Europee, 35 anni fa la “prima volta” della Lega

S’iniziava così la narrazione barricadiera di Umberto Bossi

Nell’anno in cui si sono celebrati i quarant’anni dalla nascita della Lega Autonomista Lombarda e mentre ci si avvicina sempre di più alle elezioni europee, è curioso ricordare come esattamente trentacinque anni fa (giugno ‘89) il partito oggi guidato da Matteo Salvini scendesse in campo alle europee per la prima volta, unito sotto la formula Alleanza Nord, conquistando due seggi.

Il leader di quella lista, che nel dicembre dello stesso anno fondò ufficialmente il partito della Lega Nord, era colui che poi divenne noto nel corso degli anni come il Senatùr, ossia Umberto Bossi, il quale, sin dall’inizio della sua creazione politica, quando ancora quella Lega non esisteva come unico soggetto, ma era frammentata in vari movimenti autonomisti, diede il via all’utilizzo di un modello comunicativo dirompente per l’epoca.

Sin dalla fine degli anni Ottanta, Bossi, in un contesto di particolare vuoto identitario dal punto di vista ideologico in cui si assiste alla nascita e allo sviluppo di vari movimenti di tipo regionalista in tutta Europa, riesce nell’impresa, decisamente ardua in quel determinato periodo storico, di fornire una forma chiara di identificazione ai suoi elettori e militanti. Il leader leghista comprende, infatti, sin da subito che il vuoto nella classe politica italiana, verificatosi in concomitanza con eventi storici che hanno generato il mutamento delle condizioni socioeconomiche e la conseguente dissoluzione degli ideali, può essere colmato con una narrazione appunto etno-regionalista. Narrazione che nel corso del decennio continua ad attrarre consensi.

Basti pensare che dal 1983, anno in cui la prima delle “leghe”, ossia la Liga Veneta, ottenne un seggio alla Camera ed al Senato, ai primissimi anni Novanta, vi è stata una continua e repentina radicalizzazione del sentimento indipendentista nell’Italia settentrionale, al punto che all’elezioni amministrative del 1990 in Lombardia la Lega divenne il secondo partito dietro la DC.

Così, sin dall’inizio, Umberto Bossi sviluppa una narrazione basata su una dicotomia ben precisa, ossia “noi” contro “loro”, “amico” vs “nemico”, diventando questa uno degli strumenti chiave nel processo di costruzione del consenso politico. Bossi idealizza, dunque, da una parte l’avversario incarnato dall’establishment e dall’altra il “sogno padano”, per quel “suo popolo” sempre più soffocato da quell’eterno romanocentrismo che caratterizza la politica italiana.

Nell’arco di pochissimo tempo quella narrazione bossiana, nonostante l’utilizzo frequente di simboli e ritualità spesso privi di fondamenti storici, riesce a rientrare in quello che nel marketing politico viene definito “racconto garante”, grazie anche ad una svolta epocale dal punto di vista del linguaggio.

Bossi è consapevole, infatti, che in quel periodo storico in cui vi è un forte sentimento di repulsione nei confronti della vecchia classe politica, deve apparire come un outsider, e comprende che l’uso di epiteti volgari ed offensivi sono in grado di arrivare direttamente al suo elettorato di riferimento, mostrandolo sempre di più come quel semplice uomo “duro” e “deciso” che si butta in politica per proteggere la “sua” Padania.

Strategia narrativa di outsider facilitata proprio dall’utilizzo di quel suo linguaggio particolare, come il frequente uso del dialetto, attraverso il quale riesce a trasmettere una nuova idea di rappresentanza, idonea a folgorare, specialmente nei primi anni, un elettorato di ceto medio-basso, fortemente diffidente nei confronti dell’élite.

Quella sua cornice narrativa, rappresentata e messa in atto attraverso sia un’ampissima e fortemente evocativa gestualità, sia tramite un linguaggio decisamente popolare, perforarono in maniera sempre più profonda l’opinione pubblica, delineando al contempo il profilo politico del partito. Narrazione che diventa sempre più persuasiva anche attraverso quel continuo utilizzo di slogan che, irrompendo sulla scena politica unitamente al famoso dito medio alzato e alla voce roca, vengono accolti con enorme entusiasmo, diventando presto, come affermato dall’antropologa Lynda Dematteo, la “maschera stessa del suo popolo”.

In tal modo, per circa un ventennio, Bossi ha rappresentato il leader indiscusso di un’intera fetta di elettorato disilluso verso i partiti tradizionali e ammaliato da quel “sogno padano”, unendo sotto un’unica ala le varie culture e ideali che le differenti leghe iniziali incarnavano. La rappresentazione manifestata attraverso i vari riti, come le “ampolle sacre del Dio Po”, “il sacro prato di Pontida”, l’illusione secessionista da attuare con un parlamento padano, diventano dunque l’emblema del cambiamento, e quel linguaggio totalmente nuovo rispetto al politichese della Prima Repubblica, insieme allo stile ed all’abbigliamento totalmente differenti da quello dei colleghi, costituiscono gli elementi essenziali di quella stessa narrazione.

Anche dopo la parentesi di governo con Berlusconi e Fini, Bossi riesce comunque a sviluppare una narrazione coerente a quella che ha contribuito a costruire il suo successo, a differenza di quanto, ad esempio, è accaduto a Matteo Salvini dopo la parentesi all’interno del Governo Draghi, da cui non riuscì più a recuperare il consenso guadagnato nel periodo in cui si dichiarava forza antisistema, pagando caro tutt’oggi quell’esperienza.

Tramite l’evocazione di gesta eroiche e sfide impari, infatti, Bossi rigetta l’alleanza con Forza Italia, accentuando ancora di più quel carattere di partito anti-establishment, elemento fondante della Lega e del suo Leader, il quale, con lo sviluppo di una narrazione tanto dura quanto vicina a quella degli anni Ottanta, alle politiche del ’96, imposta una campagna di assoluta contrapposizione sia contro “Roma-Polo”, sia contro l’opposto schieramento definito “Roma-Ulivo”. Nonostante quegli otto mesi al governo, il leader leghista si dimostra in grado di solleticare nuovamente i desideri secessionisti, accentuati dal continuo sviluppo di quella rappresentazione mitologica-secessionista che raggiunge in quegli anni il culmine con l‘inaugurazione della “festa dei popoli padani” e che permetterà a Bossi di raggiungere il massimo storico sino a quel momento (10,4%).

Anche negli anni duemila Bossi continuerà con quella sua narrazione barricadiera, e pur non raggiungendo più i risultati ottenuti negli anni Novanta (complice la malattia che lo colpirà nel 2004 e gli scandali che toccheranno lui e il suo partito), la sua figura storica di leader fondatore rimarrà intaccata all’interno dell’elettorato leghista, anche dopo le dimissioni da segretario e la fuoriuscita dai vertici decisionali del partito.

Oggi, trentacinque anni dopo quelle elezioni che portarono la Lega per la prima volta all’interno del Parlamento Europeo, quel partito, con le sue idee e con quello storytelling, non esiste più. Ha cambiato, infatti, leader, simbolo, volto e messaggio, ha sviluppato una narrazione differente nel contenuto ma non nella sua esposizione, mantenendo inoltre quel linguaggio duro e al contempo comprensibile all’elettorato di riferimento, ormai figlio di quel “rovesciamento linguistico”, di cui Umberto Bossi, come afferma correttamente il Professore di Linguistica italiana, Michele Cortelazzo, va riconosciuto quale vero antesignano.

 

Francesco SpartàGiornalista e Teaching Assistant

Previous slide
Next slide
Previous slide
Next slide
Previous slide
Next slide