Gli ultimi sondaggi sul voto europeo mettono il sorriso a Giorgia Meloni, non guastano l’umore a Elly Schlein e sorprendono piacevolmente Antonio Tajani. Inarca il sopracciglio Matteo Salvini, che dovrà lottare fino all’ultimo per non essere superato da Forza Italia. Per Giuseppe Conte, se le previsioni troveranno conferma nelle urne, il dopo voto potrebbe rendere molto complicata la sua leadership sui Cinquestelle. Renzi e Calenda rischiano di pagare un prezzo pesante ai mesi di rancore personale a causa del quale hanno distrutto la prospettiva di quel “terzo polo” su cui aveva scommesso una fetta non irrilevante di elettori.
I sondaggi sulle intenzioni di voto degli italiani fotografano il sentiment di circa 44 milioni di elettori. Dal 10 giugno, però, aperte le urne e contate le schede, vincitori e sconfitti in Italia, dovranno alzare lo sguardo per capire e analizzare il voto degli altri 400 milioni di elettori negli altri 26 Paesi dell’Unione. In quel momento si aprirà un’altra e più complessa partita.
Complessa al punto che il trionfo elettorale di un partito in Italia potrebbe risolversi per quello stesso partito in una disfatta politica a Bruxelles. E viceversa.
Non è opera di magia nera o di qualcuno di quegli stregoni maligni, spesso evocati dagli antieuropeisti di casa nostra. È che le grandi famiglie politiche europee non possono disegnare strategie di alleanze continentali se poi queste sono in conflitto con le rispettive strategie nazionali. Proviamo a spiegare meglio. Sulla base dell’art. 17 del Trattato sull’Unione europea, il presidente della Commissione deve essere indicato, a maggioranza qualificata, dal Consiglio europeo (composto dai primi ministri, presidenti del Consiglio o, nel caso della Francia, dal presidente della Repubblica). Lo stesso articolo dispone, ma non obbliga, che sia scelto fra i candidati del primo partito al Parlamento europeo.
Quindi, dopo il 10 giugno, gli attuali primi ministri in carica si riuniranno e come prima cosa valuteranno l’esito del voto nei 27 Paesi ma, soprattutto, dovranno valutare la composizione del Parlamento europeo uscita dalle urne. Per la ragione che il presidente della Commissione indicato dal Consiglio europeo dovrà ottenere la ratifica dalla maggioranza del Parlamento.
Come si stanno organizzando i partiti per affrontare questi passaggi?
Non è facile trovare una risposta chiara e ancor meno esaustiva. Viene facile da dire che non si può mettere il carro davanti ai buoi. Più utile è partire dalle dichiarazioni ufficiali. Meloni, presidente del gruppo conservatore, ha chiarito che mai entreranno in alleanze che comprendano forze di sinistra. I leader socialisti, riuniti a Roma a fine marzo, a loro volta hanno
assicurato che mai accetteranno di entrare in alleanze con forze di destra. Di più: hanno indicato nel socialdemocratico Schmit il loro spitzenkandidat (candidato preferito o di punta), cosa che non hanno fatto i Popolari europei, attualmente primo gruppo e probabilmente confermato in questo primato.
Poste così le rispettive pregiudiziali della sinistra e della destra conservatrice-radicale, viene offerto su un vassoio d’argento il potere di coalizione alle forze di mezzo, più esattamente al movimento Renew Europe, frutto della fantasia di Emmanuel Macron e del suo braccio destro a Strasburgo, Sandro Gozi.
C’è una questione che si apre anche per lui
Si può chiedere a Macron di accettare fra i suoi alleati Marine Le Pen, sua avversaria irriducibile nelle due ultime presidenziali? Il ministro italiano Tajani dice di lavorare per una maggioranza di centrodestra in Europa, cosa che al momento appare più come un miraggio che un’ipotesi realistica. La Cdu, partito decisivo per il Ppe, ha di fatto esautorato la presidente uscente della Commissione.
Ursula von der Leyen non ha certo brillato per sottigliezza politica e men che meno per determinazione, visti i cedimenti alla visione di un ambientalismo ideologico caro al suo vice, l’olandese Franz Timmermans.
Il Ppe si trova di fatto senza un suo spitzenkandidat. Trovandolo, perché dovrà pur trovarlo se i sondaggi sembrano confermarlo primo gruppo dopo il 9 giugno, per la Cdu si pone un problema rilevante: potrebbe mai accettare i voti di Alternative für Deutschland, partito tenuto ai margini del perimetro costituzionale in Germania al punto che un candidato governatore di un land dell’Est è stato espulso dalla Cdu per aver accettato i voti di AfD?
Come si vede, il mosaico è molto complicato e mandare tutte le tessere al posto giusto non sarà facile per nessuno.
Chi corre qualche rischio in più è la presidente Meloni.
Da quando, nel 1979, si elegge il Parlamento europeo non è mai accaduto che il partito di maggioranza relativa in Italia si sia trovato all’opposizione nell’elezione del presidente della Commissione, e neppure che i suoi parlamentari europei non abbiano ratificato e approvato la scelta del presidente di Commissione. Vincere in Italia, per Meloni, è senz’altro importante, ma restare fuori dalle decisioni per i nuovi equilibri europei sarebbe una pesante sconfitta politica con ripercussioni non indifferenti in Italia.
Jean- François Paul de Gondi