questa che, anche a detta di Pierluigi Bersani e Vasco Errani (entrambi già presidenti della Regione Emilia-Romagna), è inaccettabile, tenuto conto della concreta realizzazione delle fondamentali modifiche costituzionali che la stessa comporta.

L’art. 116, co. 3, della Costituzione prevede che il Parlamento, su richiesta della Regione, “approva a maggioranza assoluta” una legge che regola le “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”, circoscritte a determinate materie, da conferire alla regione stessa. La Costituzione, ovviamente, non delinea la procedura da seguire, riconoscendo al Parlamento l’ulteriore connessa potestà legislativa.

A seguito delle iniziative di Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia, è stata invece seguita una procedura singolare ed estranea all’ordinamento giuridico istituzionale italiano. Accordandosi, infatti, con le Regioni che avevano fatto richiesta di avvio della procedura dell’autonomia “differenziata”, il governo Gentiloni nel 2018 ha prodotto  uno strumento normativo inedito e decisamente antidemocratico: la “pre-intesa” fra governo e giunte regionali interessate, che elude la necessità di una preliminare analisi del Parlamento (costituzionalmente prevista) e costituisce una costruzione pattizia inemendabile dal Parlamento stesso, il quale dovrà limitarsi ad approvare o respingere il testo dell’intesa. Come corollario non insignificante di ciò, la mancata approvazione comporterebbe verosimilmente forte instabilità se non addirittura crisi di governo.

Da sottolineare alcune ingombranti specificità dell’intesa, quali la sua durata decennale, la rinegoziabilità soltanto alla fine dei dieci anni, l’assenza di previsioni di verifiche da parte dello stato centrale nel corso del decennio e di possibili interventi rettificativi da parte dello stesso, quando necessari.

Come se non bastasse, va detto chiaramente che la realtà brevemente tratteggiata sopra, non consegna caratteri di imparzialità sociale, per comprendere l’enorme portata dei quali occorre considerare la sostanza economica che riempie le intese in argomento e cioè le pretese e le richieste avanzate da alcune Regioni, fra le quali la Lombardia e il Veneto, che possono essere riassunte nella volontà di trattenere in Regione quote di gettito fiscale molto maggiori rispetto alle risorse attualmente a loro trasferite dallo Stato.

Il Veneto, anche attraverso un referendum poi ridimensionato dalla Corte costituzionale, intenderebbe trattenere almeno l’80% dei tributi riscossi sul proprio territorio, mentre la Lombardia insiste per incassare almeno la metà dei c.d. residui fiscali, rappresentati dalla differenza fra i tributi pagati sul territorio regionale e il totale delle spese pubbliche sostenute nello stesso territorio (per comprendere le entità di tali pretese, va precisato che la Lombardia si vedrebbe assegnati annualmente ulteriori 27 miliardi di euro).

Assecondando quindi le richieste di quelle Regioni si verrebbe a determinare, di conseguenza, un minore trasferimento di fondi alle aree meno ricche del paese e ciò sarebbe in netto contrasto con il ruolo di tutela dei diritti sociali dei cittadini delle aree meno avvantaggiate e di promozione dell’interesse generale, che il Governo ha il compito, costituzionalmente previsto, di svolgere con il fine di equiparare il trattamento fra le diverse aree del paese.

È quindi indispensabile, prima ancora di avventurarsi nell’anticipazione di inedite pre-intese, procedere alla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni di servizi (LEP), che, in forza dell’art. 117 della Costituzione, devono essere garantiti ai cittadini italiani su tutto il territorio nazionale, dei fabbisogni standard e dei principi fondamentali di attuazione del dettato costituzionale concernente ulteriori forme di autonomia regionale.

La ratio di queste maggiori pretese finanziarie da parte delle Regioni più ricche troverebbe fondamento nella necessità di dover fronteggiare i maggiori costi relativi alle ulteriori competenze nelle materie acquisite con nuove forme aggiuntive di autonomia.

Proprio in tema di nuove competenze è in ogni caso necessario agire con molta cautela in materia di salute, di istruzione, di trasporto non locale, di energia.

In particolare, per l’istruzione si correrebbe il rischio concreto di una “regionalizzazione” della scuola, con la frammentazione su scala regionale di funzioni basilari, quali l’assunzione del personale, il rapporto di lavoro, l’organizzazione del servizio, la definizione dei programmi, ecc. Bisognerebbe quindi escludere completamente questa materia dalla possibilità di devoluzione alle regioni. L’istruzione scolastica uguale su tutto il territorio nazionale è uno dei presupposti ineliminabili per la realizzazione del pari diritto di cittadinanza e deve essere, per questo motivo, conservata dallo Stato.

Come pure, andrebbe in qualche modo accentrata la competenza sulla materia della sanità, con l’obiettivo di tenere sotto controllo e risanare la situazione, ormai non più sostenibile, prodotta da carenze, improvvide privatizzazioni e degenerazioni di vario tipo riscontrate in quasi tutte le regioni, rilanciando quindi le varie tipologie di assistenza sanitaria e le misure di sostegno alla salute dei cittadini.

Le considerazioni e i ragionamenti che precedono consiglierebbero, quindi, di azzerare gli effetti delle pre-intese, tenuto anche conto che le stesse costituiscono uno strumento normativo inusuale e del tutto atipico rispetto al dettato costituzionale, che – è bene ribadirlo – assegna pienamente la funzione legislativa al Parlamento e non a summit Governo-Regioni, che riservano al Parlamento stesso un compito di mera ratifica e lo privano di fatto della possibilità di svolgere serenamente approfondimenti ed analisi.

L’attuazione di particolari forme di autonomia rafforzata delle Regioni da una parte non deve eludere la giusta solidarietà sociale fra i cittadini delle diverse aree e dall’altra non deve fornire l’occasione perché si realizzi un vero e proprio secessionismo più o meno camuffato da parte di regioni-staterelli quasi indipendenti, ai quali peraltro non è estraneo un concetto di solidarietà nazionale a senso unico, da declinare quando cioè gravissime emergenze, siano esse ambientali, sanitarie, o altre, colpiscono i loro territori.

Le nuove maggiori forme di autonomia regionale, devono quindi avere il senso della valorizzazione delle specificità e del miglioramento dell’autonomia a vari livelli (regionale, provinciale, comunale) dei territori, in un quadro però di armonica e rinsaldata solidarietà nazionale.

Per approfondire:

  • “Verso la secessione dei ricchi? Autonomie regionali e unità nazionale”; G. Viesti, Editori GLF Laterza (e book);
  • “Autonomia differenziata, così non va”; lettera di P. Bersani e V. Errani.

 

Rino  Giuri – Già funzionario della Banca d’Italia con funzioni ispettive

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