1871, Discorsi su Roma “capitale definitiva d’Italia”. Gli ideali risorgimentali, le “sorprese della storia” avvenire

Una intensa ed evocativa pagina di storia italiana risorgimentale emerge dagli archivi della Stamperia Trevi, che da 240 anni svolge l’attività nella stessa città e nello stesso luogo, a due passi dalla mitica Fontana e a poche decine di metri dal Quirinale.

Sono discorsi di brindisi pronunciati il 4 luglio 1871 in Campidoglio durante un solenne banchetto per festeggiare Roma, che diventava capitale definitiva dell’Italia.

La prima Capitale del Regno d’Italia era stata Torino, ma Cavour aveva preso il solenne impegno che sarebbe stata un giorno Roma la Capitale naturale dell’Italia finalmente unita. Il Conte non lo vide quel giorno perché morì circa dieci anni prima. Ma il Governo italiano continuava a guardare a Roma, e vi anelavano i patrioti, di qualsiasi fede, e i principali esponenti del Risorgimento, a cominciare da Mazzini e Garibaldi.  (“Roma o morte”).

Ma a guastare la festa c’era sempre Napoleone III, che da sovrano cattolicissimo vegliava sul papa capo dello Stato Pontificio prima e della sola Roma poi. E per essere sicuro che l’Italia rinunciasse al progetto di Roma capitale impose al governo italiano, con la cosiddetta Convenzione di Settembre del 1864, di spostare la capitale da Torino a Firenze. In cambio, l’imperatore si impegnava a ritirare le truppe francesi che difendevano Roma per proteggere il papa. Lo spostamento della capitale da Torino alla città del giglio creò uno sconquasso, proteste e incidenti nella città sabauda, con diverse decine di morti (52 torinesi uccisi negli scontri con i gendarmi e 187 feriti, nei due giorni del 21 e 22 settembre 1864).

Firenze fu Capitale dal 3 febbraio 1864 al 3 febbraio 1871

Il 1870 fu l’anno fatale per “Napoleon le petit” (come lo chiamava per dileggio Victor Hugo), caduto prigioniero dei prussiani nella battaglia di Sedan. Il governo italiano non si fece sfuggire l’occasione: caduto il principale ostacolo, diede ordine ai bersaglieri di cannoneggiare Porta Pia. Il Papa era allora era Pio IX, al secolo Giovanni Maria Mastai Ferretti, marchigiano di Senigallia. Salito nel 1846 al soglio di Pietro che aveva poco più di 50 anni, accolto da tante speranze, iniziò il pontificato guardando con simpatia ai liberali; un volterriano Carducci, innamorato però delle regine, gli si rivolgerà anni dopo invitandolo a un brindisi: “cittadino Mastai, bevi un bicchiere”).

Ma poi Pio IX cambiò atteggiamento, disse addirittura di essersi sentito tradito dai liberali, ruppe per sempre con loro; anni dopo fu l’autore del Sillabo, una serie di proposizioni contro il libero pensiero e la civiltà moderna, che ha fatto più male che bene alla Chiesa e alla cultura non solo italiana.

Da giorni sugli schermi italiani Pio IX è comparso nell’ultimo film di Marco Bellocchio, Rapito, la storia tremenda del rapimento di un ragazzino ebreo (che era stato battezzato di nascosto dalla cameriera) e deportato a Roma per farne un perfetto cristiano. Questa la vicenda all’osso ma il film è anche una riflessione sulla religione, sul rapporto tra le fedi e i pericoli e gli eccessi che sorgono quando ne subentra una visione assolutista, autoreferenziale e integralista.

Tornando alla Breccia di Porta Pia, il papa diede comunque ordine al suo, peraltro sparuto, esercito, di non battagliare, per evitare inutili stragi. Ma i morti ci furono.  L’esercito italiano ebbe 49 caduti, l’esercito papalino 19; i feriti furono 141 tra gli italiani e 68 tra i pontifici.

Pio IX si chiuse sdegnosamente in Vaticano, considerando Vittorio Emanuele II un usurpatore, e, come facevano i papi nel Medioevo, per esempio con Federico II, scomunicò il re Savoia. Tutti e due, scomunicato e scomunicatore, poi morirono nello stesso anno, otto anni dopo la presa di Roma: il primo il 9 gennaio 1878, il secondo meno di un mese dopo, il 7 febbraio. A un’età ben differente: Pio IX aveva 86 anni, il Re 58.

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I discorsi furono pronunciati il 4 luglio del 1871 nell’Aula Magna capitolina.  Presenti rappresentanti del Senato, della Camera, ministri e sindaci delle città italiane.

A leggere gli interventi, regolarmente stenografati, si sente risuonare come un motivo unificante lo spirito risorgimentale e patriottico, e non deve stupire neanche una certa enfasi retorica, peraltro non eccessiva. Colpisce se mai la brevità, la concisione, quasi che la solennità dell’ora parlasse da sé e non avesse bisogno di troppi orpelli o lungaggini.

Era passato meno di un anno dalla settembrina Breccia di Porta Pia.

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A dare inizio alla serata fu il sindaco di Roma, il principe Francesco Pallavicini

Fu molto breve. Pregò i sindaci convenuti da ogni parte d’Italia di riferire ai loro cittadini la riconoscenza dei Romani “per l’universale consenso con cui questa città si volle scelta a sede del Governo”. Aggiunse questa assicurazione: “Roma saprà degnamente mantenere quel posto a cui fu chiamata da voi; dall’alto del Campidoglio echeggi un grido di riconoscenza verso la gloriosa dinastia dei Savoja; dunque Signori beviamo alla salute del Re” (applausi generali; Viva il Re, è scritto negli stenografici).

Dopo il sindaco di Roma, ormai capitale definitiva d’Italia, parlò Bellinzaghi, il sindaco di Milano, della città che poi sarebbe stata considerata, nel secolo successivo, la capitale morale d’Italia, ovviamente morale non tanto nel senso dell’etica ma dello sviluppo economico e sociale del Paese.

Il cavalier Bellinzaghi parlò in nome di tutti gli altri sindaci d’Italia, e si disse stupito che il popolo romano fosse stato capace di organizzare in così poco tempo una festa così bella in Campidoglio, una sfilata imponente della Guardia nazionale davanti al re. “Mi ha commosso – disse – la serietà di questo popolo, giacché quando un popolo è capace di fare una dimostrazione come è stata quella di ieri sera della passeggiata con le fiaccole, è popolo degno di stare nella capitale del regno Italiano” (appalusi, voci, Bravo).

(è irresistibile, e cediamo senza difficoltà,  la tentazione di osservare che al sindaco di Milano, così ammirato del popolo della città di Roma, ancora non presa d’assalto, come  100 anni dopo, dal flusso migratorio interno, mai sarebbe passato per la mente di immaginare che un tempo sarebbero fioriti tanti luoghi comuni e pittoreschi esempi di sottocultura nazionale: ad esempio, sui “torinesi falsi e cortesi”,   sui milanesi laboriosi e alacri, sui meridionali dormienti e fannulloni, e sui romani sfaticati e pigri, su “Roma triste umida e antilavorativa” (così  un “cumenda” la definisce nel film “Il sorpasso”, del 1960, davanti a un Gassman schifato di tanta prosopopea nordista).

Meno che meno il cavalier Bellinzaghii avrebbe potuto immaginare che circa 80 anni dopo una rivista di successo avrebbe fatto questa copertina: “Capitale corrotta Nazione infetta”. Era una inchiesta dell’Espresso sulla speculazione edilizia a Roma e sulla corruzione. Circa 20 anni dopo ci sarà un convegno promosso dal Vicariato sui “mali di Roma”, tra il 13 e il 15 febbraio 1974, che non fece saltare di gioia il potere politico. Il sociologo Franco Ferrarotti parlava di “Roma da capitale a periferia”, le periferie pullulavano di immigrati del Sud, senza lavoro e con tante baracche; erano – ha scritto in un articolo Andrea Riccardi – la parte dolente della cosiddetta “città sacra”, “una metropoli che perdeva anima e coesione”.

Perché questo richiamo all’attualità, mentre riferiamo sui discorsi su Roma Capitale definitiva d’Italia? Intanto perché siamo fermamente convinti dell’assunto di Benedetto Croce che la Storia è sempre contemporanea. Il che significa che raccontare la Storia non è solo narrare memorie sepolte e mute ma suscitare lo sguardo e il pensiero al presente per capire che cosa è accaduto nel frattempo. E poi tutto questo forse serve anche a far comprendere che la Storia sarà pure “magistra vitae di niente che ci riguardi”, come scrive uno scettico Eugenio Montale, ma ha spesso nel suo grembo delle sorprese, positive e negative. E sembra quasi un gioco troppo facile dire che gli oratori di quella storica serata del 4 luglio 1871 non avrebbero mai immaginato un futuro così travagliato per la città che venivano a omaggiare come la realizzazione del sogno risorgimentale).

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Ma torniamo agli altri oratori di quella storica serata

Per il Senato parlò quasi telegraficamente il vicepresidente Commendator Vigliani. Ringraziò il sindaco di Roma, il sindaco di Milano, ma soprattutto il primo per aver avuto “il bellissimo pensiero di riunirci in questo banchetto in cui veramente si simboleggia l’unità italiana compiuta e l’unione di Roma all’Italia. Vogliate, o Signori, bere alla gloria di Roma liberata” (applausi).

Il presidente della Camera, cavalier Biancheri, fece un intervento un po’ più lungo. Roma – disse – ha ben meritato della Patria. È a noi, rappresentanti della nazione, che spetta di rendere a questo popolo (romano) azioni di grazie. Ed è a me cui spetta il primo posto nella rappresentanza Nazionale (quantunque il più umile fra i miei colleghi, e il meno fornito di titoli) a me, onorevoli Signori, spetta l’altissimo onore di invitarvi a bere alla salute, alla prosperità, e alla grandezza della patria nostra che è l’Italia (appalusi vivissimi).

Sebbene il sindaco di Milano avesse detto di parlare a nome dei sindaci delle altre città italiane, si alzò il sindaco di Bologna Camillo Casarini che, correggendo una “laguna” (sic!) del discorso del presidente della Camera Biancheri, fece un caloroso omaggio alla città di Torino e al vecchio Piemonte, “baluardo di libertà mentre su tutte le altre città italiane gravava il giogo della servitù”.

Si associò subito a queste parole il sindaco di Torino, conte Bignon, che ringraziò, con una litote, il suo collega di Bologna per aver ricordato ‘’ quel poco che il Piemonte’’ aveva fatto per l’Italia. E perciò propose un brindisi “a questo popolo che ieri con le sue manifestazioni fece un nuovo plebiscito, un brindisi in nome della città di Torino che prima ebbe la ventura di acclamare la decisione del parlamento per il voto di Roma capitale d’Italia”.

Il ministro degli Esteri Visconti Venosta ricordò il giorno in cui il Conte di Cavour “pose la questione di Roma con mirabile espressione innanzi all’Italia e al mondo affermando il diritto dell’Italia a compiere la sua unità politica, prendendo per il Paese per il quale parlava il solenne impegno morale di unire Roma all’Italia. Noi eravamo convinti, o signori, di trasportare la sede del Governo Italiano in una città dove avrebbero potuto sicuramente seguitarsi tutte le tradizioni di una politica progressiva, ma che sa nel tempo stesso che la migliore guarentigia del progresso è la stabilità delle istituzioni (applausi), di una politica liberale e che associa alla fede nella libertà il sentimento dell’ordine senza cui la libertà non dura, e non è feconda de’ suoi frutti e dei suoi benefici” (applausi).

L’assessore al Comune di Roma avv. Placidi ritenne di aggiungere alcuni concetti, che il sindaco capitolino non aveva avuto modo di esprimere. Ringraziò i precedenti oratori: “Se le lodi date a Roma e ai Romani non sono del tutto meritate, noi romani magistrati e popolo faremo di tutto perché lo siano in avvenire”. Ringraziò la città di Torino che ha dato a Roma e all’Italia un re, esempio modello di lealtà e di coraggio, un parlamento, una costituzione la quale ci ha salvato dai pericoli di una costituente, un esercito al quale si è modellato in un momento tutto il resto d’Italia. Ringraziò il governo il quale “è stato così gentile e generoso da trovare la condotta dei Romani ineccezionabile (sic!), ed infine al re nostro che tanto nella storia moderna che per l’avvenire sarà esempio di virtù e lealtà a tutti quanti i Sovrani del mondo” (appalusi fragorosi).

Il sindaco di Venezia, cav Fornoni: Venezia quando ha recuperato la libertà non aveva che un rammarico, quello di sapere che Roma non era ancora congiunta all’Italia (applausi). “Noi non siamo venuti qui per accettare inviti, e liete accoglienze come fu detto, ma siamo venuti a fare qualche cosa più importante, siamo rappresentanti di tutti i Comuni d’Italia siamo venuti a fare un nuovo plebiscito. Noi siamo venuti ad acclamare Roma Capitale d’Italia come rappresentanti dei nostri Comuni. Quindi vi invito a fare un brindisi e ad acclamare con me Viva Roma Capitale d’Italia” (acclamazioni).

Il principe Emanuele Ruspoli, consigliere comunale di Roma: “Questo prodigioso svolgersi degli avvenimenti non fu l’opera della cieca prosperità, della nostra fortuna, del fortuito avvicendarsi dei casi. No, o Signori, sarebbe triste per la storia dell’umanità se il Risorgimento di un popolo si compisse indipendentemente dal patriottismo e dalle virtù dei suoi figli. Un Re magnanimo, un fedele esercizio delle nostre franchigie costituzionali, una ammirabile concordia tra Re e popolo, ecco Signori ciò che fece l’Italia. Troppo bell’esempio Roma ha davanti a sé: la nobile Torino, e la gentile Firenze, quella Firenze che nel deporre la sua corona di Capitale, non è rimasta men bella, ed è assai più gloriosa. Io ringrazio quel ministero che decise la spedizione di Roma”. (applausi)

Il ministro dei Lavori Pubblici, commendatore Gadda: “Tutti, o signori, avete ammirato l’entusiasmo di questa popolazione, il suo amore per il nostro re; ma quello che non tutti avete potuto ammirare è il sublime spettacolo di un popolo, che sa resistere alle provocazioni colla moderazione; che sa dominare colla ragione gl’impeti più naturali dell’animo.

Il sindaco di Forio d’Ischia commendatore Giuseppe D’Ascia intervenne per un omaggio a Firenze, invitando a bere alla salute di questa città che “mostrando un patriottismo a nessuna minore si è cinta di una corona di gloria consegnando quella corona provvisoria a quella città, cui i destini del secolo l’avevano riservata”.

A un deputato fu riservata uno strano trattamento: l’on. Ettore Novelli, fece in tempo a dire: “Signori, molte parole di lode sono state a noi rivolte”.  E poi, riferisce il resoconto stenografico:  il rumore nella sala e il suono del concerto ha coperto la voce dell’Oratore che perciò non è giunta agli Stenografi.

Poi toccò al sindaco di Napoli, cavaliere De Monte

Poteva mancare il sindaco della città che era stata capitale del Regno delle due Sicilie? Certamente no, perché – affermò il cav De Monte –Napoli “fu la prima nel 1860 col suo plebiscito a proclamare Roma Capitale d’Italia, sacrificò il suo mantello di Regina deponendolo lietamente sull’ara dell’Unità Nazionale. … Non posso tacere che deve essere un grande argomento d’orgoglio per noi tutti vedere che quei Municipi (Milano, Bologna, Torino ecc) che nell’età di mezzo furono grandi guerreggiando continuamente tra loro, e che né forza di Papi né di Imperatori aveva finora potuto congregare, ora si veggono qui tutti raccolti, esempio unico nell’istoria desiderata da’ secoli, e che ammireranno attoniti i secoli avvenire” (approvazione).

In nome di Dante, il sindaco di Ravenna, ultima città sede dell’Impero d’Occidente

Il cav Cosimo Fabri: “Ravenna ha avuto la gloria di aver accolto nelle sue mura il grande cittadino di Firenze. Permettetemi dunque che io faccia riverenza a quest’alma Roma e vi invito a rivolgere un pensiero all’illustre Fiorentino, al grand’Italiano, a Dante Alighieri propugnatore della grande idea dell’unità Italiana. … Mandiamo un evviva all’alto spirito di Dante Alighieri” (applausi bravo evviva).

Firenze ringrazia con le parole del vice presidente della Camera Mordini, toscano

“Ringrazio con tutta l’effusione dell’animo dei sentimenti dimostrati a Firenze. Questa città non già si credé indegna di portare la corona di Capitale, ma di fronte a Roma tutte le sue idee di grandezza cedevano, ed essa riconobbe che Roma era la naturale Capitale d’Italia. Questi sentimenti furono di Firenze, come furono di tutta la Toscana, e qui permettetemi di dirvi, o Signori, che nel movimento Italiano il movimento Toscano fu tutto ideale. Di qui la sua potenza”.

“Nel 1846 e 1847 allorquando la tirannia imperversava su tutte le altre regioni d’Italia, la Toscana allora aveva leggi invidiate, aveva diritti invendicabili, era il rifugio di tutti gli esuli, la Toscana fu liberale solo perché era animata dal sentimento nazionale, associato a tutte le province italiane…. In questo concetto, in questo sentimento, che venivano dal suolo di Dante, la Toscana ha sempre persistito. L’ultimo suggello è stato quando pochi giorni or sono poteste vedere il Sindaco di Firenze in quest’alma città alla testa dei Sindaci del Regno interprete del sentimento di tutta la Toscana, deporre spontaneo e con tutta l’effusione del cuore la corona che avea portata degnamente di Capitale di tutta l’Italia e tutto ciò, o Signori, perché il concetto Toscano fu sempre un concetto Italiano”.

L’on. Agostino Plutino inneggia all’Armata

“Fratelli italiani, noi siamo in Campidoglio, ma siamo anche vicino alla rupe Tarpea. È fatta l’Italia; proseguire a mantenerla spetta all’armata, la quale non permetterà mai che lo straniero torni a calpestarla e soggiogarla” (applausi).

E Carlo Alberto? “l’immortale autore dello Statuto, il magnanimo Re Carlo Alberto”?

Quella sera ci fu onore anche per lui. Si alzò un tale signor d’Ormeville (forse un diplomatico o un nobile) a ricordare il re esule e morto in esilio, rammentando anche la promessa che Vittorio Emanuele II aveva fatto al suo “Augusto Genitore” il giorno in cui abdicò dopo la fatal Novara e partì per il Portogallo nel 1849.

Il principe Ruspoli invita a brindare a tre generazioni di regnanti

Invito gli illustri Ospiti che onorano la città di Roma a volgere lo sguardo al Reale palazzo del Quirinale. Sono appena dieci mesi che Roma è città Italiana, e vi albergarono Re Vittorio Emanuele II, Umberto principe di Piemonte e il principe di Napoli. Io v’invito a bere alle tre generazioni di re Italiani che già albergarono in Roma (vivi applausi)

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Mario NanniDirettore editoriale

 

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