Moro, 1975. Quando l’Italia era davvero battistrada dell’Europa…

Nel 1975 Moro inventò la risoluzione che portò alla elezione diretta a suffragio universale del Parlamento Europeo. Alla fine di un cammino di “mediazione alta” tipica del grande politico barese. Nel 1985 Craxi… fece il Craxi… a favore delle scelte europee, che poi portarono a Maastricht. Due anniversari di presidenze italiane dell’Europa che è bene non dimenticare. Proponiamo l’analisi di Roberto Di Giovan Paolo pubblicata su “EUROPA 2028 The European Magazine” anno I / n. 2

Ci sono anniversari che non lasciano il segno. Rimangono nella mente solo di storici e pochi lettori interessati. Quando va bene. Ma in fondo è il rischio di tutti gli anniversari. Eppure, qualcuno potrebbe suscitare ancora interesse perché conferma la teoria di Marc Bloch in Apologia della Storia, che la storia parla sempre di noi, ora, in questo momento. In altre parole, che ogni storia, crocianamente parlando, è storia contemporanea. Se posso permettermi il giudizio – ovviamente di parte perché ne sto scrivendo – questo vale per il ricordo di due semestri di Presidenza italiana dell’Europa: i quarant’anni dalla Presidenza 1985 del Governo Craxi, e ancor più per i cinquant’anni dalla Presidenza italiana del semestre luglio-dicembre 1975, Presidente del Consiglio, Aldo Moro. Una forzatura politica “benedetta”. Anzi, Benedetto.

Nel primo caso il Governo italiano, rispolverando un articolo del Trattato costitutivo della Cee ancora in vigore allora, mise ai voti un emendamento che prevedeva la nascita di una Commissione intergovernativa per la revisione dei Trattati. La proposta venne approvata con il quorum previsto, a maggioranza, e aprì così una novità procedurale e anche la strada all’Atto Unico del 17 febbraio 1986 che, a sua volta, consentì di gettare le basi per il Trattato di Maastricht. Un atto di coraggio ed una tipica “forzatura politica” di Benedetto, detto Bettino, Craxi, legittimata però dalle norme CEE.

Un atto fondamentale che ci parla di voto a maggioranza e della strada spianata verso un Trattato che è alla base delle scelte future, anche dell’euro. In buona sostanza una forte scelta politica a favore dell’Europa moderna che oggi conosciamo, e che ancora in questo 2025 si ingarbuglia talvolta su diritti di veto e cooperazione rafforzata. Un precedente importante, che però avveniva già nell’ambito di una Europa nuova, che sentiva la paura ma anche il desiderio del nuovo, alla vigilia del dissolvimento dell’Europa dell’Est, con Gorbaciov alle prese con la Glasnost e Mitterrand e Thatcher impegnati in un “braccio di ferro” sul primato in Europa dal punto di vista culturale ed economico.

Anni di crisi mondiale… però anche di speranze

Aldo Moro, invece, dieci anni prima, si muove ancora in un mondo dominato dalla guerra fredda nel suo massimo dispiegamento, con i Paesi divisi tra due blocchi, Usa e Urss, e poche eccezioni nei cosiddetti “Paesi non allineati”. Erano gli anni segnati da una nuova parola, presa di getto dai manuali di economia: “stagflazione”, ovvero l’inflazione più il calo pro- duttivo, seguita alla crisi del 1973. Crisi petrolifera di nome, ma anche e forse soprattutto politica, anzi geopolitica a tutto tondo, con la inedita “presa di parola” di alcuni “ex Paesi in via di sviluppo” che avevano dato vita prima all’Opec e poi con essa, ad una clamorosa protesta con la diminuzione” programmata” di produzione del petrolio, che portò ai tempi della crisi alla cosiddetta “austerity”. Si annunciavano per davvero “tempi nuovi”, che non a caso Aldo Moro segnalava in molti dei suoi interventi di politica interna o estera.

La situazione complessiva era quella di un immobilismo planetario in cui si univano un misto di prudenza diplomatica e di paura reciproca.

Consideriamo alcuni fatti: nell’ anno cruciale 1973, mentre il mondo, soprattutto quello “occidentale”, come detto, scopriva che alcuni Stati, Arabi soprattutto, ma anche Paesi in via di sviluppo come Brasile o Venezuela in America Latina, potevano arrivare a chiudere i rubinetti della benzina perfino a casa loro, c’è tempo anche per un conflitto che rischia di degenerare e entra pienamente nella questione della crisi petrolifera, e dunque politica ed economica (allora la gerarchia era questa ndr). È la guerra dello Yom Kippur, un conflitto armato combattuto dal 6 al 25 ottobre 1973 tra una coalizione di eserciti arabi, composta principalmente da Egitto, Siria e Giordania, alleatisi per combattere contro Israele. Una Guerra lampo vinta forse a sorpresa (ma non troppo) da Israele, che non doveva certo finire lì, come sappiamo, ma che – al tempo – viene fermata quasi immediatamente, in virtù di un consenso internazionale ad operazioni di distensione che sembravano aver raggiunto il loro apice con l’uscita degli Usa dalla Guerra del Vietnam per gli accordi di Parigi del gennaio del 1973 (in realtà come sappiamo la guerra terminò poi solo il 30 aprile 1975 con l’ingresso a Saigon del Vietnam del Nord). E mentre gli Usa si leccavano le ferite, drammatiche soprattutto a livello psicologico, della guerra del Vietnam, l’Urss insisteva nella sua teoria della “Non ingerenza” che significava, di fatto, nelle loro intenzioni, mano libera nei Paesi oltre la cortina di ferro in Europa e nei paesi dichiaratamente alleati del movimento socialista internazionale – Cina a parte – che faceva riferimento all’Unione Sovietica.

Insomma, un Risiko da giocare senza dadi!

Uno scacchiere mondiale completamente bloccato, ed una Comunità Economica Europea divenuta a nove con l’ingresso di Danimarca, Irlanda e Gran Bretagna, in cui ancora faticavano a venir fuori ragioni comuni, oltre la volontà ideale di stare assieme. Aldo Moro conosceva bene la situazione. L’aveva praticata da Ministro degli Esteri ed aveva già effettuato una apprezzata visita a Mosca dopo quella invero non proprio positiva negli Usa (buona accoglienza di Nixon, ma il “poliziotto cattivo” Kissinger, fu davvero molto “cattivo”, forse fino alle minacce… è cosa nota).

In questo contesto quello che emerge negli anni tra il 1970 e il 1975 è un Moro tessitore di rapporti anche sul piano internazionale. Inflessibile sulla dimensione democratica, assente nei Paesi comunisti (chi non capisce questo di Moro ciarlando di “cedimenti” ideologici, non lo comprenderà mai fino in fondo) ma aperto al dialogo in nome di una fede “laica” nelle evoluzioni democratiche favorite dal diritto, anche quello internazionale, che lo aveva visto impegnato sin dai tempi della Costituente. E questo è una cosa fondamentale da comprendere perché, prima della Presidenza europea che ebbe il momento cruciale l’1 e 2 dicembre del 1975 a Roma, Moro fu il protagonista di un altro avvenimento mondiale di assoluto rilievo e che ci aiuta a capire cosa sortì poi dalle decisioni del semestre italiano di presidenza. Stiamo parlando della storica Conferenza di Helsinki, con la firma del suo Atto Finale, il 1° agosto 1975.

Helsinki

In realtà i lavori finali che portarono alla significativa firma – oggi potremmo dire “epocale” – si svolsero dal luglio 1973 al luglio 1975 (a Helsinki e Ginevra) con elaborate trattative (anche precedenti) che avrebbero condotto poi all’Atto finale sottoscritto dai Capi di Stato e di Governo di 35 Paesi (tra cui Usa e Urss), il 1° agosto 1975. A questo insieme di riunioni venne dato il nome di Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa (CSCE). Moro l’aveva favorita, seguita, indirizzata, prima da Ministro degli Esteri poi da Presidente del Consiglio. Il ruolo dell’Italia fu molto attivo e Moro negli anni che la precedettero non andò solo a Washington e Mosca, bensì parlò con leader “minori” anche ad est che potevano aiutarlo nelle caute aperture di un tempo in cui la politica estera rimaneva sempre molto immobile nel chiuso delle Cancellerie, non solo europee.

L’ Italia propose alla Cee, e la Cee alla Conferenza, di “spacchettare” le grandi questioni in tre “cesti”: quello della sicurezza tra Stati; quello della cooperazione economica, scientifica e tecnica; infine, quello che avrebbe incardinato le questioni relative alle persone e le loro libertà anche di idee, informazione e cooperazione culturale. Lo “spacchettamento” rese i colloqui meno rigidi e la preparazione del 1972 e i primi mesi del 1973 aiutò a creare un clima di collaborazione che continuò nei colloqui a Ginevra dal 1973 al 1975. Moro intervenne anche direttamente con proposte “italiane”, per esempio, proponendo assieme alla Polonia un ragionamento sull’abbandono dell’uso della forza o della minaccia tra Stati. Ora era evidente che questo si segnalava particolarmente per la proposizione da parte di una Nazione del Blocco orientale ed una delle più sicure alleate Usa e Nato.

Ma non fu l’unica occasione di convergenza. L’Italia di Moro contribuì molto a presentare documenti con gli altri Paesi CEE, a segnalare un investimento morale e politico nella costruzione della nuova Europa. L’Atto finale introduceva anche una speciale Raccomandazione sul Mediterraneo, altro punto focale per il nostro Paese e di frizione tra Israele e Paesi Arabi, una questione divenuta ormai di valenza mondiale “per interposto Stato”, anche tra Usa e Urss.

L’Atto conclusivo della CSCE fu firmato, come detto, il 1° agosto 1975 e Aldo Moro siglò tale Atto come Presidente del Consiglio italiano ma anche come Presidente di turno Cee. Cosa importante e da lui sottolineata nel suo intervento perché introduceva una responsabilità collettiva verso l’“esterno”, gli altri Paesi firmatari, da parte di tutti i membri Cee. Una responsabilità collettiva europea accanto a quella nazionale, classica, dei loro singoli Paesi. “Abbiamo cercato di riconoscere, ma non di cristallizzare la realtà” disse Aldo Moro con un eloquio che la politica italiana conosceva bene. E ancora: “(È importante) non deludere le attese e rispondere alle sfide della nostra epoca con uno spirito di concretezza, di giustizia, di pace, di comprensione, di lealtà, che faccia sentire i suoi benefici effetti al di là di ogni schieramento”.

Non è una divagazione, Helsinki 1975. Solo se la si confronti alle difficoltà dell’oggi. Solo che la si confronti al tentativo di allora ed allo scacco di oggi di dare una dimensione di cooperazione e sicurezza a tutti i 35 partecipanti; che potesse far intravvedere passi avanti, magari ognuno davanti a sé, non immediatamente verso gli altri, quando questo non sembrava ancora possibile. E soprattutto considerato il peso storico, politico e diplomatico, che Francia e Gran Bretagna portavano in seno al mondo, il fatto che Moro fosse riuscito a far apporre la firma del Presidente semestrale e temporaneo delle Comunità Europee a fianco degli Stati nazionali divenne di per sé un fatto storico. Helsinki 1975 rimane per certi versi un “unicum” nella storia e andrebbe attentamente studiata e comunque, nella nostra particolare riflessione, ci aiuta perfettamente a rendere chiaro che con quella firma alle spalle la proposta di Moro nel Consiglio di fine presidenza italiana del 1 e 2 dicembre non poteva che ricevere una spinta propulsiva fortemente rafforzata.

Il semestre italiano e le conclusioni del 2 dicembre 1975

A Roma i nove Paesi CEE formalizzarono il potere di voto del Parlamento Europeo sul bilancio con la creazione di apposita commissione; legittimarono la nascita a breve della Corte dei conti Europea e, su proposta del Presidente Moro, decisero l’elezione diretta del Parlamento Europeo, con l’idea (poi spostata di un anno) di tenere le prime elezioni a suffragio universale nel 1978. Infine, e non poca cosa per l’influsso pratico sulla vita dei cittadini, istituirono il Passaporto Unificato a livello di CEE. Certamente stiamo parlando dell’inizio delle procedure, della loro preistoria, ma con un grande valore a livello politico. Va ricordato che sul Parlamento Europeo c’era una querelle politica in corso. I federalisti europei più convinti avrebbero voluto il sorgere di un’Europa Federale tutta as- sieme nelle sue diverse istituzioni. Una scelta come sempre ideale e ideologicamente “non negoziabile”. Ma i processi storici sono lunghi, tortuosi e spesso legati a vicende politiche nazionali ed internazionali, per cui i tempi storici spesso non coincidono con quelli ideali. Aldo Moro era convinto che rinunciare al suffragio universale per il Parlamento Europeo, perché non si sarebbero fatti passi avanti anche per la creazione immediata di altre istituzioni europee, era sbagliato. Non idealmente ma pragmaticamente, e quindi politicamente. La sua proposta, che passò, era di quelle che si usa definire una tipica, morotea, “mediazione alta”.

Ma di lunghissima gittata, perché già con il suo primo Governo da Presidente del Consiglio, nel 1964, aveva fatto la proposta di un rinnovo di almeno della metà dei membri del Parlamento europeo con il suffragio universale; e ripeté la proposta, nel tempo divenuta ovviamente della totale elezione diretta del Parlamento Europeo, ogni volta che fu Presidente del Consiglio o Ministro degli Esteri. Fino alla realizzazione della decisione il 1 e 2 dicembre 1975.

Due anniversari allora, con una traiettoria che giunge fino a noi, ed una lunga preparazione politica. Che va compresa e tramandata.

Mai stato vittima della nostalgia… Soprattutto di fronte a questi anniversari, che sono ancora ben più reali di quattro battute di politica estera lanciate a caso nei talk show e nei social del 2025… cinquanta o quaranta anni dopo.

 

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