C’è un modello ricorrente che viene adottato quando il potere dominante vuole orientare l’opinione pubblica verso la disponibilità alla belligeranza e a un possibile intervento militare: si costruisce una cosiddetta narrazione morale degli amici “buoni contro i nemici cattivi” anche approfittando, se il caso, anche di risultanze oggettive, come il cattivo Saddam, il cattivo Milošević, il cattivo Gheddafi, il cattivo Putin.
Si alimentano incidenti, si provocano tensioni, si fanno apparire anomalie di basso spessore come gravissime, irrevocabili vere e proprie emergenze. Si drammatizza il contesto, poi si presenta la guerra come inevitabile. Da un po’, oggi, si preferisce dire difensiva. E si martella in continuum con un’insistenza mediatica straordinaria.
Non ci sono complotti in questo schema, è semplicemente una strategia codificata di comunicazione politico-militare, non solo statunitense. È lo schema seguito anche nella vicenda ucraina, percorso che trova nei media uno strumento essenziale. Coloro che guidano l’ambaradan hanno un fine preciso, lo stesso da secoli: far percepire una volontà di guerra, contro nemici cattivi con capi peggiori degli stessi popoli. Il tutto per obbiettivi che appaiono universali e legittimi, come difendere la patria, la libertà propria e altrui dalle brame del cattivo di turno.
Oggi esistono mille segnali per comprendere che l’allarme e il metus scatenati rispondono a un empito propagandistico neppure di eccelsa fattura. Il “Dobbiamo essere pronti a combattere la Russia” è stato declinato in più modi dall’orda gregaria dei politici europei. Concetto che ribalta il principio sempre invalso nelle democrazie liberali del “Se vuoi la pace, prepara la pace”. Nella neolingua in voga oggi si parla di deterrenza che sostituisce, nella forma, il più puntuto “Si vis pacem, para bellum”, ma esprime lo stesso concetto.
La strategia della deterrenza fa il paio formale con guerra difensiva e missione di pace, e con tutto il linguaggio studiato per assolvere a priori chi guerreggia, vende armi, cerca pretesti plausibili ai suoi interessi spesso espansivi e economici. È in questo contesto che vanno lette le dichiarazioni all’apparenza gravissime sul piano inclinato verso la soluzione bellica dei leader europei e della presidente Ursula von der Lyen. Con diverse sfumature e gradi di intensità tutti allertati contro la Russia e alcuni addirittura pronti a armarsi e partire.
L’Italia non fa eccezione. Mentre la Presidente del Consiglio è più in linea con i suoi fondamentali e il ministro della Difesa coerente con le sue ansie di produrre e acquistare armi, stupisce di più la posizione del Presidente della Repubblica, di cultura cattolica, sociale e pacifista, divenuto anch’egli alfiere della deterrenza. Per non parlare dell’ (ir)responsabile NATO che parla dinanzi al mondo di guerra preventiva dell’Alleanza Atlantica.
In tutti questi comportamenti è facile leggere molta propaganda dedicata a rendere plausibile un significativo impegno negli armamenti. Si sta preparando l’opinione pubblica a nuove discutibili spese, non a una guerra. Lo sanno tutti gli attori. Poiché oggi a differenza di situazioni simili del passato, una guerra con la Russia comporterebbe un impiego massiccio di armi nucleari con la distruzione pressoché immediata, per esempio, di Londra, Parigi, Berlino, Roma…
Ecco anche perché la realpolitik, oltre a tutte le altre motivazioni, suggerirebbe comportamenti meno irresponsabili. Non essere amici della Russia, ma neanche nemici. Non essere nemici degli Usa ma neanche amici. Questa sarebbe la ovvia scelta di ogni statista, se ve ne fossero. Sarebbe anche la formula ideale per ottenere il rispetto e tutelare gli interessi nazionali degli Stati continentali. Senza contare che un dr. Stranamore qualsiasi, il delirante di turno, congiunture avverse, imprevisti e il Caso sono sempre in agguato.




