Sanremo finalmente rompe con il “politicamente corretto”: è una notizia. Grazie, Carlo Conti

Sanremo 2025 rompe con la retorica dei diritti civili, dei quattro miliardari a servizio di tutte le cause degli ultimi. Rompe con alberi della Libertà, laicismo d’accatto e soloni radical. Perché la cultura dei buoni sentimenti non è melassa del cuore: è rivoluzionaria

La notizia: Sanremo – un enorme grazie a Carlo Conti – finalmente rompe con la malattia culturale degli ultimi dieci anni: il politicamente corretto. Rompe con personaggi eccentrici, unghia affilate: elogio dell’anormalità, spruzzata woke per le minoranze e ancora elogio della follia, dell’egoismo anticonformista e maschere: trucco, gonne per uomini e rossetti unisex.
Rompe con la retorica dei diritti civili, dei quattro miliardari (liberal) a servizio di tutte le cause degli ultimi (tranne la fondamentale, quella che metterebbe in discussione la loro stessa ricchezza). Rompe con alberi della Libertà, laicismo d’accatto e soloni radical: roba che ha a che fare con la sinistra storica come Totti con l’astrofisica.

Simone Cristicchi

Il capolavoro Cristicchi

Le accuse mostruose: il festival è vecchio, polveroso, qualcuno dice pure fascista. Prendete la canzone di Cristicchi, capolavoro: una ballata dolce e poetica dedicata alla madre malata di Alzheimer. Il pubblico si alza in piedi, la critica plaude. La canzone è stata scritta cinque anni fa, Amadeus l’aveva scartata. Il cantautore dice: “Meglio così, mi sarei sentito a disagio”. È la canzone che decide quando mostrarsi e uscire allo scoperto. Sui social è gara di distinguo: “Argomento importante, ma è un po’ didascalica”. Qualcun altro: “È bella ma la malattia è anche altro”. Ancora: “Non so giudicare la malattia ma la canzone”. Viene il sospetto, a leggerli, che dietro quei “ma” non ci sia critica artistica, ma una forma perversa di “eufobia”: paura del bene. In breve: se la canzone non ha disagi, contrasti, violenza o malizia allora non racconta la verità. Nella verità, questo il sottofondo, non può esistere il bene puro, assoluto: chiaro e cristallino, senza macchia. Bisogna essere fuori di testa, avere un demone dentro, truccarsi (e non solo gli occhi) di un’aura di maledettismo per essere veri: dalla banalità del male alla sua verità.

I buoni sentimenti sono la vera rivoluzione

 È un mix perverso di egoismo ultraliberista e amore per il contrasto tipico di un certo marxismo: il matrimonio è infelice, nega la bellezza dei buoni sentimenti. Nessuno spazio per chi si spende, si sacrifica, trova il centro fuori se stesso: risuona in mente “con usura” di Ezra Pound, nessuno ha più quello che ha donato: ma quello che ha preso. È tutta una gara – non a curare – ma a depredare il giardino comune. Fa sorridere la cultura di sinistra intrisa di illuminismo, tutta a nozze di Ragione, incartarsi davanti alla sfida della contemporaneità: le rivoluzioni – quello che non hanno capito – nascono da un moto dell’anima, più sentimento che ragione, non un Tizio che dice: “È stupido”, ma uno che grida dal profondo del cuore: “È ingiusto”.
La cultura dei buoni sentimenti non è melassa del cuore: è rivoluzionaria. Molto più di quattro scappati di casa che dicono di essere anticonformisti: individualisti, predoni, competitivi, con una voglia matta e tutta capitalista di emergere e sfondare. Questi sarebbero i rivoluzionari, solo perché si mettono il rimmel e gorgheggiano? Ma fateci il piacere, ridateci la normalità e i buoni sentimenti: anche e soprattutto nella cultura.

 

Andrea Chenier

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