Nel punto più basso della terra, al fondo della depressione del Mar Morto, anzi, più precisamente, dove il fiume Giordano termina i suoi infiniti meandri per gettarsi nel lago salato dove sopravvivono solamente diciassette microrganismi, si trova l’antica Gerico, oggi Tell es-Sultan, la collina del Sultano, dove da più di venti anni l’Università di Roma «La Sapienza» collabora con le autorità palestinesi per scavare e valorizzare uno dei più antichi e affascinanti siti archeologici del mondo.
Tornare a Gerico è sempre un’esperienza sconvolgente. Il tell, ossia la collina artificiale formata dagli strati di occupazione umana, è relativamente piccolo, circa 6 ettari, un decimo di Ebla, un ventesimo di Ur. Ma gli strati sovrapposti sono tanti. Coprono più di diecimila anni di storia di una delle comunità più resilienti e più innovative conosciute.
Lì, sul fondo di trincee di scavo alte fino a 15 metri, vi sono le tracce della prima comunità umana che decise di vivere in modo stanziale e riuscì ad addomesticare le piante e gli animali. A prezzo di sacrifici e per intere generazioni: consumando sempre i frutti peggiori e riservando per la semina quelli migliori. Gli archeologi, italiani e palestinesi insieme, affondano le loro piccozzine negli strati che – come capsule del tempo – restituiscono ogni giorno preziosi frammenti di un passato che può sembrare lontano, ma non è mai stato così vicino.
Quando i nostri antenati di Gerico compresero che era molto più saggio e remunerativo prendersi cura della vita che uccidere per vivere e smisero di essere cacciatori e raccoglitori per diventare agricoltori e allevatori, dando inizio alla rivoluzione neolitica. La prima rivoluzione, la rivoluzione della preistoria.
Quando capirono che vivere insieme in uno spazio pianificato e organizzato, costruito, poteva significare vivere meglio. Inventarono la ruota, il fuoco che trasforma i cibi e serve a produrre strumenti più efficaci; inventarono il mattone, ossia il concetto del costruire, non solo gli spazi dove vivere, ma anche la propria stessa fortuna.
La prima casa è a forma di utero. Con un ingresso stretto e lungo ed è tutta rivestita di finissimo intonaco bianco che risale dal pavimento sulle pareti. Qui, il bene più prezioso, i figli, i bimbi, ma anche le sementi, sono al sicuro dagli animali selvatici che infestano la Valle del Giordano e dagli insetti (prime tra tutte le grandi formiche).
Ma gli abitanti della prima Gerico sono anche quelli che inventarono le prime arnie per ospitare gli alveari, perché capirono che le api sono essenziali per impollinare le piante e moltiplicare i frutti.
Insieme gli abitanti di Gerico edificarono la Torre Tonda, il primo edificio costruito da una comunità di agricoltori. Il fulcro della loro proto-città, alta circa 10 metri e con un diametro di 8, tutta costruita in pietra con all’interno una ripida scala che portava sul tetto. La Torre Tonda serviva a difendere i prodotti della terra e gli animali, che vivevano ormai in simbiosi con gli umani.
Accanto alla proto-città sgorgava la sorgente di ‘Ain es-Sultan, un fiume di acqua dolce che, accumulatasi nel Deserto di Giuda, erompeva ai piedi del Monte delle Tentazioni. Questa sorgente da 5000 litri al minuto fu da allora una risorsa essenziale per gli abitanti di Gerico, da quando i Neolitici la regolarizzarono, scavando canali che distribuivano le acque in quella che divenne una delle più rigogliose oasi d’Oriente.
Qui, le piante addomesticate – le prime otto: orzo, farro (dicoccum e monococcum), grano, lino, cece, lenticchia, pisello e vecciola, e gli alberi da frutto, per primi il fico, il melograno e poi il mandorlo – trasformano una regione desolata e acquitrinosa in un giardino.
La nascita dell’agricoltura è intimamente legata all’idea di prendersi cura e al modello del seme che muore e rinasce. Sono concetti esperienziali che cambiano il modo di pensare e di credere degli umani, che entrano dentro di noi per sempre da allora. Il seme che rinasce ci dà speranza nell’aldilà.
I gerichioti decidono di seppellire i crani dei loro cari, per ricordarne la memoria, per farli rinascere e conservarne lo spirito. Iniziano a modellare i crani con il gesso, a dipingerli e a intarsiare i loro occhi con conchiglie. Gli antenati – la nostra appartenenza a una discendenza di sangue – sono oggetto di culto e divengono i protettori della famiglia, l’istituzione sociale inventata dai Neolitici per non essere più solo un gruppo di individui. Con le loro mani plasmano sangue e argilla per fare la statua di un dio: se dio ci ha creati, noi da bravi figli abbiamo creato degli dèi a nostra volta. Non si può affrontare la vita e soprattutto la natura senza farsi aiutare: questa la lezione di Gerico.
Quando nella mano dell’archeologo c’è un piccolo seme – e questo seme è quello di una delle prime piante addomesticate- si prova un senso di vertigine. Quando la piccozzina scopre un cranio di diecimila anni fa, sepolto in un altare per conservare la vita, impossibile non provare un brivido profondo. Alzando gli occhi al cielo dalla terra, si torna drammaticamente nel presente: intorno a noi la moderna città di Ariha, che si sviluppa ad un ritmo incredibile, nonostante le mille difficoltà della non risolta questione palestinese.
Conservare il Passato, proteggerlo, studiarlo e renderlo noto è il modo dell’Italia per contribuire.
Gli archeologi scavano per scoprire, ma anche per proteggere le testimonianze di questi antichi progenitori e per farle conoscere. Per trasmettere la loro eredità culturale. Il fatto che siano molto antichi non significa che non abbiano qualcosa di importante da insegnarci e che dobbiamo ancora trasmettere.
* Professore Ordinario di Archeologia e Storia dell’Arte del Vicino Oriente antico nell’Università degli Studi di Roma «La Sapienza»