Mondiali in Qatar, nulla di nuovo sotto il sole. Sport, politica e società spesso in simbiosi e in conflitto

Perché in ogni grande manifestazione sportiva assistiamo a polemiche e gesti di protesta? La risposta arriva dalla storia e dalle conseguenze sociali di palcoscenici internazionali di forte rilievo pubblico

MondoPolitica

Fin dalle Olimpiadi in Grecia, politica e sport si sono sempre mosse a braccetto. A partire dal 776 a.C – anno della prima Olimpiade – la sfida agonistica ha iniziato a mescolarsi a quella politica, alla lotta per il prestigio e alla supremazia. Per un atleta vincere significava ottenere fama eterna. Ma anche accesso a ricchi benefici materiali: compensi cospicui e importanti cariche pubbliche.

Con la fine dell’Ottocento, il fine delle manifestazioni sportive è diventato quello di recuperare un senso di fratellanza e comunità internazionale, ma anche ricercare una sorta di riscatto umano. Proprio per questo motivo, le gare olimpiche dovevano essere libere da interessi politici. Tuttavia, i governi, e soprattutto le dittature, hanno sempre visto nel campo agonistico un’interessante occasione per testare le proprie strategie, un luogo su cui proiettare le proprie ambizioni. Parallelamente, nel corso del tempo, sono state momento storico per manifestare messaggi e opinioni personali.

Oggi di sicuro qualcosa è cambiato, ma non tutto. La politica entra ancora prepotentemente nello sport, in questo periodo, in particolare, nel calcio: lo sport più seguito al mondo e ancora più sotto i riflettori adesso, con il campionato del mondo in Qatar. Abbiamo assistito, infatti, a polemiche, voci contrarie, perplessità sull’opportunità di organizzare il torneo di calcio più seguito al mondo in un Paese in cui molte libertà sono negate. Anzi, con l’arrivo del calcio giocato alcuni aspetti hanno sollevato l’attenzione: si va dalle vicende più frivole – come il divieto di bere alcolici all’interno degli stadi – a questioni ben più importanti, che hanno a che fare con l’inclusività e il rispetto delle diversità.

I simboli rappresentano il mezzo migliore per veicolare certi messaggi. L’arcobaleno è un segnale di supporto alla causa Lgbtqia+ e, infatti, i capitani di otto Nazionali europee avrebbero dovuto indossare una fascia arcobaleno. Ma in Qatar i simboli arcobaleno, su decisione della Fifa stessa, sono stati di fatto banditi e alla vigilia del Mondiale la Fifa ha proibito l’utilizzo di questa fascia – il cui nome è “One Love” – minacciando sanzioni sportive: nella fattispecie, i giocatori avrebbero potuto essere ammoniti. Così, per protesta, la Germania ha posato nella prima foto di squadra con la mano alla bocca.

Ma i gesti politici, nello sport, sono stati vari e di diverso tipo.

Proteste e boicottaggi

Ai Giochi di Londra 1948, nel post Seconda Guerra Mondiale, il Comitato olimpico internazionale decise di non invitare i Paesi “aggressori” Germania e Giappone, mentre l’Unione Sovietica rifiutò di inviare i propri atleti.

A Melbourne 1956 i boicottaggi furono due: Egitto, Libano e Iraq per protestare contro l’invasione della Penisola del Sinai da parte di Israele, che innescò la crisi di Suez; Olanda, Spagna e Svizzera non parteciparono per l’occupazione dell’Ungheria ad opera dell’esercito sovietico.

Dopo la strage di Monaco ’72 (attacco terroristico palestinese che portò all’uccisione di undici atleti israeliani), arrivarono i Giochi di Montréal 1976, boicottati da 27 paesi africani, dalla Guyana e dall’Iraq, per protestare contro la squadra di rugby della Nuova Zelanda, che si era recata in tour nel Sudafrica, Paese bandito dalle Olimpiadi dal 1964 per le sue politiche di apartheid. Alle stesse Olimpiadi non partecipò neanche Taiwan, perché non gli fu permesso di presentarsi col nome di “Republic of China”, come era avvenuto finalmente nel 1972 dopo anni di proteste per la denominazione “Formosa”.

Con l’acuirsi della Guerra Fredda, ci fu uno scambio di “dispetti” tra Usa e Urss ai Giochi del 1980 e 1984: gli americani (e altri alleati) non volarono a Mosca in segno di protesta per l’invasione sovietica dell’Afghanistan; i russi (e altri Paesi Comunisti) non presero parte alle Olimpiadi di Los Angeles perché non ritenevano adeguate le garanzie di incolumità dei propri atleti.

La Corea del Nord, con la dittatura di Pyongyang, ha boicottato diverse volte le manifestazioni sportive più prestigiose. Ai Mondiali di calcio di Messico ’70 si rifiutò di giocare contro Israele e non si presentò nel 1978, nell’Argentina del generale Jorge Rafael Videla. Non partecipò a Seul ’88 – seguita da Cuba, Nicaragua ed Etiopia – perché esclusa dall’organizzazione dei Giochi, affidati “soltanto” alla Corea del Sud, con cui sfilerà poi – sotto la stessa bandiera – alle Olimpiadi casalinghe del 2018.

Ci sono stati anche dei casi individuali di boicottaggio ai Giochi. Nel 2008 a Pechino, il nuotatore iraniano Mohammed Alirezaei si rifiutò di gareggiare contro un collega israeliano e nel 2011, ai Mondiali di scherma di Catania, la tunisina Sarra Besbes salì sì in pedana – per evitare la squalifica – scegliendo però di rimanere ferma davanti alle cinque stoccate vincenti dell’avversaria Noam Mills, anche lei israeliana.

Messaggi

Durante le Olimpiadi di Berlino del 1936, fortemente volute da Hitler perché diventassero dimostrazione della superiorità ariana, fecero invece scalpore le quattro medaglie d’oro dell’atleta afroamericano Jesse Owens di fronte a una platea gremita di esponenti della “razza pura”. Il Fuhrer si limitò a non stringergli la mano, come fece con qualsiasi altro atleta che non fosse tedesco, lasciando lo stadio prima della cerimonia di premiazione e inviandogli un suo ritratto autografato qualche giorno dopo. Il Presidente Roosevelt e il suo successore Harry Truman, a loro volta, si limitarono a ignorare del tutto il pluripremiato atleta.

Nel 1960 il maratoneta etiope Abebe Bikila percorse a Roma i leggendari 42 chilometri e 195 metri senza indossare le scarpe. Erano gli anni in cui il continente nero si liberava dalla colonizzazione europea e qualcuno vide nel gesto dell’atleta un messaggio chiaro e preciso di liberazione.

Uno tra gli episodi più celebri nella storia dello sport e della politica avvenne all’Estadio Olimpico Universitario di Città del Messico, nel 1968. Alla premiazione della finale dei 200 metri piani c’erano due corridori statunitensi: Tommie Smith e John Carlos. Una volta ricevute le medaglie, i due ascoltarono l’inno nazionale sollevando un pugno chiuso ricoperto da un guanto: una manifestazione di solidarietà nei confronti delle Black Panthers, l’organizzazione che da qualche anno lottava per mettere fine alla discriminazione degli afroamericani. Per solidarietà ai colleghi, l’australiano Peter Norman, secondo classificato, indossò una spilla in favore dei diritti umani. Per il resto, Smith e Carlos non trovarono solidarietà e appoggio. Anzi, furono costretti ad abbandonare il villaggio olimpico, mettendo così la parola fine alla loro carriera.

Nel 2016, durante le Olimpiadi di Rio, la schermitrice italiana Elisa Di Francisca, fresca vincitrice della medaglia d’argento nel fioretto, festeggiò sul podio esponendo la bandiera europea (e non, come da protocollo, quella nazionale). “Con questa bandiera – spiegò l’atleta – voglio mandare il messaggio che l’Europa è unita e lotta contro il terrorismo”.

Ma anche più recentemente, a Euro 2020, abbiamo osservato le scelte di alcune nazionali di inginocchiarsi, per sostenere simbolicamente il movimento “Black lifes matter” contro il razzismo in America.

Prese di posizione

Molto conosciuta è la presa di posizione che, in un primo momento, costò parecchio cara all’atleta cecoslovacca Vera Caslavska, la ginnasta con più titoli nella storia dei Giochi a livello individuale: conosciuta anche per il suo dichiarato appoggio al Movimento democratico cecoslovacco contro l’occupazione sovietica del 1968, le fu proibito di allenarsi insieme al resto della squadra, tanto che la campionessa di Praga si esercitò da sola nelle foreste della Moravia, utilizzando dei sacchi di patate come pesi e delle assi di legno come travi. Così, non perse la sua forma fisica e si prese la sua “vendetta”: ai Giochi di Città del Messico difese il suo titolo, ottenendo riconoscimenti in tutte e sei le discipline oltre che oro al corpo libero, alle parallele asimmetriche e volteggio. Alle premiazioni manifestò la sua opinione politica distogliendo ostentatamente lo sguardo durante l’esecuzione dell’inno sovietico alla premiazione della gara del corpo libero, vinto da lei a pari merito con la russa Larisa Petrik.

Carlos Caszely, un eccellente calciatore cileno, si scagliò apertamente contro la dittatura di Augusto Pinochet, tant’è che nei giorni del celebre referendum cileno del 1988 mandò un messaggio televisivo in cui annunciò che avrebbe votato “no”.

Nel 2019 i giocatori della nazionale di calcio turca avevano fatto un saluto militare durante l’inno nazionale delle qualificazioni agli Europei, contro l’Albania prima e la Germania poi. Sempre la Turchia era stata anche protagonista del supporto sui social al proprio esercito, impegnato in Siria, da parte del centrocampista turco del St.Pauli, Cenk Sahin. La mossa aveva destato l’indignazione del club tedesco, da sempre schierato contro ogni forma di violenza. Proprio per questo, la società rese noto di aver allontanato il calciatore. Il suo contratto rimase valido ma Sahin non giocò più per il St. Pauli. “I principali motivi sono il ripetuto disprezzo dei valori del club e la necessità di proteggere il giocatore. Per quanto ci riguarda, non può essere in discussione il fatto di rifiutare ogni atto di guerra”, si leggeva nella nota della società tedesca.

Sempre nello stesso anno, un dirigente dell’Nba, Daryl Morey, General Manager degli Houston Rockets, si era dichiarato a favore, su Twitter, dell’azione dei manifestanti di Hong Kong, paese in cui le proteste imperversavano da più di 4 mesi.

Poi, ancora, la presa di posizione del Barcellona contro le sentenze del tribunale di Madrid sui conflitti in Catalogna: “La pena preventiva non ha aiutato a risolvere il conflitto, non lo farà la pena detentiva inflitta ora. La soluzione del conflitto in Catalogna deve arrivare esclusivamente dal dialogo politico – aveva commentato sui social il club di calcio – La società esprime sostegno e solidarietà ai familiari delle persone private della loro libertà”. Anche i singoli del club come Pep Guardiola, attuale allenatore del Manchester City, e il calciatore Gerard Piqué hanno da sempre manifestato le proprie idee indipendentiste, provocando feroci critiche dal resto della Spagna.

Negli scorsi europei di calcio, infine, l’Ucraina aveva scelto di disegnare i confini nazionali sulla propria maglia, ma con un “piccolo” particolare: nel contorno della mappa figurava anche la Crimea. Il gesto aveva destato le ire della Russia di Putin, che aveva fatto notare alla Uefa la menzione della questione politica. Risultato: via la Crimea dalla maglia.

Insomma, per quanto le varie organizzazioni possano sforzarsi nell’allontanare la politica dallo sport, l’impressione è che questa troverà sempre spiragli per entrare nel dibattito pubblico anche per queste vie traverse.

 

Enrico ScoccimarroGiornalista praticante

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