Dal 15 aprile 2023 il Sudan è precipitato in una guerra totale tra le Forze armate sudanesi (Saf), guidate dal generale Abdel Fattah al-Burhan, e le Rapid support forces (Rsf) del generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemeti. Quello che era iniziato come uno scontro di potere tra due uomini forti è diventato una guerra civile di dimensioni catastrofiche: oltre 60mila morti, dodici milioni di sfollati e 26 milioni di persone in grave insicurezza alimentare. Dietro la violenza non c’è solo la lotta per il controllo del Paese, ma un intreccio di tensioni religiose, etniche e geopolitiche che da decenni alimentano la fragilità del Sudan e dell’intero Corno d’Africa.
La storia dimenticata del Sudan
Dopo la caduta di Omar al-Bashir nel 2019, molti avevano creduto che l’era dell’Islam politico fosse terminata. Ma la guerra del 2023 ha offerto al movimento islamico sudanese, erede della rete dei Fratelli Musulmani, l’occasione di ricostruire le proprie basi e di infiltrarsi nuovamente nelle istituzioni. Secondo analisi di Atalayar e della Foundation for Defense of Democracies, una parte delle forze armate e degli apparati statali sarebbe oggi permeata da canali di influenza islamista. Milizie come la Al-Baraa ibn Malik Brigade, composte da combattenti radicali, combattono al fianco dell’esercito regolare con il sostegno di Paesi come Turchia, Qatar e Iran, accusati di fornire finanziamenti, armi e addestramento.
L’obiettivo è duplice: impedire la nascita di un governo laico e mantenere il Sudan nel campo dell’Islam politico regionale. Gli Stati Uniti hanno reagito imponendo sanzioni ad Ali Karti, figura chiave del movimento, per il suo ruolo nel coordinamento delle milizie e nel sabotaggio dei processi di pace. Attraverso reti economiche parallele, fatte di traffici d’oro, aziende di comodo e conti in banche turche, il movimento islamista continua a garantire un flusso costante di risorse.
Il conflitto tra fede e potere
Il conflitto non nasce come guerra religiosa, ma la religione è divenuta una potente leva di legittimazione. In un Paese a maggioranza musulmana sunnita, le minoranze cristiane e animiste, soprattutto nel Sud e nel Darfur, subiscono persecuzioni e discriminazioni sistematiche. Le chiese vengono attaccate, le missioni religiose si trasformano in rifugi per sfollati e la propaganda islamista si diffonde nei territori controllati dall’esercito. La fede diventa così strumento di potere e di controllo sociale, alimentando una polarizzazione che riporta il Sudan indietro di decenni.
Conseguenze disastrose
Sul piano economico il collasso è totale: in due anni il Pil è crollato del 40%, l’inflazione ha superato il 170% e oltre metà della popolazione vive in povertà estrema. Le infrastrutture agricole sono distrutte, mentre il commercio dell’oro, principale risorsa del Paese, è ormai nelle mani di milizie e potenze straniere. Più del 70% degli ospedali è fuori servizio e l’epidemia di colera ha ucciso più di cinquemila persone solo nel 2025. I convogli umanitari vengono regolarmente attaccati o bloccati, rendendo impossibile soccorrere milioni di civili intrappolati nelle aree di conflitto.
Gli interessi geopolitici in Sudan
Sul terreno, il Sudan si è trasformato in un campo di battaglia geopolitico. L’Egitto punta a mantenere il controllo del Nilo sostenendo l’esercito regolare, mentre l’Arabia Saudita mira alla stabilità della regione del Mar Rosso. Gli Emirati Arabi Uniti cercano di garantirsi l’accesso alle miniere e di consolidare i propri accordi con la Rsf; la Russia, attraverso il gruppo Wagner, combina l’interesse per l’oro con la ricerca di una presenza strategica sulle coste del Mar Rosso. Gli stessi Paesi che sostengono le milizie islamiste (Turchia, Qatar e Iran) agiscono anche in funzione geopolitica, cercando di estendere la propria influenza. L’Occidente, invece, resta ai margini, distratto dall’Ucraina e dal Medio Oriente, incapace di esercitare una reale pressione diplomatica.
Il disordine africano e il silenzio occidentale
Mentre le potenze si contendono il Paese, la comunità internazionale rimane silente: nessun piano di pace effettivo, nessuna iniziativa di mediazione, solo dichiarazioni di principio. Così il Sudan continua a bruciare ai margini dell’attenzione globale, diventando l’epicentro dimenticato di un nuovo ordine africano instabile.
E questo silenzio non riguarda solo Khartoum. L’intero Sahel vive un destino simile: in Mali, Burkina Faso e Niger le giunte militari affrontano crisi politiche e securitarie aggravate dall’avanzata jihadista e dal crescente isolamento internazionale. La collaborazione con la Russia non ha fermato i gruppi estremisti, mentre l’Unione Europea e l’Italia tentano un riavvicinamento pragmatico per contenere i flussi migratori verso il Mediterraneo.
Finché la guerra resterà ai margini dell’agenda internazionale, milioni di sudanesi continueranno a morire nell’indifferenza generale, prigionieri di due eserciti, di un’ideologia e del silenzio del mondo.
 
				 
													



