La lettera della preside del liceo scientifico “Leonardo da Vinci” Annalisa Savino – indirizzata urbi et orbi sui fatti del liceo classico “Michelangiolo” agli studenti delle scuole di ogni ordine e grado, ai loro genitori, alla misteriosa DSGA (che Iddio ci guardi dagli acronimi…) e all’altrettanto ignota ITA – ha fatto in quattro e quattr’otto il giro d’Italia. Come neppure riuscì ai loro bei tempi a campioni del ciclismo come Fausto Coppi e Gino Bartali.
E così la dirigente scolastica ha avuto il suo quarto d’ora di celebrità. Portata in processione come una madonna pellegrina, lodata dai sedicenti sinceri democratici, applaudita da molti suoi colleghi, un posto di consigliere comunale alle prossime elezioni – vedrete – le sarà offerto di sicuro su un piatto d’argento.
Ora, non saremo noi a fare stecca nel coro e a guastarle la festa. Di più: a costo di rovinarci, pensiamo che la sua lettera sia animata da buone intenzioni. Però, che diamine, est modus in rebus. Ed è per l’appunto il modus che lascia parecchio a desiderare. A cominciare dal lessico, a volte pleonastico e a volte involuto. Scrive: “davanti a una scuola superiore, come lo è la vostra”. Quel “lo” non è forse un di troppo? Poco sopra scrive: “una opinione, riflettuta e immaginata da sé”. Si spezza ma non si spiega, la Nostra. Un handicap per chi dovrebbe farsi capire dagli studenti senza costringerli a interpretare parole alquanto sibilline.
Ma è adesso che viene il bello, come disse Mussolini nel 1942 all’arrivo a Roma dell’ambasciatore giapponese Matzuoka, brutto come la fame. Se l’italiano della lettera è un po’ claudicante, che dire delle tante licenze storiche di chi ha come lei l’abilitazione all’insegnamento – udite, udite – di Storia e Filosofia? Incarcerare un uomo per le sue idee è tipico delle dittature di ogni colore. E provoca sdegno. Ma c’è di peggio. La presidente della Camera Nilde Iotti, ricevuta nel suo studio al “Giornale” da Indro Montanelli e stupita del fatto che un anticomunista come lui tenesse sulla scrivania una statuetta di Stalin, ebbe questa risposta: “Non ho mai conosciuto un uomo che ha ammazzato tanti comunisti come Stalin”. Fatto sta che Antonio Gramsci non è morto in carcere, come spensieratamente afferma la dirigente scolastica. Nell’ottobre del 1934 ottiene la libertà condizionata. E muore a Roma dopo due anni e mezzo, il 27 aprile 1937, alla clinica Quisisana. Né si può onestamente sostenere che i suoi compagni di partito abbiano fatto di tutto per attenuarne le responsabilità.
Avviata su un piano inclinato alquanto sdrucciolevole, la predetta dirigente scolastica scivola fino in fondo. Sostiene che il fascismo è nato ai bordi di un marciapiede: una tesi così originale che merita di essere segnalata a Paolo Mieli e Francesco Perfetti, allievi prediletti dello storico del fascismo Renzo De Felice. Se invece la preside insinua che la rissa al liceo “Michelangiolo” – avvenuta dopo che studenti del Collettivo di sinistra avevano inveito contro giovani di destra che distribuivano volantini invitandoli a brutto muso, in barba all’articolo 21 della Costituzione, a togliere il disturbo – prelude alla rinascita del fascismo, si tranquillizzi. Difatti il fascismo è morto e sepolto per indisposizione del dittatore. Al pari dell’antifascismo, per abbandono dell’avversario. Mentre il cadavere putrefatto del comunismo non potrà resuscitare perché condannato, oltre che dalla Storia, dai suoi stessi dirigenti. Achille Occhetto in testa.
Il finale della lettera è un fuoco d’artificio degno di Piedigrotta. La preside condanna le frontiere senza sapere che oggi delimitano, più che un territorio, un’identità nazionale. Per cui siamo europei in quanto italiani; e non apolidi, cittadini del mondo. Tutti ne sono consapevoli nell’orbe terracqueo. Tranne noi poveri infelici condannati in un Paese senza Patria. E poi la sullodata dirigente scolastica deplora “chi onora il sangue degli avi in contrapposizione ai diversi”. Ma che vuol dire? Auspica forse il ritorno degli austriaci, dei Borbone, del Papa re, del Granduca di Toscana e degli altri regnanti stranieri? Dicono nulla alle sue orecchie il Risorgimento, Trento e Trieste e le nostre sacre memorie?
È mai possibile che non si accorga degli spropositi scritti in libertà? A suo insindacabile giudizio, chi crede in questi valori sarebbe un “disgustoso rigurgito” che “va lasciato solo”. Un appestato, insomma. Un fascista senza se e senza ma. Non scherziamo.
Se la preside considera costoro un “disgustoso rigurgito”, merita senz’altro il titolo di cattiva maestra, visto che è stata a capo di una scuola elementare. Le parole sono pietre. Ed ecco che nella manifestazione “antifascista” fiorentina dopo i fatti del “Michelangiolo” si sono visti la patetica bandiera rossa con falce e martello e addirittura il vessillo dell’ex Jugoslavia. E degli emeriti mascalzoni intruppati nel corteo hanno inneggiato alle foibe e a Tito, il massacratore di italiani per la sola colpa di essere italiani. E nessuno degli astanti ha avuto nulla da ridire. Una vergogna.
Purtroppo né il sindaco Nardella né il presidente Mattarella hanno speso una parola per condannare una simile infamia. Mentre il ministro Giuseppe Valditara, additato come il pericolo pubblico numero uno dai tanti nostalgici del potere perduto, ha reso omaggio alle vittime del comunismo titino gettate nella foiba di Basovizza. Chapeau!
Chi si firma è perduto. Lo sosteneva Leo Longanesi per corbellare il detto “chi si ferma è perduto” caro al dittatore di Predappio. La lettera della preside ne è l’ennesima conferma.
Paolo Armaroli – Già Professore ordinario di Diritto pubblico Comparato. Docente di Diritto parlamentare. Già deputato