Burocratese, una lingua morta che fa tanti danni

Il "credo" dei burocrati: se puoi dirlo con cento parole usane duecento. La sintesi? È la loro nemica. Un siparietto tra un funzionario e il suo capo. Lo diceva già Gramsci: I burocrati scrivono per i loro superiori, non per i cittadini. La ‘’ sola virgola ben messa’’ di Leopardi. L’anatema di Ojetti verso il punto esclamativo. La ‘’svolta’’ con la Direttiva Frattini, ma poi sono rimasti tanti difetti.

I burocrati? Grafomani, inguaribili grafomani. Il loro credo: “Se puoi dirlo con cento parole, usane duecento”, “se ti bastano cinque pagine, riempine dieci”, “parafrasi e incidentali infilale dove vuoi: allungano il discorso e confondono l’avversario…”.

La sinteticità, che quasi sempre si coniuga alla chiarezza, è nemica della burocrazia. Per tante ragioni.

Il burocratese ha in sé una solennità notarile.

Quel che esce scritto da un apparato pubblico è intriso di ufficialità e perciò deve essere espresso con termini puntuali, tecnicamente ineccepibili, utilizzandosi locuzioni anche chilometriche, tali però da rendere in modo esatto, preciso, non suscettibile di interpretazioni non univoche la volontà dell’amministrazione.

Per le stesse ragioni il documento amministrativo deve essere il più completo possibile: nulla va omesso, dimenticato, anche il caso più scolastico e lontano dalla realtà concreta. In verità ciò corrisponde oggi più alla teoria che alla pratica seguita: sciatteria e  trasandatezza contaminano sempre più i testi amministrativi, sia per un generale decadimento della nostra lingua, sia per i modi d’accesso ai pubblici uffici che troppe volte prescindono dalla regola, voluta dalla Costituzione, della selezione concorsuale rimessa peraltro a inefficaci prove mnemoniche.

Ma se non si scrive più con la correttezza, seppure pedante, di una volta, il periodare rimane pesante, ridondante e lungo. È una regola di vita (infallibile): si perdono le buone abitudini, ma quelle cattive rimangono. Perciò non meravigliamoci se, passando vicino a un ministero, un palazzo della regione, un municipio (sono diventati di vetro, trasparenti… per cui tutto si può vedere e ascoltare), potrà capitare di sentire dialoghi del tipo:

  • Direttore, le consegno una relazione da inviare alla Corte di venti pagine.
  • Bravo, ma io ne avrei scritto trenta: quando impugnavo la penna non mi fermava nessuno.
  • Non si preoccupi Capo, domani scriverò altre undici pagine, e saranno trentuno.
  • Bravo, ma la pagina trentadue la scrivo io.

Un’altra delle ragioni della grafomania dei burocrati è legata a questo (surreale?) scambio di battute tra un funzionario e il suo direttore.

Lo aveva notato Gramsci: i burocrati scrivono per i loro superiori, non per i cittadini, veri destinatari delle loro comunicazioni. Ciò che a essi importa è dimostrare di essere bravi, e siccome continua a prevalere negli uffici pubblici la più sbagliata delle equazioni – scrivere bene uguale scrivere difficile -, le loro note e i loro decreti risultano prolissi e stucchevoli nella ricerca dei termini più difficili e meno comuni, infarciti di latinismi anacronistici e anglicismi oggi di moda.

Naturalmente il cittadino che legge, anche se acculturato, fa fatica, stenta a comprendere la comunicazione pervenutagli: ma di ciò al bravo funzionario poco interessa…

La tendenza alla grafomania, poi, è radicata nella cultura degli italiani. Ce la portiamo appresso dalle elementari, dove – ricordate? – il maestro ci lodava se il  tema superava un certo numero di pagine e il suo esito dipendeva anche dalla lunghezza del contenuto.

Così abbiamo un po’ tutti acquisito una certa inclinazione alla verbosità lessicale, ad assecondare il superfluo, da non eliminare perché serve da cornice, ornamento, fregio e regala abbondanza ai nostri elaborati. Così come abbiamo imparato “l’arte della premessa”, del “cappelletto” iniziale, del “preambolo” che allontana dal tema da trattare e dilata la comunicazione senza incidere sulla sua sostanza.

Tutte queste tendenze, anche latenti in ciascuno di noi, sono state irrobustite  e fortificate nella palestra, ben attrezzata, della burocrazia, e perciò il funzionario è un maestro nei preamboli  più arditi e barocchi, nei periodi stiracchiati da interminabili incidentali, nei ragionamenti cavillosi dove si intersecano tesi e antitesi spesso senza che si pervenga a una sintesi: ha imparato il tutto dai suoi superiori e vuole imitarli per raggiungere i loro gradi.

È un fiume di parole, il burocratese: il groviglio di aggettivi e avverbi stordisce, le parentesi aperte e poi non chiuse disorientano, l’aggrovigliarsi di argomentazioni contorte e retoriche fanno smarrire, l’abbondanza di maiuscole, litoti ed eufemismi svelano un’intrinseca ipocrisia che infastidisce e irrita, il formalismo sterile e ossessivo esprime vacuità e ritardi culturali.

Ci si deve munire di una buona dose di pazienza per leggere una lettera, un decreto, un provvedimento della pubblica amministrazione: occorre innanzitutto cogliere il nesso tra gli innumerevoli periodi aperti da “considerato che”, “atteso che”, “ritenuto che”, e, trovatolo, cercare il “determina”, quello cioè che quell’atto in sostanza vuole dire o disporre. Ammesso che il “determina” vi sia.

Sì, perché potrebbe pure mancare, e l’assenza non deve preoccupare: al contrario è un motivo di speranza. La pubblica amministrazione non “determina” perché da quel miscuglio di “considerato che”, “atteso che”, “ritenuto che” risulta – sebbene serva arguzia per intuirlo – che nulla le devi, non sei inadempiente, né moroso.

Perché la pubblica amministrazione non te lo dice chiaramente, perché quando sei in regola ti lascia col fiato sospeso costringendoti a lunghe letture da cui dedurre la tua irreprensibilità? E, al contrario, se sei in torto, perché la disposizione è puntuale e ammonitrice? Perché i burocrati sono dei sadici, potresti pensare, e il burocratese è intriso di cinismo.

Ma forse il motivo è da ricercare, piuttosto, in una concezione dell’apparato pubblico quale soggetto posto in posizione di supremazia rispetto al cittadino e che manifesta la sua superiorità con atti coercitivi e sanzionatori. Tesi questa oggi superata dai giuristi e da tante leggi ispirate a una tendenziale parità tra il soggetto pubblico e privato, e che tuttavia continua a resistere (le cattive piante hanno sempre solide radici) in molti palazzi della pubblica amministrazione.

La prosa della pubblica amministrazione, oltre a segnalarsi per la prolissità, il periodare oscuro, il formalismo ossequioso, risulta il più delle volte ripetitiva e monotona. Ciò si rivela anche nei segni di punteggiatura poco e male utilizzati.

Scriveva Leopardi al suo amico Pietro Giordani: “Io per me, sapendo che la chiarezza è il primo debito dello scrittore, non ho mai lodata l’avarizia de’ segni, e vedo che spesse volte una sola virgola ben messa, dà luce a tutt’un periodo”.

Già “una sola virgola ben messa”, i segni di interpunzione debitamente spesi, senza “avarizia”, concorrono a rendere chiara la comunicazione. Vi sono poi alcuni segni di interpunzione che il burocratese ignora: i due punti su tutti. Un segno che assolve, nel corso di una frase, una funzione importante: esplicita, chiarisce, riassume. Si capisce allora meglio perché contrasta col burocratese, che non è esplicito, chiaro e sintetico.

Al contrario, le parentesi, quelle che il Panzini raccomandava di usare con parsimonia, abbondano; e anche in questo caso se ne intuisce la ragione: ben si coniugano con l’argomentare ingordo e poco lineare, tutto curve e improvvisi cambi di traiettorie tipici del burocratese. Di scarsa fortuna gode pure il punto esclamativo, ma non per i motivi per i quali Ugo Ojetti vi si scagliava con una requisitoria divenuta nota per la veemenza e la brillante prosa: “Odio questo gran pennacchio su una testa tanto piccola, questa spada di Damocle sospesa su una pulce, questo gran spiedo per un passero, questo palo per impalare il buon senso, questo stuzzicadenti pel trastullo di bocche vuote, questo punteruolo da ciabattini, questa siringa da morfinomani, quest’asta della bestemmia, questo pugnaletto dell’enfasi, questa droga dell’iperbole, quest’alabarda della retorica”.

Se questo segno compare poco nei testi amministrativi non è per l’avversione all’enfasi e alla retorica, ma per il carattere impersonale che la pubblica amministrazione manifesta nei suoi scritti. Scritti in cui, intendiamoci, l’enfasi e la retorica sono di per sé presenti, senza che occorra evidenziarle col punto esclamativo. Si potrebbe perciò dire che in certi “pezzi” di burocratese i punti esclamativi siano sottintesi.

A dire il vero lo Stato ha avviato da anni la sua azione di contrasto al burocratese.

A partire dal 1993, quando il ministero della Funzione pubblica stilò il Codice di stile, un testo nel quale, per la prima volta, in modo sistematico e particolareggiato, venivano suggerite forme di comunicazione semplificate ed efficaci da sostituire a quelle correnti, ritenute, anche allora, anacronistiche.

Nella prefazione di quel testo dell’allora ministro della Funzione pubblica, Sabino Cassese, (governo Ciampi) si legge: “…i cittadini sono titolari di molti diritti, ma non di quello a vedersi chiamati in forme piane e comprensibili. Accade, così, che chi sia chiamato a contribuire, con il pagamento delle imposte, alle spese dello Stato, e sia richiesto di riempire moduli rompicapo, abbia l’impressione di pagare due tasse: una palese, e una occulta, costituita dalle ore trascorse nel riempire il modulo e dall’esercizio di pazienza impostagli”.

Quattro anni dopo, nel 1997, il ministero della Funzione pubblica ha redatto il Manuale di stile, testo non molto dissimile del precedente Codice di stile, richiamato nella prefazione, dove tra l’altro si evidenzia la sua finalità: l’essere cioè “uno strumento nuovo ed efficace che avvicina i cittadini alla pubblica amministrazione rendendola più comprensibile e per questo meno ostile”.

La lotta al burocratese continua anche nel nuovo millennio: questa volta, nel 2001, è la presidenza del Consiglio dei ministri a condurla. Sono presi di mira – questa volta – gli atti normativi che devono essere redatti secondo le regole, ispirate a semplicità e chiarezza, illustrate nella circolare 2 maggio 2001, n.1088.

Ma la svolta, nella battaglia contro il burocratese si ha un anno dopo, nel 2002, con l’emanazione della direttiva sulla semplificazione dei testi amministrativi, meglio conosciuta come direttiva Frattini, ministro della Funzione pubblica del tempo. Punto di svolta dicevamo: sì, perché a testi dalla natura quasi accademica, rivelata dalla loro impostazione, voluminosità e dai titoli stessi (Codice, Manuale), segue ora un vero e proprio documento amministrativo.

Un documento che, per sua natura, contiene prescrizioni, seppure flessibili. Un documento snello, immediato, concreto, del tutto privo di parti teoriche fini a se stesse e ricco solo di indicazioni sintetiche e puntuali. Interessante è poi un passo della premessa della direttiva in cui viene espresso un concetto assai innovativo e tale da aprire le porte a una nuova concezione dell’atto amministrativo. Gli atti amministrativi – vi si legge – “oltre ad avere un valore giuridico, hanno un valore di comunicazione”.

Ne consegue che gli stessi devono “essere sia legittimi ed efficaci dal punto di vista giuridico, sia comprensibili, cioè di fatto efficaci dal punto di vista comunicativo”. La chiarezza, quindi, assurge quasi a elemento costitutivo, essenziale dell’atto amministrativo, come la conformità alle leggi e la capacità di incidere su diritti, interessi e obblighi.

Una conquista per ora solo teorica, suscettibile però di produrre nel tempo sviluppi pratici, sino a ieri impensabili: si pensi, ad esempio, a un atto amministrativo invalidato perché ritenuto incomprensibile.

Dopo, però, il tentativo di contrastare il burocratese diventa sempre più flebile. Nel 2005 il ministro della Funzione pubblica Baccini emana anche lui una direttiva, che tuttavia poco o nulla aggiunge a quella – frutto di un’accorta e intelligente elaborazione – di Frattini.

Nel 2011 il risultato più interessante è la Guida alla redazione degli atti amministrativi nata dalla collaborazione tra l’Istituto di teoria e tecniche dell’informazione giuridica del Cnr e l’Accademia della Crusca. Negli ultimi anni solo sporadiche iniziative di enti locali, università e altri organismi.

L’interesse tra gli studiosi non è venuto meno (leggasi, ad esempio, il saggio di Michele A. Cortellazzo “Il linguaggio amministrativo”, Carocci 2021), ma negli apparati pubblici, a partire da quelli ministeriali, si avverte stanchezza e quasi rassegnazione.

Qualche segnale positivo? Il Consiglio di Stato, che è chiamato anche a pronunciarsi sulla chiarezza dei testi normativi, ha bocciato taluni schemi di regolamento perché non comprensibili; nell’Agenda per la Semplificazione 2020-2022 si prevede la stipula di una convenzione tra il ministero della Pubblica Amministrazione e l’accademia della Crusca (di cui però tuttora non si ha sentore).

Essere pessimisti è ragionevole, ma mai disperare.

 

Antonino Cangemi – Giornalista, scrittore

Pasqua, la ricorrenza tra parole e gesti

C’è un brano, tra i più significativi del Vangelo, in cui la "parola" del Signore si fa "gesto" carico di Read more

Il Censis fotografa il mondo della Comunicazione

"Mentre rimaniamo per lo più incerti nel soppesare i benefici e i pericoli connessi all’impatto dell’Intelligenza Artificiale sulle nostre vite Read more

Le 21 donne Costituenti, ricordo di Nilde Iotti e Teresa Mattei

La scalinata di una scuola. Sulle scale tante donne, solo donne, in attesa che si aprano i seggi ed inizino Read more

Un manuale per i giornalisti ma utile per i lettori

 A dispetto del titolo, questo Manuale di deontologia del giornalista non è un testo riservato agli addetti ai lavori o, Read more

Articolo successivo
Stroncature. “La felicità negata” del professor De Masi, “ovvero il liberalismo incompreso”
Articolo precedente
Personaggi Dc, la Galleria di Eufemi. Pietro Rende, protagonista del meridionalismo

Menu