Il livello culturale dell’italiano medio si è impoverito

L’istruzione si è omologata verso il basso. Il rigore degli studi si è affievolito. Mortificare il nozionismo ha portato alla mortificazione della cultura. Ma oggi il nozionismo si è preso la rivincita, una becera rivincita: per esempio i concorsi, sparito il tema si fanno a quiz. Che avesse ragione Arbore: "la vita è tutta un quiz"?

Negli ultimi decenni il livello culturale dell’italiano medio si è sempre più impoverito.

Da un canto l’analfabetismo e il semianalfabetismo non allarma e non è più una piaga, come invece lo era nel dopoguerra, dall’altro nelle istituzioni politiche, nelle università, nella scuola, nella pubblica amministrazione, nei media diminuisce il sapere e il sapere stesso si svilisce.

Se guardiamo al passato, i nostri nonni possedevano, quando la possedevano, la licenza elementare, e però leggevano tutto ciò che riuscivano a leggere e, soprattutto, avevano un grande rispetto per il sapere. Il sapere gli era stato negato dalla necessità di lavorare presto che li aveva costretti ad abbandonare la scuola, e ciò li rammaricava e li portava ad ammirare e riverire chi ne era detentore.

Oggi tutto è cambiato: siamo meno ignoranti, ma il sapere fine a se stesso non conta, conta, quando conta, solo se legato a fini pratici (conseguire un titolo, superare un esame). Una volta, invece, il sapere, benché tanti consapevolmente ne fossero privi, costituiva un valore in sé. Il maestro delle elementari godeva di consolidata e condivisa stima e ancor più i professori delle scuole superiori e, in genere, tutti i laureati, specie se esercitavano una professione. Il docente universitario era considerato una mente depositaria del più elevato sapere.

Né dobbiamo andare all’epoca dei nostri nonni per ricordarci di quando ai rimproveri e ai cattivi voti di un insegnante seguiva una tirata di orecchie ai figli. È una novità dell’ultimo ventennio la reazione inversa: denuncia dell’insegnante al preside o addirittura all’autorità giudiziaria. Ancor oggi, nella maggior parte dei casi al Sud gli insegnanti continuano a essere chiamati professori – chissà per quanto – e non prof come invece sono stati battezzati da decenni nel Nord, espressione di per sé non dispregiativa ma rivelatrice di una sottintesa capitis deminutio.

Perché si è verificato il deprezzamento del sapere e di chi è la colpa? 

Proviamo a riflettere e tentiamo una risposta.

Il Sessantotto c’entra, fermo restando che non va demonizzato. È stata, quella animata dal movimento studentesco, una stagione di conquiste e di rivendicazioni in gran parte legittime, al netto dell’eccessiva ideologizzazione tipica di allora. E però le battaglie per il sei politico e contro il nozionismo hanno prodotto i loro risultati. Purtroppo perversi.

La scuola, dopo il Sessantotto, ha via via perso rigore e l’istruzione si è omologata verso il basso. Quanto al rigore, andava cancellato quello gratuito, non quello funzionale alla serietà degli studi. Riguardo al nozionismo, mortificarlo ha mortificato la cultura. Che va oltre il nozionismo ma che non ne può prescindere. Non si può comprendere un autore, si tratti di un poeta o di un filosofo, se non lo si colloca in una precisa cornice storica e un’epoca se non circoscritta nel tempo contraddistinto da dati numerici. Tanto più vale per un accadimento storico. Vero è che, secondo una felice definizione del pedagogista Luigi Volpicelli, “cultura è quel che rimane dopo avere dimenticato tutto ciò che si è studiato”. Ma rimane assai poco, e quel poco è confuso, se si è studiato astraendo dalle basi nozionistiche.

Oggi però il nozionismo si è preso una bella rivincita e quello più becero canta vittoria. Già, perché per diventare docenti di ruolo e per entrare nella pubblica amministrazione i nuovi concorsi, bandendo il tema – ritenuto obsoleto -, hanno introdotto i quiz. Povero defenestrato tema e povero italiano: “L’italiano non è l’italiano ma il ragionare” si legge nell’ultimo romanzo di Sciascia “Una storia semplice”.

I quiz, manco a dirlo considerati i tempi, sono a risposta multipla e non secca: quelli di “Rischiatutto” erano più seri. Le nuove modalità selettive ubbidirebbero a esigenze di semplificazione (fraintesa). Con l’informatica la correzione delle prove a quiz garantisce tempi brevi, mentre per i temi i tempi sarebbero lunghissimi. Ma se il fine è semplificare e accelerare l’espletamento dei concorsi, si potrebbe ottenere di più ricorrendo al sorteggio di poco cambiando l’aleatorietà degli esiti di quiz a risposta multipla.

Quanto sta accadendo per selezionare gli insegnanti e i funzionari della pubblica amministrazione è un ulteriore indice dello scadimento del sapere. Non si apprezza la capacità di ragionare irrobustita dall’elaborazione delle nozioni apprese, e cioè dalla cultura, per esercitare un mestiere utile alla collettività, ma un sapere sbriciolato in pillole: un finto sapere.

Chiaramente chi ha partecipato al Sessantotto non voleva questo né poteva prevedere che vi si potesse giungere. Senza considerare che le cause del declassamento del sapere sono anche altre e più importanti. Investono i radicali e irreversibili mutamenti culturali e antropologici verificatisi dagli anni del boom economico a oggi, la polverizzazione di valori radicati in quella civiltà rurale che, come aveva colto Pasolini, era la roccaforte del nostro Paese. Nel momento in cui si sono imposti modelli di vita edonisti e figli del consumismo (per continuare a citare Pasolini), il sapere non è stato più un valore né serviva più. Contava arrivare, non importa come.

Qui entrano in gioco i media e in primo luogo la televisione. Che, negli anni Cinquanta e Sessanta, non era ancora “cattiva maestra” ma che lo è diventata soprattutto con l’avvento delle emittenti commerciali. Queste hanno volgarizzato e banalizzato l’offerta televisiva andando incontro ai gusti più facili degli italiani e costringendo la concorrenza ad adeguarsi per non soccombere. I social hanno fatto il resto.

Gli effetti di tutto ciò si sono fatti sentire anche in politica: la qualità dei suoi attori è sempre più scaduta. Se prima per conquistare un posto di prestigio nei palazzi della politica si frequentavano le scuole di partito, oggi queste sono solo un ricordo. Da un eccesso di ideologia si è passati all’assenza delle idee o comunque a un loro significativo ridimensionamento che agevola il trasformismo di cui il nostro Paese non è mai stato esente.

È solo un caso che alcuni dei più affermati leader di partito da ragazzi abbiano partecipato a programmi di quiz televisivi, o sono questi i nuovi canali di selezione della classe dirigente? Forse aveva ragione Renzo Arbore: “La vita è tutto un quiz”.

 

Antonino Cangemi – Giornalista, scrittore

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