Tutte le ombre sul delitto Siani, lasciato solo in Terra nemica

A quarant’anni dall’uccisione del giornalista da parte della mafia, un libro di Pietro Perone mette in ordine i depistaggi, le ambiguità, i misteri ancora insoluti. A partire dal manoscritto scomparso

La sera del 23 settembre 1985, in una Napoli che si gode la fine dell’estate, due sicari con i giubbotti scuri che li mimetizzano nel buio svuotano i loro caricatori: sette proiettili nel cranio della vittima, altri nella nuca. Muore così, a bordo della sua Mehari verde bottiglia Giancarlo Siani, 26enne da appena quattro giorni, giornalista de Il Mattino ucciso dagli sgherri della criminalità organizzata. Qualche anno dopo Pietro Perone viene assunto dalla redazione di Castellammare di Stabia di quel giornale: proprio dove Siani aveva lavorato per cinque anni come corrispondente d’area – formula pomposa a cui non corrisponde un’assunzione – prima di finire ammazzato. Perone, insomma, viene assunto al suo posto.

È anche per questo che – in vista del quarantesimo anniversario di quel delitto – ha pubblicato per le Edizioni San Paolo, Terra nemica, la storia di Giancarlo Siani: “Continuare a farlo vivere nel solco del coraggio è un dovere, affinché la memoria di chi ha lottato per un futuro diverso non vada smarrita, piccolo faro per guidare i naviganti”. L’omicidio del giovane cronista sorridente, caparbio, con gli occhialini tondi e lo sguardo serio, è già stata narrata al cinema da Marco Risi con il suo Fortapasc, protagonista Libero De Rienzo. Il regista oggi firma la prefazione del libro, tornando sulla distinzione – coniata insieme ad Andrea Purgatori – tra giornalista-giornalista come Siani e giornalista-impiegato come chi non volle vedere né scrivere le tante zone d’ombra mai illuminate in quella vicenda.

Perone, oggi caporedattore centrale del quotidiano di Napoli, ha fatto parte del cosiddetto Pool Siani: il gruppo di giovani colleghi costituito nell’estate del 1993, ben otto anni dopo il delitto, dai nuovi vertici de Il MattinoSergio Zavoli e Paolo Graldi proprio per avviare un’indagine parallela a quella della Procura e della polizia. Già: fino a quel momento, colpevolmente e sciattamente, il giornale aveva sottovalutato il caso: “Sono un po’ di anni che nella sede centrale (e storica, ndr) di Via Chiatamone 65 si parla sempre meno del collega ammazzato, c’è uno sparuto gruppo che si considera sconfitto”. Poche righe negli anniversari, un solo cronista a seguire il processo su 180 redattori, invidie e gelosie redazionali, ma anche pavidità politiche. Meglio del blasonato quotidiano fa il piccolo Frigidaire, giornale corsaro di cronaca e fumetti fondato tra gli altri da Andrea Pazienza (il grande Paz) che si espone ma rimedierà una pesante querela.

Con stile asciutto e puntiglioso Perone si fa largo nella ridda di supposizioni, versioni cambiate nel tempo, personaggi in chiaroscuro, pentiti di rango, per ricostruire il contesto in cui è maturato l’unico omicidio di un giornalista in Campania per mano della mafia: un sgarbo tra clan alla base dell’arresto del capo Valentino Gionta, tradito dai Nuvoletta, boss di Marano nel cui territorio Gionta si era rifugiato. Il capoclan, insomma consegnato allo Stato: “lanciato oltre la rete come un pezzo di carne dai domatori del circo”. Siani, da solo, aveva azzardato questo retroscena (nato dalle rivelazioni di un capitano dei Carabinieri) toccando sul vivo “l’onore e la rispettabilità” dei mafiosi che ne avevano firmato la condanna a morte. Sullo sfondo, però, c’è anche molto altro: collusioni politico-criminali che chiamavano in causa l’ex sindaco socialista di Castellammare, la torta della ricostruzione dopo il terremoto dell’Irpinia, il business d’oro intorno alle cooperative per il reinserimento degli ex detenuti. E incombe il mistero del manoscritto scomparso: un libro-inchiesta sulla città, di cui Giancarlo aveva parlato come quasi pronto nelle lettere alla ex fidanzata bolognese Chiara per cui cucinava spaghetti con le zucchine. Volume, invece, sminuito da un amico e collega dell’Ansa, e mai ritrovato. Ancora: una guardia giurata – ex poliziotto, falco di strada – ha dichiarato di averlo incontrato poche ore prima della morte e che Siani gli aveva domandato di scortarlo discretamente al suo appuntamento, salvo poi cambiare idea. Né si è mai chiarito l’argomento della sua ultima telefonata.

Attraverso il martirio laico di Siani l’autore ripercorre una fase cruenta della nostra storia: l’arresto di Totò Riina il Capo dei capi, le bombe di Roma (San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro, più l’attentato contro Maurizio Costanzo) e Milano (Via Palestro), le mosse dell’Antimafia di Luciano Violante, la stagione dei collaboratori di giustizia (tra cui il cognato di Gionta, decisivo per l’indagine), e intorno a tutto la mafia violenta che sparava e ammazzava chiunque si mettesse sulla sua strada.

Siani è diventato un simbolo dell’antimafia concreta: a lui sono dedicate piazze, strade, radio, teatri, biblioteche, borse di studio, premi giornalistici. La sua Mehari verde – somigliava alla 313 di Paperino, scrisse Goffredo Buccini – è stata esposta in molti luoghi. Il fratello Paolo, da deputato del Pd, ha girato l’Italia per tenerne vivo il ricordo. Come fa adesso il figlio Gianmario, a capo della Fondazione per “lo zio che non ho conosciuto”. Ma è anche l’ennesimo intrigo italiano: “Della morte di Giancarlo – scrive Perone – come accade per Falcone, Borsellino, Impastato, don Puglisi o don Diana, non si smetterà mai di parlare, Pesa sui delitti di mafia un ammasso di intrighi, reticenze, omertà, che a distanza di decenni allontanano ancora la verità piena”. Perché la fidanzata Daniela lo descriveva “tranquillo” mentre aveva ricevuto minacce (“Se non la smetti di scrivere ti spariamo nelle gambe”) più di una volta? E il collega dell’Ansa lo bollava come “uno che aveva paura dell’ombra sua… non uno intraprendente… un modestissimo corrispondente”? Perché Gionta, in aula e con la condanna incombente, ha insistito a negare di essere il mandante? Diceva Giovanni Falcone “Si muore perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande”.

Eppure, per chi fa giornalismo, Siani diventa protagonista di uno spaccato del mestiere negli anni Ottanta e Novanta, quando Internet non aveva ancora sconvolto tutto e l’avversario più pericoloso era la politica. La notte in cui Giancarlo fu ucciso, Il Mattino in prima edizione dedicò alla notizia tre colonnine chiamandolo riduttivamente pubblicista anziché giornalista. Fu la rivolta notturna dei redattori a costringere il direttore democristiano ad allargare l’articolo con il compromesso lessicale di cronista (la famiglia perdonò anni dopo “quell’insopportabile e meschina onta di abbandono”). Perone constata con amarezza che oggi, su una ventina di detenuti del carcere minorile di Nisida solo uno conosce Siani, ed è grazie a Fortapasc: “È il personaggio di un film” la risposta istintiva. Suo nipote Gianmario, nella postfazione, ringrazia quelli del pool – con Perone, Pietro Gargano, Giampaolo Longo, Daniela De Crescenzo, Daniela Limoncelli – e il suo caporedattore Mino Jouakim. Poi ci sono il magistrato che ha seguito le indagini Armando D’Alterio con la sua squadra di polizia giudiziaria, l’ufficiale dell’Arma Gabriele Sensales, fonte confidenziale. Ognuno ha fatto la sua parte. Perone con questo libro aggiunge un tassello al puzzle ancora incompleto di una Terra nemica della verità: ne rimangono tante, oscure e segrete, è il lavoro dei giornalisti-giornalisti illuminarle. “Non si fa il proprio dovere perché qualcuno ci dice grazie. Lo si fa per principio, per se stessi, per la propria dignità” ha scritto Oriana Fallaci, “forse la più brava, sicuramente la più coraggiosa reporter del Novecento”.

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